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DUE CALABRIE CHE SI FRONTEGGIANO ALLA PARI: UNA BENESTANTE, L’ALTRA POVERA

CI SONO DUE “CALABRIE”: QUELLA DEL BENESSERE E QUELLA A RISCHIO POVERTÀ

di DOMENICO CERSOSIMO E ROSANNA NISTICÒ – I più recenti dati medi nazionali segnalano, pur in un quadro di sostanziale stabilità della povertà assoluta, un’incoraggiante riduzione dell’incidenza degli italiani a rischio di povertà o di esclusione sociale (Istat 2024).

Questa brezza congiunturale positiva, tuttavia, non rinfresca in modo uniforme il paese: alcune aree, segnatamente diverse regioni del Nord, beneficiano di correnti comparativamente più favorevoli; altrove, la situazione è stagnante o addirittura in peggioramento. La media, come spesso accade, spiega poco: nasconde le differenze tra i territori dove la povertà è un fenomeno fisiologico, contenuto, e quelli in cui invece assume caratteri acuti e persistenti.

La Calabria è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società.

Guardando all’insieme delle regioni d’Europa, nelle prime 50 posizioni della graduatoria ordinata in senso decrescente per incidenza del rischio povertà-esclusione sociale, si collocano, ad eccezione della Basilicata, tutte le regioni meridionali, e di contro, nelle ultime 50 posizioni tutte le regioni del Nord, ad eccezione della Liguria: un’asimmetria acuta che fa dell’Italia il paese Eu con le disparità interne più pronunciate (Eurostat 2024).

La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%), a fronte di valori pari a poco più di un quinto nella media italiana, del 5,8% nella provincia di Bolzano e del 7,4% in Emilia-Romagna. Anche all’interno del Mezzogiorno, il gap è notevole: addirittura 24 punti in più in Calabria rispetto al Molise e oltre 21 nei confronti della Basilicata.

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Anche con riferimento al sub-indicatore “rischio di povertà”, il picco calabrese è elevatissimo: 41 calabresi su 100 vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella della Provincia di Bolzano e sette volte più alta di quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Rispetto agli altri due sotto-indicatori che concorrono a definire la popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, la quota di calabresi che deve fronteggiare una “grave deprivazione materiale e sociale” (20,7%) è pressoché uguale e quella dei soggetti caratterizzati da “bassa intensità lavorativa” (20,9%).

Dunque, più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese. Nella media nazionale, gli italiani costretti a così gravi deprivazioni sono il 4,7% ma in Emilia-Romagna sono meno dell’1%.

Più di un quinto sono anche i calabresi tra 18 e 64 anni che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (soprattutto quelle più numerose e con più figli), ossia che hanno lavorato meno del 20% del loro tempo potenziale, e che conseguentemente percepiscono retribuzioni insufficienti per uscire dal rischio povertà.

Ancora. La Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione, a testimonianza tanto del deficit strutturale della domanda di lavoro locale quanto del fatto che il lavoro di per sé non è in grado di tutelare da situazioni di grave difficoltà economica, soprattutto nel caso dei lavoratori dipendenti a tempo parziale e con basse retribuzioni.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6% e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. Da un lato, ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore.

Nell’insieme, sono calabresi che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

Pur prescindendo dalle derive delinquenziali di questi ultimi e di coloro che vivono nell’illegalità perenne dell’evasione fiscale e dello sfruttamento dei lavoratori, si percepisce l’esistenza nella sfera dei benestanti di una Calabria della densità orizzontale, delle cooptazioni, delle arene a geometria variabile dello scambio e della reciprocità particolaristica, clientelare, professionale, e che può aspirare, individualmente, a qualche forma di mobilità sociale ascendente.

Sono i calabresi “estrattivi”, che traggono benefici dallo status quo, dalla politica come “motore primo” degli standard di vita, dai bonus pubblici, dalla dipendenza macroeconomica della regione dal respiratore artificiale della spesa pubblica, che intercetta e beneficia della quasi totalità dei trasferimenti pubblici nazionali ed europei e dei grandi programmi di intervento pubblico destinati allo sviluppo locale. Cittadini che hanno sviluppato speciali abilità di torsione dei provvedimenti pubblici, centrali e locali, alle logiche di riproduzione dei propri benefici, anche degli interventi che astrattamente avrebbero potuto destabilizzare la legittimazione delle loro rendite di posizione; che diffidano dei progetti di trasformazione sociale in nome di una sorta di “apologia del quietismo”.

Cittadini concentrati, nelle parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative) che esso comporta. Ottimati della rendita e della disuguaglianza polarizzata, tesi a mantenere o catturare nuovi vantaggi individuali e non interessati al bene comune. A prendere piuttosto che a contribuire al benessere della collettività.

Poi c’è la “seconda” Calabria, di dimensioni simili alla prima ma radicalmente diversa: quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati che, in quanto tali, non disturbano l’estetica della “prima” Calabria.

Poveri con deprivazioni materiali estreme, con disagi quotidiani e persistenti, con difficoltà ad alimentarsi con pasti adeguati, a vestirsi in modo decoroso, a dormire sotto un tetto sicuro. Sono tantissimi e in crescita: poveri di “partenza”, ascritti dalla nascita. Anche questo gruppo è fortemente composito. Si tratta di anziani soli con pensioni sociali al minimo; lavoratori occasionali e per lo più sommersi, riders, camerieri a ore, operatori di call center, che contribuiscono alla tenuta e alla riproduzione di un’economia locale minuta, informale, e con salari così bassi da non consentire l’uscita dalla trappola della povertà assoluta; giovani, spesso descolarizzati, che perseguono l’autonomia familiare ma che sono imprigionati in lavoretti dequalificati e con salari striminziti; disabili rimasti senza famiglia, con sostegni pubblici assenti o inadeguati; disoccupati scoraggiati che hanno rinunciato a cercare un’occupazione perché hanno perso la speranza di trovarlo; immigrati con difficoltà di integrazione che riescono a racimolare pochi euro al giorno con lavoretti in nero o con espedienti vari; giovani imprigionati nell’eterno limbo del non lavoro, non studio, non formazione. Un catalogo infinito di soggetti, ad evidenza che, parafrasando Lev Tostoj in “Anna Karenina”, ogni povero è povero a modo suo.

Un altro buon quinto di calabresi è, come si è detto, a rischio povertà per la bassa intensità occupazionale: singoli e famiglie spesso alle prese con lavori precari, a tempo, con contratti di part-time involontario, e, di conseguenza, con redditi ben al di sotto della soglia media di un lavoratore a tempo pieno. Sovente, poveri di “arrivo”, “risultato” di politiche assenti o controproducenti.

Ne fanno parte famiglie numerose con occupati per poche ore alla settimana che racimolano un reddito monetario complessivo al di sotto della soglia per soddisfare i consumi essenziali; famiglie di immigrati con difficoltà di integrazione e con percettori di reddito di pochi euro all’ora, soprattutto in agricoltura, in edilizia e nel multiforme e crescente “proletariato dei servizi” a bassa qualificazione.

Sono singoli e famiglie che rischiano un ulteriore impoverimento quando la congiuntura diventa avversa per la perdita dell’occupazione oppure per la contrazione dei trasferimenti pubblici alle famiglie e ai singoli in difficoltà, come l’abolizione del reddito di cittadinanza, favorendo ulteriormente lo scivolamento verso la condizione di grave depauperazione materiale.

A differenza della prima, questa seconda Calabria è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Scie disperse e spesso divergenti, senza sciame. Calabresi che praticano, quando possono, relazioni “verticali” individuali: con la Caritas, con la parrocchia, con i servizi comunali di welfare, con il gruppo di volontariato, con l’impresa di terzo settore, con la mensa sociale. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

A questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante.

I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”. (dn e rn)

[Courtesy Etica ed Economia]

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