L’ECONOMIA CALABRESE E LA NATURA E I
PERSISTENTI RITARDI NEL SUO SVILUPPO

di FRANCESCO AIELLO

T

rent’anni rappresentano un orizzonte temporale sufficientemente ampio per valutare l’evoluzione strutturale di un sistema economico. Utilizzando dati macroeconomici a partire dal 1995, è possibile cogliere non solo gli effetti di lungo periodo dei mutamenti demografici e produttivi, ma anche la capacità dell’economia calabrese di reagire agli shock esogeni e ai cambiamenti del contesto nazionale. In questa prospettiva, il posizionamento della Calabria rispetto al Mezzogiorno, al Centro-Nord e all’Italia offre una chiave di lettura utile per comprendere meglio la natura e la persistenza dei ritardi che caratterizzano il modello di sviluppo dell’economia calabrese.

Il Pil pro capite: la sintesi del divario

Il Pil pro capite rappresenta una sintesi delle dinamiche demografiche e della capacità di generare valore economico. Nel 2023, il reddito per abitante a prezzi costanti 2015 si attesta in Calabria a 17.235 euro, in aumento rispetto ai 15.435 euro del 1995. La variazione, pari all’11,7%, è più bassa di quella del Centro-Nord (+14%) e con la media nazionale (+14,9%). Anche il Mezzogiorno, con un incremento dell’11,3% (da 17.814 a 19.824 euro), mantiene un livello di reddito pro capite più elevato di quello calabrese. Il PIL pro capite si può scomporre nel prodotto tra il tasso di occupazione e la produttività del lavoro (produzione per occupato). In Calabria, entrambi questi fattori hanno mostrato segnali di debolezza lungo tutto il trentennio: il tasso di occupazione è rimasto sistematicamente inferiore rispetto alle altre macroaree e la produttività ha registrato un andamento altalenante, spesso sostenuto da una riduzione del numero di occupati più che da una reale crescita della produzione.

Per comprendere meglio la traiettoria dello sviluppo della nostra regione, analizzeremo questi due elementi in dettaglio nei paragrafi 3-6. Ora, al fine di avere un ordine di grandezza dei divari territoriali, confrontiamo la Calabria con il Centro-Nord. Nonostante la crescita dell’11,7% che abbiamo osservato del Pil pro-capite calabrese, negli ultimi 30 anni il ritardo della Calabria si è ampliato: nel 1995 il Pilpro-capite regionale rappresentava il 58,5% di quello del Centro-Nord; nel 2023 tale rapporto scende al 48,4%. Si tratta di un indicatore chiaro dell’aggravarsi del divario territoriale. I dati consentono anche di osservare se in specifici sotto-periodi si sia avuta convergenza. Emerge che nonostante una moderata crescita fino al 2007, la dinamica del PIL pro-capite calabrese si appiattisce nella fase successiva. Nel decennio 2010–2019, il livello si stabilizza intorno ai 16.500–17.000 euro, mentre il Centro-Nord supera stabilmente i 34.000 euro. La crisi pandemica del 2020 accentua la fragilità del sistema regionale, con una caduta sotto i 16.000 euro, seguita da un recupero molto lento.

In estrema sintesi si può affermare che, rispetto ad altre macroaree, la Calabria ha beneficiato in misura marginale delle fasi di crescita e ha invece subito più duramente gli effetti degli shock. L’evidenza indica che il basso reddito pro capite è il risultato di una combinazione sfavorevole di crescita economica, produttività e demografia, ma rappresenta anche un freno allo sviluppo: limita gli investimenti, riduce i consumi e incentiva la migrazione di capitale umano.

Demografia e popolazione attiva: un declino strutturale

Il livello e l’andamento del Pil pro capite sono anche il riflesso delle dinamiche demografiche, che in Calabria appaiono particolarmente sfavorevoli. Nel periodo 1995–2023, la popolazione residente in Calabria si è ridotta da 2.063.300 unità nel 1995 a 1.850.366 nel 2023, registrando una flessione del 10,3%. La variazione negativa si distingue nettamente dal dato nazionale (+3,8%) e ancor più da quello del Centro-Nord, dove si è osservato un incremento dell’8,1%. Anche rispetto al Mezzogiorno, che nello stesso periodo ha perso il 3,8% della popolazione, la Calabria mostra più criticità.

Il declino demografico calabrese è continuo e privo di fasi di stabilizzazione significative.  A partire dal 2000, l’indice relativo della popolazione scende costantemente, con un’accelerazione tra il 2003 e il 2005 e poi, in misura ancora più marcata, dal 2014 in avanti. Tra il 2014 e il 2023 il calo è di quasi 6 punti percentuali, segno di un processo di spopolamento intenso e strutturale. Nel frattempo, il Centro-Nord raggiunge un picco massimo nel 2017, mentre la Calabria continua a decrescere. A partire dal 2020 anche la popolazione italiana inizia a contrarsi, pur restando ben distante dalla dinamica negativa della Calabria. Nel complesso, la regione si caratterizza per una traiettoria divergente non solo rispetto al Centro-Nord, ma anche rispetto al resto del Mezzogiorno, configurandosi come una delle aree a maggiore contrazione demografica del Paese.

Lo spopolamento ha impatti rilevanti sull’offerta di lavoro, sulla domanda interna e sulla tenuta del sistema territoriale nel medio-lungo periodo. Per esempio, la popolazione in età lavorativa (15–64 anni) nel trentennio 1995–2024 ha sperimentato in Calabria una progressiva riduzione, passando da oltre 1.296.000 persone nel 1995 a circa 1.163.000 nel 2024. Si tratta di una perdita netta di circa 133.000 individui, pari a un calo del 10,3%. A titolo di confronto, la popolazione in età lavorativa si è ridotta del 4,2% in Italia, dell’1,6% nel Centro-Nord e dell’8,8% nel Mezzogiorno. La Calabria, con il suo -10,3%, si conferma come una delle regioni in cui la fragilità della popolazione in età lavorativa si è si è espressa in modo più netto.

Tutto ciò è l’esito di due fattori: da un lato l’invecchiamento della popolazione e il calo delle nascite, dall’altro i saldi migratori negativi, in particolare di giovani e adulti in età da lavoro. Il risultato è una riduzione non solo del numero di potenziali partecipanti al mercato del lavoro, ma anche della qualità della forza lavoro disponibile.

Partecipazione e occupazione: bassa l’aderenza al mercato del lavoro.

Nel 2024, la forza lavoro calabrese ammonta a 601.755 persone, mentre gli inattivi tra i 15 e i 64 anni sono 561.170. Su una popolazione complessiva in età lavorativa di circa 1.163.000 persone, quasi il 48% risulta inattiva. Un valore molto elevato per un’economia avanzata, che riflette una persistente difficoltà di attivazione del capitale umano. La configurazione attuale non rappresenta una novità: nel 1995 la forza lavoro era pari a 656.905 persone e gli inattivi 639.138, con un tasso di inattività del 49,3%. Dopo un parziale miglioramento tra il 1997 e il 2002, le due dinamiche si invertono e, con la crisi del 2008, gli inattivi sono di più della forza lavoro.

Lo stesso problema si può guardare dal lato del tasso di attività. Nel 1995, la Calabria registrava un valore del 50,7%, in linea con il dato medio del Mezzogiorno (50,8%), ma ben al di sotto del Centro-Nord (66,2%). L’indicatore cresce lentamente fino al 2008 (54,6%) per poi stabilizzarsi e tornare su valori simili a quelli di partenza. Nel 2024 è pari al 51,7%, appena un punto percentuale sopra il livello di trent’anni prima, mentre nel Centro-Nord si mantiene stabilmente oltre il 70%.

In altri termini, la Calabria fatica da tre decenni a coinvolgere stabilmente la propria popolazione attiva nel mercato del lavoro. Il dato riflette non solo una più debole partecipazione femminile, ma anche una radicata sfiducia nella possibilità di accesso al mercato del lavoro. La presenza di migliaia di persone in età attiva disimpegnate dalla partecipazione economica rappresenta uno dei principali vincoli allo sviluppo della regione.

Passando dal potenziale alla concreta utilizzazione della forza lavoro, la dinamica dell’occupazione rafforza la lettura “declinista” dell’economia calabrese. Nel trentennio si osserva una contrazione del numero di occupati da 559.000 nel 1995 a 540.000 nel 2024 (-19.000 unità). A differenza di quanto avviene nel resto del Paese, dove gli occupati aumentano (+4,7% in Italia, +10,3% nel Centro-Nord), in Calabria si registra una riduzione, che risulta particolarmente significativa tra il 2008 e il 2014 e nel biennio pandemico 2020–2021. Il picco massimo di occupazione si osserva nel 2008 con oltre 595.000 occupati. Il minimo è 510.000 unità riferito al 2014. Dopo una parziale ripresa, la crisi pandemica del 2020 determina un nuovo arretramento. Solo nel biennio 2022–2023 si osserva una certa stabilizzazione, ma i livelli restano inferiori a quelli di inizio periodo.

La dinamica calabrese si distingue da quella nazionale anche per una minore capacità di creare nuova occupazione in fase espansiva e per una maggiore vulnerabilità nei momenti di crisi. Questa evoluzione occupazionale, unitamente alla stagnazione della partecipazione, offre un quadro di persistente debolezza del mercato del lavoro calabrese. Più in generale, la traiettoria dell’occupazione in Calabria suggerisce una debolezza strutturale del sistema economico regionale, incapace di assorbire in modo stabile e crescente la forza lavoro disponibile. Il confronto con le altre aree del Paese evidenzia un ulteriore elemento di fragilità: la distanza tra la Calabria e il Centro-Nord in termini di tasso di occupazione è passata da 21 punti percentuali nel 1995 a 23 nel 2024, confermando l’assenza di processi di convergenza. In trent’anni, la Calabria ha sperimentato una delle peggiori performance occupazionali d’Italia, con effetti evidenti sulla coesione sociale e sulla capacità di attivare dinamiche di sviluppo.

Disoccupazione: livelli elevati e miglioramenti solo apparenti

Nel trentennio 1995–2024, la disoccupazione in Calabria si è attestata su livelli persistentemente elevati, rappresentando uno degli aspetti più problematici del mercato del lavoro regionale. Calcolato come rapporto tra disoccupati e forza lavoro, il tasso di disoccupazione segue tre fasi distinte.

La prima fase (1995–2007) è caratterizzata da un picco iniziale del 22,2% nel 1999, seguito da una graduale discesa fino al 10,8% nel 2007. Questo calo riflette un lento miglioramento della domanda di lavoro, ma anche un progressivo scoraggiamento che riduce la dimensione della forza lavoro. Nella seconda fase (2008–2014), coincidente con la crisi economico-finanziaria globale e la recessione europea, la disoccupazione cresce rapidamente: dal 12,1% nel 2008 si arriva al 24,2% nel 2014, valore massimo della serie. Un dato che evidenzia la drastica perdita di occupati e l’incapacità del sistema produttivo di assorbire l’eccesso di offerta di lavoro. La terza fase (2015–2024) mostra un miglioramento apparente: il tasso scende progressivamente dal 23,2% al 13,3%. Tuttavia, questa riduzione è in larga parte attribuibile al ritiro dal mercato del lavoro di molte persone occupabili. Tra il 2014 e il 2024, gli occupati aumentano di appena 11.000 unità, mentre la forza lavoro si riduce di oltre 40.000. Una parte dei disoccupati ha dunque smesso di cercare lavoro, determinando una flessione del tasso di disoccupazione non accompagnata da una vera ripresa occupazionale.

In valore assoluto, i disoccupati erano poco meno di 100.000 nel 1995, superano i 135.000 nel 2014 e scendono a circa 80.000 nel 2024. Anche qui, il minor numero di disoccupati non riflette un’espansione occupazionale robusta, ma piuttosto una contrazione della partecipazione economica.

Il confronto con il resto del Paese conferma l’anomalia calabrese. Nel 1995, il tasso di disoccupazione in Calabria era al 15%, contro l’11% dell’Italia e l’8% del Centro-Nord. Nel 2014, la Calabria raggiunge il 24,2%, mentre l’Italia si ferma al 13% e il Centro-Nord al 10%. Nel 2024, il tasso calabrese è ancora al 13,3%, a fronte dell’8% nazionale, del 4% nel Centro-Nord e del 12% nel Mezzogiorno. Il divario con il Centro-Nord è oggi di quasi 10 punti percentuali.

Si ha, quindi, qualche conferma che la riduzione della disoccupazione, quando si manifesta, non segnala un miglioramento strutturale, ma riflette fenomeni di scoraggiamento e fuoriuscita dal mercato del lavoro, che impoveriscono ulteriormente il tessuto produttivo e limitano le prospettive di sviluppo regionale.

Valore aggiunto aggregato: una crescita discontinua e debole

Espresso a prezzi costanti 2015, il valore aggiunto della Calabria passa da 28,6 miliardi di euro nel 1995 a 29 miliardi nel 2023, con un incremento cumulato del +1,7%. Si tratta di una crescita molto contenuta, soprattutto se confrontata con l’aumento osservato a livello nazionale (+21%), nel Mezzogiorno (+8,7%) e, in misura ancora più marcata, nel Centro-Nord (+25%). Questo divario evidenzia la bassa capacità del sistema produttivo regionale di generare espansione economica nel lungo periodo, anche in un contesto di stabilità macroeconomica.

L’evoluzione temporale consente di distinguere diverse fasi. Tra il 1995 e il 2007, la Calabria registra una crescita in linea con le altre macroaree: nel 2007 l’indice supera quota 115, poco al di sotto della media nazionale. Tuttavia, la crisi del 2008–2009 rappresenta un primo punto di discontinuità. Mentre il Centro-Nord recupera rapidamente (superando quota 120 già nel 2010), la Calabria entra in una fase di stagnazione e poi di declino. Un secondo momento di frattura si osserva a partire dal 2012: mentre l’Italia e il Centro-Nord riprendono gradualmente a crescere, la Calabria e l’intero Mezzogiorno seguono una traiettoria divergente. Il valore aggiunto della Calabria si contrae quasi ininterrottamente fino al 2020, anno della pandemia, in cui tocca il minimo relativo (indice intorno a 87). In nessun’altra area del Paese si osserva una caduta così profonda. La ripresa successiva, pur visibile, è più contenuta: nel 2023 l’indice calabrese è ancora al di sotto del livello del 2007 e poco al di sopra del valore del 1995.

I dati del valore aggiunto aggregato segnalano la fragilità della struttura produttiva regionale, incapace di resistere agli shock esogeni e poco reattiva nelle fasi di espansione. In questo contesto, la distanza accumulata rispetto al Centro-Nord e al dato nazionale assume una valenza strutturale, non più solo congiunturale.

La produttività del lavoro: una crescita senza convergenza

Ulteriori importanti elementi di valutazione sono forniti dalla produttività del lavoro, espressa come valore aggiunto per occupato a prezzi costanti 2015. Questo indicatore mostra che l’Italia è un paese a bassa crescita e che i divari territoriali di sviluppo rimangono ampi, senza alcun significativo segnale di convergenza.

Nel 2023, la produttività del lavoro in Calabria è pari a 55.882 euro, nettamente inferiore a quella del Centro-Nord (75.071 euro), del dato nazionale (70.786 euro) e del Mezzogiorno (58.854 euro). Il divario con il Centro-Nord rimane ampio: nel 1995 la produttività calabrese era il 73,2% di quella settentrionale; nel 2023 è al 74,4%. Questo andamento conferma nuovamente che, in trent’anni, nessuna vera convergenza si è realizzata.

Anche il tasso medio annuo di crescita della produttività conferma la stagnazione: in Calabria è pari a +0,31%, poco sopra il dato nazionale (+0,26%) e superiore a quello del Centro-Nord (+0,25%) e del Mezzogiorno (+0,22%). Tuttavia, si tratta di un incremento debole, privo di un rafforzamento strutturale: la Calabria parte da livelli molto più bassi e non riesce a ridurre significativamente i divari.

Le traiettorie temporali confermano questa lettura. Tra il 2015 e il 2020 la produttività del lavoro in Calabria si contrae da un massimo di 58.493 euro a un minimo di 52.743 euro, con un calo di circa il 10% in cinque anni. Questo arretramento precede l’impatto pandemico, che nel 2020 ha ulteriormente aggravato la situazione. Solo dal 2021 si osserva una parziale ripresa, ma i livelli del 2023 restano inferiori a quelli del 2015. L’analisi comparata evidenzia come le fluttuazioni calabresi riflettano una struttura economica esposta a shock esterni, con bassa capacità di adattamento e scarsa resilienza. È anche utile osservare che le dinamiche della produttività sono spesso l’esito di una contrazione dell’input lavoro piuttosto che di un’espansione reale dell’output. In più fasi – come tra il 2008 e il 2014 e tra il 2016 e il 2019 – la produttività appare sostenuta da una riduzione degli occupati, non da un rafforzamento del valore aggiunto aggregato. Nel confronto con il Centro-Nord, emerge con estrema chiarezza questa differenza: in Calabria la produttività cresce, quando cresce, “per sottrazione”, ossia in presenza di un calo dell’occupazione; al contrario, nel Centro-Nord la crescita è più stabile e coerente con una dinamica di lungo periodo sostenuta da investimenti, innovazione e capacità di adattamento. In sintesi, in Calabria la produttività rimane fragile, discontinua e incapace di contribuire a una crescita duratura.

Le cause strutturali del declino: una specializzazione poco orientata alla crescita

L’analisi della struttura economica regionale evidenzia una specializzazione settoriale che non favorisce la crescita. In Calabria, dominano ancora comparti a bassa produttività come i servizi tradizionali, la pubblica amministrazione e l’agricoltura, mentre risultano sottodimensionati i settori più dinamici, come la manifattura in senso stretto e i servizi ad alta intensità di conoscenza. Nel 2022, l’industria manifatturiera rappresenta solo il 3,8% del valore aggiunto regionale, una quota significativamente inferiore rispetto a quella del Centro-Nord, dove i valori sono più che tripli. Questo comparto ha subito una marcata contrazione: per esempio tra il 2010 e il 2021, il numero di imprese manifatturiere si è ridotto di circa 1.400 unità, mentre gli investimenti si sono contratti del 41%. La marginalità della manifattura compromette la capacità della regione di partecipare alla produzione di beni a domanda globale e ai processi di innovazione industriale. A ciò si aggiunge il peso relativamente elevato dell’agricoltura, che in Calabria rappresenta il 4,4% del valore aggiunto, contro una media nazionale molto più bassa. Anche il settore pubblico incide in modo rilevante: amministrazione pubblica, difesa e istruzione generano il 21,7% del valore aggiunto, a fronte del 14,9% nel Centro-Nord. Analogamente, il terziario tradizionale (commercio, alloggio, ristorazione, trasporti e servizi alla persona) incide per il 32,4%, rispetto al 25,6% del Centro-Nord.

Questa configurazione settoriale penalizza la capacità di crescita: le attività più presenti in Calabria sono, per struttura e dinamica, meno esposte alla concorrenza e meno connesse con le catene globali del valore. La scarsa presenza della manifattura – il comparto che più di altri contribuisce all’innovazione e all’export – è un limite storico e strategico. Le imprese industriali, quando presenti, sono di piccola dimensione, scarsamente capitalizzate e poco orientate ai mercati esterni. Nel complesso, la specializzazione produttiva della Calabria non si è tradotta in vantaggi competitivi né in dinamiche espansive. Al contrario, ha reso il sistema economico più vulnerabile alle crisi e meno reattivo nelle fasi di ripresa. Il risultato è un equilibrio di lungo periodo caratterizzato da bassa produttività, crescita modesta e debole domanda interna, alimentando una spirale negativa difficile da invertire.

Alcune conclusioni

L’analisi dell’evoluzione macroeconomica della Calabria negli ultimi trent’anni restituisce l’immagine di una regione che ha faticato a mantenere il passo con il resto del Paese. Il calo demografico, la stagnazione dell’occupazione e la debolezza della partecipazione al mercato del lavoro si combinano con una crescita del valore aggiunto modesta e una produttività del lavoro instabile, spesso sostenuta da dinamiche legate al ridimensionamento della base occupazionale più che da trasformazioni strutturali.

Il divario rispetto al Centro-Nord non si è ridotto, anzi in alcune dimensioni si è ampliato. L’assenza di processi di convergenza dipende in misura prevalente da una composizione strutturale in cui il settore manifatturiero in senso stretto contribuisce con una quota irrisoria alla creazione del valore aggiunto aggregato, mentre dominano i settori a bassa produttività (agricoltura, servizi maturi, pubblica amministrazione): si tratta di un modello di specializzazione che, evidentemente, non ha saputo assorbire adeguatamente la forza lavoro disponibile, non è stato in grado di adottare o produrre innovazione e, quindi, non ha generato crescita sostenibile.

L’analisi degli ultimi 30 anni suggerisce che la debolezza del sistema economico calabrese ha radici profonde e richiede interventi mirati non solo sul lato delle politiche pubbliche, ma anche su quello dell’organizzazione produttiva e di scelte industriali selettive. In un contesto di persistente fragilità demografica e occupazionale, l’attrazione di investimenti extraregionali e la valorizzazione del capitale umano appaiono condizioni necessarie per favorire un cambiamento strutturale dell’economia calabrese. Per interrompere la spirale regressiva che ha segnato la storia della regione, sarà indispensabile puntare sulla produzione di beni a domanda globale e ad alto contenuto tecnologico e su servizi ad elevata professionalizzazione. In assenza di questa “rivoluzione” del modello di sviluppo dell’economia calabrese, tra trent’anni ci ritroveremo a commentare i dati macroeconomici di una regione ancora più piccola, più povera e più assistita. (fa)

[Courtesy il Quotidiano del Sud  – L’Altra Voce]

LA CALABRIA E I 30 ANNI DI SFIDE TRA
CRESCITA, LAVORO E SPOPOLAMENTO

di FRANCESCO AIELLO – La popolazione residente in Calabria si è ridotta da 2.063.300 unità nel 1995 a 1.850.366 nel 2023, pari a una flessione del 10,3%. A fronte di una sostanziale stabilità della popolazione nazionale (+3,8% rispetto al 1995), e di una crescita nel Centro-Nord (+8,1%), il Mezzogiorno mostra una tendenza negativa (-3,8%). Questi dati testimoniano un progressivo svuotamento della Calabria, con impatti potenzialmente strutturali su offerta di lavoro, domanda interna e tenuta del sistema territoriale.

L’andamento temporale mostra che il declino demografico in Calabria è continuo e privo di fasi di stabilizzazione significative. Già nel 2000 l’indice scende sotto soglia 99, accelerando tra il 2003 e il 2005 e, in misura ancora più marcata, dal 2014 in poi. Tra il 2014 e il 2023 si registra un calo di quasi 6 punti percentuali (da circa 95 a meno di 90), segno di un intenso processo di spopolamento. Particolarmente rilevante è la discontinuità post-2015, periodo in cui la popolazione del Centro-Nord raggiunge il picco massimo (circa 113 nel 2017), mentre quella calabrese prosegue nella discesa senza soluzione di continuità. A partire dal 2020, anche l’Italia nel suo complesso inverte il trend, pur restando ben distante dalla dinamica negativa del Mezzogiorno e, ancor più, della Calabria.

In sintesi, il dato calabrese si caratterizza per una dinamica divergente non solo rispetto al Centro-Nord, ma anche rispetto al resto del Mezzogiorno, configurandosi come una delle regioni a maggiore contrazione demografica strutturale dell’intero Paese.

Valore aggiunto aggregato

Espresso a prezzi costanti 2015, il valore aggiunto della Calabria registra un incremento da 28,6 miliardi di euro nel 1995 a 29 miliardi nel 2023 (+1,7%). Si tratta di una crescita risibile, soprattutto se confrontata con l’aumento osservato a livello nazionale (+21%), nel Mezzogiorno (+8,7%) e, in misura ancora più marcata, nel Centro-Nord (+25%). Questo divario evidenzia la bassa capacità del sistema produttivo regionale di generare espansione economica nel lungo periodo, anche in fasi di relativa stabilità macroeconomica.

L’evoluzione temporale, riportata in Figura 2, consente di cogliere con maggiore dettaglio la dinamica delle singole macro-aree in diversi periodi temporali. Nella prima fase (1995–2007), la Calabria mostra una crescita in linea con le altre aree: nel 2007 l’indice supera quota 115, poco al di sotto della media nazionale. Tuttavia, la crisi del 2008–2009 rappresenta un primo punto di criticità: mentre il Centro-Nord recupera rapidamente (superando quota 120 già nel 2010), la Calabria entra in una fase di stagnazione e poi di lento declino. Il secondo momento di frattura si osserva a partire dal 2012: mentre l’Italia e il Centro-Nord riprendono gradualmente a crescere, la Calabria e l’intero Mezzogiorno seguono una traiettoria divergente. Il valore aggiunto della Calabria si contrae quasi ininterrottamente fino al 2020, anno della pandemia, in cui tocca il minimo relativo (circa 87). In nessun’altra area del Paese si osserva una caduta così profonda. La ripresa successiva, pur visibile, è più contenuta: nel 2023 l’indice calabrese è ancora al di sotto del livello del 2007 e poco al di sopra del valore del 1995.

La Figura 2 segnala la fragilità della struttura produttiva regionale, incapace di resistere agli shock esogeni (2008, 2012, 2020) e poco reattiva nelle fasi di espansione. In questo contesto, la distanza accumulata rispetto al Centro-Nord e al dato nazionale assume una valenza strutturale, non più solo congiunturale.

Produttività del lavoro

Alla debolezza dell’espansione del valore aggiunto aggregato si affianca una dinamica altrettanto contenuta della produttività del lavoro. Misurata come valore aggiunto per occupato a prezzi costanti 2015, indica non solo che l’Italia è un paese a bassa crescita, ma anche che i divari territoriali di sviluppo rimangono ampi senza mostrare alcun significativo segnale di convergenza.

Nel 2023, la produttività del lavoro in Calabria è pari a 55.882 euro, a fronte dei 75.071 euro del Centro-Nord, dei 58.854 euro del Mezzogiorno e dei 70.786 euro della media nazionale. Il divario con il Centro-Nord resta ampio: nel 1995 la produttività calabrese era pari al 73,2% di quella settentrionale; nel 2023 è al 74,4%. Dunque, nessuna vera convergenza si è realizzata: i ritardi rimangono pressoché invariati. Un secondo elemento rilevante è la debole crescita della produttività del lavoro. Sebbene l’incremento percentuale cumulato nel periodo 1995–2023 sia positivo (es. +9,2% in Calabria, +6,1% nel Centro-Nord), il tasso medio annuo composto segnala la presenza di stagnazione: Calabria: +0,31% annuo; Centro-Nord: +0,25% annuo; Mezzogiorno: +0,22% annuo; Italia: +0,26% annuo.

L’Italia si conferma un sistema a bassa crescita della produttività, con effetti sistemici sull’economia nazionale. La Calabria, pur mostrando un tasso annuo medio leggermente superiore alla media nazionale, lo fa partendo da livelli molto più bassi, senza riuscire a ridurre significativamente i divari.

Tra il 2015 e il 2020, la produttività del lavoro in Calabria mostra una tendenza regressiva, passando da un massimo di 58.493 euro a un minimo di 52.743 euro. Questo calo, pari a circa il 10% in cinque anni, segnala un arretramento significativo anche prima dell’impatto pandemico, che nel 2020 ha ulteriormente aggravato la situazione. Solo a partire dal 2021 si registra una parziale ripresa, ma i livelli del 2023 restano inferiori a quelli del 2015, a conferma di una traiettoria debole e discontinua. I dati nazionali mostrano un andamento simile, ma con livelli più elevati e recuperi più rapidi. In altri termini, le fluttuazioni della produttività calabrese riflettono una struttura economica esposta a shock esterni, con bassa capacità di adattamento e scarsa resilienza, anche rispetto al resto del Mezzogiorno.

La Figura 4 mostra per la Calabria l’andamento della produttività del lavoro, degli occupati e del valore aggiunto aggregato (1995=100).

L’aumento della produttività è in larga parte il risultato di una dinamica occupazionale negativa: la contrazione degli occupati ha determinato un incremento meccanico dell’output per addetto, senza un corrispondente rafforzamento del valore aggiunto aggregato. Ciò suggerisce una produttività “per difetto”, indotta dalla riduzione dell’input lavoro, e non “per merito”, ovvero sostenuta da investimenti, innovazione o riorganizzazione produttiva. Fenomeni analoghi si osservano tra il 2008 e il 2014 e tra il 2016 e il 2019: in entrambi i periodi, la produttività si mantiene elevata o stabile a fronte di un calo significativo degli occupati e di un valore aggiunto debole. Solo nel biennio 2021–2023 si osserva una ripresa congiunta di occupazione e valore aggiunto, ma su livelli ancora inferiori a quelli precedenti la crisi del 2008. In questo contesto, il sistema economico calabrese appare poco reattivo, strutturalmente debole e vulnerabile agli shock.

Il confronto con il Centro-Nord rafforza questa interpretazione. In Calabria, l’aumento della produttività del lavoro si realizza in concomitanza con un marcato calo degli occupati, soprattutto tra il 2008 e il 2014, segnalando un effetto composizione. Nel Centro-Nord, invece, la produttività del lavoro presenta una dinamica più stabile, senza crescite spurie legate a riduzioni dell’input lavoro. Qui, sia l’occupazione che il valore aggiunto aggregato mostrano un’evoluzione più equilibrata, con una crescita robusta prima del 2008, un rallentamento contenuto durante le crisi, e una ripresa sostenuta nel decennio successivo. In sintesi, mentre in Calabria la produttività cresce “per sottrazione”, nel Centro-Nord è più coerente con un’espansione reale dell’attività economica, sostenuta da investimenti, innovazione e maggiore resilienza strutturale.

Pil pro capite

Il Pil pro capite è la sintesi delle contrastanti dinamiche demografiche e della capacità di creare ricchezza aggregata. Nel 2023, il reddito per abitante (a prezzi 2015) in Calabria si attesta a 17.235 euro, in crescita rispetto ai 15.435 euro del 1995 (+11,7%). Un aumento miù basso di quello osservato nel Centro-Nord, dove il PIL pro capite è passato da 31.250 a 35.629 euro nello stesso periodo (+14%). Il Mezzogiorno, nel suo complesso, registra un incremento simile a quello calabrese, passando da 17.814 a 19.824 euro (+11,3%), ma mantiene un livello di reddito più elevato.

Nel confronto nazionale, il gap rimane ampio e persistente: il Pil pro capite italiano cresce da 26.376 a 30.320 euro (+14,9%), ampliando la distanza relativa tra il Sud e il resto del Paese. Per avere un’idea dei divari territoriali di sviluppo, basti pensare che nel 1995 il Pil pro capite in Calabria rappresentava il 58,5% di quello del Centro-Nord; nel 2023 tale rapporto scende al 48,4%. Questa dinamica segnala un progressivo peggioramento del posizionamento relativo della regione nel quadro nazionale. In altri termini, in 30 anni i divari regionali di sviluppo sono aumentati piuttosto che ridursi.

I dati indicano che tra il 1995 e il 2007 la Calabria conosce una fase di moderata espansione, raggiungendo un massimo vicino ai 18.000 euro, ma dal 2008 in poi il trend si appiattisce. In particolare, tra il 2010 e il 2019 il PIL pro capite si stabilizza poco sopra i 16.500–17.000 euro, mentre il Centro-Nord si mantiene stabilmente oltre i 34.000 euro. La caduta del 2020, indotta dalla pandemia, porta il PIL pro capite calabrese sotto quota 16.000 euro, per poi risalire molto lentamente negli anni successivi.

Alcune conclusioni

L’analisi dei dati tra il 1995 e il 2023 restituisce un’immagine coerente e preoccupante della distanza crescente tra la Calabria e il Centro-Nord. Il declino demografico si accompagna a una stagnazione della capacità produttiva, una crescita debole della produttività del lavoro e un livello di reddito pro capite che, in termini relativi, arretra ulteriormente. I dati segnalano che il dualismo territoriale italiano non solo persiste, ma si aggrava.

Questa evidenza conferma sia che la regione non ha beneficiato in modo significativo delle fasi di crescita nazionale sia che gli shock macroeconomici colpiscono più duramente le aree strutturalmente deboli, che stentano nelle fasi di recupero. In tale contesto, la bassa ricchezza disponibile per abitante non è solo la risultante di una combinazione sfavorevole di crescita, produttività e demografia, ma è anche un fattore che alimenta un circolo vizioso: ostacola gli investimenti, frena i consumi, e contribuisce alla fuoriuscita di capitale umano, soprattutto giovanile. Qualunque strategia di riequilibrio territoriale dovrà necessariamente affrontare in modo sistemico queste fragilità strutturali. Ne deriva la necessità di politiche territoriali integrate, orientate a rafforzare capacità produttiva, coesione demografica e qualità del lavoro. (fa)

[Courtesy OpenCalabria]

[Francesco Aiello è direttore del Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria]

NON È SOLAMENTE PRECARIO: IN CALABRIA
IL LAVORO SFRUTTA, DISCRIMINA E UCCIDE

di SILVIO CACCIATORE – «Il lavoro in Calabria non è solo precario. È spesso pericoloso, diseguale, silenziosamente violento». Con queste parole la relazione 2024 dell’Osservatorio regionale contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro apre una pagina che non concede attenuanti. Non si tratta di una formula giornalistica, né di una provocazione. È la constatazione di un dato reale, ripetuto nei numeri, nei racconti, nei silenzi. Parlare di discriminazioni nel lavoro, oggi, in questa regione, significa descrivere un sistema in cui la negazione dei diritti non è l’eccezione, ma la condizione diffusa.

Il documento, presentato nella sede del Consiglio regionale, non si limita a raccogliere statistiche. È un atto politico. È un atto d’accusa preciso contro chi governa, controlla, assume, gestisce. Perché se tutto questo continua ad accadere, non è per caso. È perché lo si consente. È perché fa comodo. È perché nessuno ha ancora deciso davvero di cambiare le regole del gioco. L’Osservatorio, guidato da Ornella Cuzzupi, mostra che l’alternativa è possibile. Ma serve chiamare le cose con il loro nome. E oggi il nome è questo: discriminazione sistemica.

La sicurezza negata

I numeri che emergono dalla relazione sono inequivocabili. E cominciano da quello che pesa di più: la vita umana. Nel 2024, in Calabria, 26 persone hanno perso la vita sul luogo di lavoro. La cifra è stabile rispetto all’anno precedente (erano 29), ma questo non è un dato che si possa accogliere come una semplice statistica. «È inaccettabile che non si faccia il massimo, e anche oltre, per evitare simili sciagure» si legge nel testo. Dietro ogni numero ci sono famiglie spezzate, lacrime, assenze che non si colmano. Eppure, come denuncia lo stesso Osservatorio, si continua a trattare il lavoro solo come un’urgenza economica, mentre dovrebbe essere anzitutto una questione di dignità e di sicurezza.

Il dato complessivo sugli infortuni registra un preoccupante aumento: 8.857 denunce nel 2024, con un incremento del +2,04% rispetto al 2023, superiore al +0,7% registrato a livello nazionale. Le province più colpite sono Cosenza (37,7%) e Reggio Calabria (23,3%), mentre la fascia d’età con maggiore incidenza è quella tra i 50 e i 69 anni, che raccoglie oltre un terzo degli infortuni totali. I settori più colpiti sono la sanità, l’amministrazione pubblica, l’edilizia e il trasporto.

Ma il nodo centrale non è solo nella quantità degli incidenti. È nella loro natura strutturale. Perché, come sottolineato più volte nella relazione, «la prima discriminazione da combattere nei luoghi di lavoro è la mancanza di sicurezza». Non si tratta solo di incidenti casuali: si tratta di un sistema in cui il lavoratore viene lasciato solo, spesso ricattabile, senza strumenti per difendersi né garanzie minime per denunciare. Un sistema in cui la precarietà si traduce in esposizione quotidiana al rischio. E dove la rassegnazione ha sostituito la fiducia.

Il lavoro nero come normalità

In Calabria il lavoro nero non è un’eccezione: è un segmento strutturale del sistema produttivo. Lo dicono i numeri, lo confermano le ispezioni, lo testimoniano le storie raccolte sul campo. La regione è la prima in Italia per incidenza del lavoro non dichiarato, con un tasso del 7,9% sul valore aggiunto regionale, il doppio rispetto alla media nazionale. Un dato che non può essere archiviato con leggerezza, soprattutto se messo in relazione con un altro indicatore contenuto nella relazione: il 19,1% dell’intera economia calabrese rientra nell’area dell’economia non osservata, ovvero sommersa.

Nell’area metropolitana di Reggio Calabria, nel 2024, l’Ispettorato ha individuato 179 lavoratori in nero, di cui 52 donne, su un totale di 623 soggetti tutelati. L’INPS, nel solo anno 2023, ha scoperto in Calabria 365 posizioni lavorative completamente in nero e oltre 1.600 rapporti di lavoro fittizi. L’Ispettorato nazionale del lavoro ha certificato irregolarità nel 69% dei controlli effettuati, con picchi superiori al 70% nei settori del commercio e del terziario.

Dietro questi numeri ci sono decine di migliaia di vite che vivono sospese tra ricatto e invisibilità. Il lavoro nero è discriminazione nella sua forma più pura: esclude da ogni diritto, riduce al silenzio, normalizza lo sfruttamento. E spesso riguarda le fasce più vulnerabili della popolazione: donne, giovani, stranieri. Proprio questi ultimi rappresentano circa il 15% della forza lavoro calabrese e sono spesso impiegati in condizioni al limite del caporalato, senza protezione alcuna, nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia e della logistica. La relazione lo afferma chiaramente: la discriminazione è anche il carburante che tiene in piedi l’irregolarità, perché rende più facile isolare, intimidire, dividere.

La violenza sul lavoro ha tanti nomi

Una delle sezioni più inquietanti della relazione riguarda la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. Perché se la discriminazione salariale o contrattuale è un’ingiustizia quantificabile, qui si entra nel terreno più complesso della violenza invisibile, fatta di abusi verbali, prevaricazioni quotidiane, pressioni psicologiche, ricatti e micro-aggressioni. Secondo l’indagine condotta da IPSOS-INAIL, il 60% dei lavoratori calabresi è a conoscenza di episodi di violenza sul posto di lavoro. Ma c’è di più: il 42% ha dichiarato di esserne stato testimone diretto o vittima.

Le forme più diffuse sono la violenza verbale (56%), il mobbing (53%), l’abuso di potere (37%), fino ad arrivare ai casi di violenza fisica (10%). Ma la relazione richiama con forza anche un’altra dinamica, spesso banalizzata o ignorata: la dimensione sessista del lavoro, che si manifesta sotto forma di battute, esclusioni sistematiche, allusioni, mansioni neglette o affidate sulla base di stereotipi di genere. Tutto questo, sottolinea l’Osservatorio, avviene troppo spesso in ambienti privi di qualunque presidio etico e culturale, dove la gerarchia si trasforma in arbitrio e la paura vince sulla consapevolezza.

In questo contesto, denunciare è difficile. Per molti è più sicuro tacere, abbassare lo sguardo, resistere, nella speranza che passi. La relazione punta il dito contro questo silenzio: non come colpa individuale, ma come effetto sistemico di un contesto che non protegge, non ascolta, non accompagna. È anche su questo fronte che l’Osservatorio vuole agire: costruendo ambienti di lavoro sicuri, accessibili, capaci di riconoscere e prevenire la violenza. Perché nessun contratto, nessuna retribuzione, nessuna necessità giustifica l’umiliazione.

Il peso silenzioso del divario di genere

Nel 2025, in Calabria, una donna continua a guadagnare meno di un uomo anche se ha lo stesso titolo di studio, la stessa mansione, le stesse competenze. È un dato tanto evidente quanto ignorato. La relazione lo documenta con precisione, mettendo in fila numeri che raccontano una discriminazione tanto antica quanto viva. Il gender pay gap è una ferita aperta che attraversa l’intero sistema produttivo calabrese, colpendo soprattutto le lavoratrici più qualificate e quelle appartenenti alle fasce più deboli, come le donne extracomunitarie.

I dati INPS lo confermano: tra i lavoratori comunitari, gli uomini percepiscono in media 496,5 euro a settimana, contro i 436,3 euro delle colleghe. Ma è tra gli extracomunitari che il divario si fa abisso: 326,8 euro per gli uomini, 243,5 euro per le donne. Un vuoto che non può più essere giustificato con spiegazioni di comodo. Perché il problema, chiarisce l’Osservatorio, non è la produttività, non è l’impegno, non è la formazione. È la cultura del lavoro che continua a penalizzare in base al genere.

A essere penalizzate non sono solo le buste paga, ma anche le possibilità di crescita, la stabilità contrattuale, la conciliazione tra vita e lavoro, l’accesso ai ruoli di responsabilità. In molte aziende calabresi, soprattutto di piccole dimensioni, le donne vengono ancora considerate un “rischio”, una variabile da gestire con prudenza, un costo. Un retaggio che affonda nelle radici più profonde del tessuto sociale, e che richiede una rivoluzione culturale prima ancora che normativa.

Non bastano più leggi scritte e programmi annunciati. Occorre, come afferma Ornella Cuzzupi, «trasformare la cultura d’impresa e quella istituzionale, perché una terra che penalizza le sue donne è una terra che sceglie di restare povera».

«Abbiamo la responsabilità di trasmettere fiducia ai giovani e alle donne di questa terra – prosegue la Presidente dell’Osservatorio -. La Calabria può diventare la California d’Europa, ma serve passione, serve coscienza, serve voglia di rimboccarsi le maniche». Una chiamata alla mobilitazione civile, prima ancora che politica. «Troppa gente ha paura di denunciare, di esporsi, di farsi valere. Perché manca la certezza di essere ascoltati, protetti, creduti. E invece è proprio lì che dobbiamo intervenire».

Con uno sguardo che integra i dati regionali in una cornice nazionale, Mattia Peradotto, direttore dell’UNAR, evidenzia come il tessuto delle microimprese calabresi, pur tra mille difficoltà, possa diventare un laboratorio virtuoso. «Se ben stimolato, questo sistema può trasformarsi in presidio di legalità e rispetto. Ma servono strumenti, serve visione, serve continuità».

A fare il punto sul quadro istituzionale è infine Filippo Mancuso, presidente del Consiglio regionale. «Non è solo una questione di ritardo. È qui che le disuguaglianze sono più profonde, più strutturali, più difficili da scardinare. L’occupazione femminile è ferma al 40%, la disoccupazione è al 16%, e il primo morto sul lavoro del 2024 è stato in Calabria. Basta girare lo sguardo». Poi rilancia il ruolo dell’Osservatorio come strumento “non decorativo”, ma operativo. Come antenna, come radar, come mappa viva per agire con consapevolezza. «Se non lo facciamo ora, continueremo a raccontare sempre le stesse tragedie».

In troppi casi, lavorare in questa regione significa accettare condizioni che altrove non sarebbero nemmeno tollerate. Il lavoro nero, le molestie, il ricatto occupazionale, la differenza salariale tra uomo e donna, l’impunità nei confronti di chi viola le regole: tutto questo compone un sistema che conviene a pochi e danneggia tutti. Un sistema che si regge sul silenzio e sulla mancanza di alternative. (sc)

[Courtesy LaCNews24]

IN CALABRIA IL LAVORO NON MANCA, MA C’È
MOLTA FATICA A TROVARE LE COMPETENZE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «In Calabria il lavoro non manca, ma mancano le competenze». Così Roberto Matragrano, presidente di Confartigianato Calabria, commenta i dati dell’Osservatorio Mpi  (Micro e Piccole Imprese) che fotografano la realtà occupazionale calabrese: un settore che tiene e crea lavoro, ma che fatica sempre più a trovare le competenze necessarie per affrontare le sfide della doppia transizione digitale ed ecologica.

In Calabria, gli occupati dell’artigianato sono 53.301, equamente distribuiti tra lavoratori dipendenti (26.646) e indipendenti (26.655). Gli artigiani rappresentano quasi un quinto (18,7%) dell’intera forza lavoro regionale e contribuiscono al 6,4% del valore aggiunto della Calabria e all’1,8% di quello nazionale: un comparto vitale per l’economia del territorio.

Il 2024 si apre con un timido ma significativo +0,4% nell’occupazione regionale (+2.000 unità), trainato esclusivamente dai lavoratori dipendenti (+8.000), mentre gli indipendenti segnano un calo (-7.000). Il dato si inserisce in un trend triennale (2021-2024) che, nonostante i forti contraccolpi globali – dalla guerra in Ucraina allo shock energetico, fino alla crisi in Medio Oriente – ha visto un aumento dell’occupazione del 3,9% (+20.000 unità), contribuendo alla crescita del Mezzogiorno (+8%).

Il tessuto delle micro e piccole imprese si conferma uno dei principali canali d’accesso al lavoro per i giovani calabresi. Nelle imprese fino a 49 addetti (tra cui rientra l’intero comparto artigiano), la quota di dipendenti under 30 è del 20,1%, contro il 10% delle medie e grandi imprese. Nelle micro imprese con meno di 9 dipendenti la percentuale sale addirittura al 22,9%.

La crescita dell’occupazione si associa ad un rilevante e crescente mismatch tra domanda ed offerta di lavoro, soprattutto se qualificato. Da una analisi dei dati annuali dal Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2025), nel 2024 nell’artigianato la difficoltà di reperimento arriva al 52,9%, quota superiore di 7,7 punti percentuali alla media delle imprese del 45,2% e in aumento 6 punti percentuali rispetto al 46,9% del 2023. Mentre la difficoltà di reperimento delle micro e piccole imprese si attesta al 47,8% (2,6 punti in più rispetto alla media).

I 10 profili più difficili da trovare per le MPI calabresi- I 10 profili più ricercati (con oltre 200 entrate programmate nel 2024) e più difficili da reperire per le micro -piccole imprese con 1-49 dipendenti tra Professioni tecniche, Impiegati, Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, Operai specializzati e Conduttori impianti, operai di macchinari fissi e mobili, conducenti di veicoli, sono: Tecnici programmatori (75,0%), Montatori di carpenteria metallica (72,9%), Disegnatori industriali (71,4%), Falegnami ed attrezzisti di macchine per la lavorazione del legno (71,1%), Idraulici e posatori di tubazioni idrauliche e di gas (69,0%), Pasticcieri, gelatai e conservieri artigianali (65,6%), Elettricisti nelle costruzioni civili (64,2%), Carpentieri e falegnami nell’edilizia (esclusi i parchettisti) (64,2%), Panettieri e pastai artigianali (63,9%) e Autisti taxi, conduttori automobili, furgoni, altri veicoli trasporto persone (63,9%).

La rivoluzione digitale e la transizione green pongono sfide ancora più complesse. Nel 2024, le MPI calabresi prevedono 13.000 ingressi con richieste di competenze digitali avanzate (cloud computing, big data, intelligenza artificiale, blockchain, IoT), ma quasi la metà di questi profili (47,7%) è difficilmente reperibile. Ancora più critica la situazione nel comparto artigiano, dove il tasso di difficoltà sale al 50,8%.

Sul fronte ambientale, sono 49.000 i lavoratori richiesti dalle MPI con competenze green, ma per oltre 26.000 di queste posizioni (52,6%) non si riesce a trovare personale adeguato. Nell’artigianato, delle 7.100 figure attese con competenze ecologiche, il 56,8% è considerato di difficile reperimento.

Alla luce di questi dati, per Matragrano «se vogliamo rendere le nostre imprese protagoniste della nuova economia, servono investimenti massicci e strutturati nella formazione tecnica e professionale. È fondamentale rafforzare il legame tra scuola, università, enti di formazione e imprese per colmare il divario tra domanda e offerta».

1° MAGGIO, MA NON TUTTI FESTEGGIANO
IL LAVORO NON C’È, I GIOVANI SONO TRADITI

di PINO APRILE – Buon Primo Maggio, Sud. Buon Primo Maggio ai nostri ragazzi costretti a emigrare come i loro padre e i nonni, dopo aver studiato, conquistato livelli di sapere e saper fare che avrebbero dovuto metterli al riparo da quella sorte e invece, paradossalmente, sono diventati una ragione in più per andare via.

Questo non era mai accaduto, al Sud, in tutta la storia dell’umanità, da Neanderthal a Garibaldi e i Savoia. L’emigrazione, prima di allora settentrionale e soprattutto piemontese e veneta, passò al Sud, nella direzione inversa delle risorse meridionali che andavano a finanziare lavoro e infrastrutture in casa dei vincitori della guerra civile.

E non Buon Primo Maggio agli ascari che, nelle università, nei libri di scuola, nei giornali, nelle istituzioni, nei partiti, non spiegano perché i terroni sono costretti a emigrare da quando vennero imprigionati nell’Italia unificata (che andava fatta, non così), come una colonia interna, senza diritto a quanto, a loro spese, era garantito agli altri.

Buon Primo Maggio a quelli che hanno deciso di restare al Sud, nonostante sia più difficile fare le cose facilitate altrove, pure con i soldi rubati al Mezzogiorno dallo Stato e dall’economia razzista del Nord, d’intesa con governi succubi e parlamentari e classe dirigente complice meridionale. Pur senza i trasporti pubblici del Nord (strade, treni, aerei, porti iper-finanziati persino a perdere), fanno lo stesso e spesso anche più e meglio, questi meraviglioso “rimanenti”.

E son sempre di più, perché non vogliono rinunciare al bello e ai sentimenti di casa, del paese, della radice che li rende come sono. Sono quel movimento sociale ed economico che l’etnografo Vito Teti ha definito “Restanza”, una nuova branca dell’antropologia.

E non Buon Primo Maggio a quei meschini che, dalle istituzioni al crimine organizzato, all’invidia per quel che questi eroi civili riescono a realizzare, mettono loro i bastoni fra le ruote, mirano a strappare parte dei meriti e degli utili così miracolosamente prodotti.

Buon Primo Maggio a quelli che, andati via, tornano per nostalgia, per calcolo intelligente (visto cosa c’è “fuori”, scoprono quanto si può “a casa”). E fanno. Non sono un grande flusso, ma sono un fenomeno che non c’era e cresce, mentre diminuisce l’età di quelli che rientrano. Una volta erano professionisti a fine carriera, pensionati che ridavano vita alla casa ormai vuota dei genitori. Oggi sono giovani determinati, che hanno visto mondo e questo ha ridato valore al loro paese, da cui alcuni, magari, erano fuggiti maledicendolo, per le possibilità negate. Adesso, sono loro a dare al paese quelle possibilità.

E non Buon Primo Maggio a chi, alla guida della “Nazione” (ma mi faccia il piacere!, direbbe Totò), vede i dati della disoccupazione al Sud che sono i peggiori d’Europa; della povertà, che è la più profonda e diffusa d’Europa, con le regioni meridionali tutte prime nella classifica di chi sta peggio; vede i dati dello spopolamento massiccio delle città e dei borghi del Sud, anche perché non ci sono le strade, chiudono gli ospedali, le scuole e, “per rimediare”, toglie il reddito di cittadinanza, non incentiva la formazione delle famiglie, non combatte il crollo delle nascite, addirittura finanzia, pure con i soldi dei meridionali, l’emigrazione dei nostri giovani, garantendo loro facilitazioni per l’affitto di casa, sconti e altro, ma al Nord.

Buon Primo Maggio ai tarantini che si sono ribellati alla complicità dei sindacati con i padroni delle acciaierie (tacquero persino sulla Palazzina Laf, dove i “disturbatori” venivano isolati, indotti alla malattia mentale e qualcuno al suicidio). Buon Primo Maggio alla memoria a Massimo Battista, il saggio e coraggioso operaio che non lo accettò, protestò, divulgò, seppe raccogliere intorno a sé altri lavoratori “liberi e pensanti” che non vendettero la dignità e i diritti conquistati con le lotte di tanti prima di loro, a prezzi altissimi.

E Buon Primo a Michele Riondino, che su “La Palazzina Laf” ha fatto un grande film che ci ha reso giustizia; e che con Antonio Diodato e Roy Paci anche quest’anno organizza il Primo Maggio di Taranto, dedicando il concerto a Massimo Battista, ora morto di cancro (Taranto è “terra sacrificale”, nelle mappe dell’Onu). Ricordo quando nacque il Primo Maggio della mia città: ero con Massimo e gli altri, accompagnato dal collega Gianluca Coviello, li intervistavo per scrivere “Il Sud puzza”, in cui li racconto.

E non Buon Primo Maggio ai sindacalisti che si vendettero la storia del sindacato, le vite e i diritti dei loro compagni di lavoro; i politici che sapevano della “Palazzina Laf” e non mossero un dito; i giornalisti, gli amministratori, i sindacalisti che erano a libro paga dell’acciaieria o ponevano la vita degli altri al disotto dei loro vantaggi personali o di fazione o “per quieto vivere” (non dei sacrificati, ovvio).

Trovo inutile continuare, perché penso che ci siamo capiti.

Io credevo di sapere cosa fosse il Primo Maggio, giovane presuntuosello perché giornalista di vent’anni (modestamente, capisciammè). E invece, me lo spiegò un fattorino precario, occasionale e semianalfabeta della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui lavoravo (ero stato trasferito da Taranto a Bari). Era cresciuto senza famiglia, orfano, e appena fisicamente in grado, se ne fece una, sfornando figli e campandoli di mille lavoretti, elemosina e tanta Divina Provvidenza. Lo chiamavano, per questo, Gesù. Molto anziano. Io i giorni in cui i giornali chiudono, vedi il Primo Maggio, lavoravo sempre, perché pagavano tre volte tanto e avevo molte cambiali da pagare (mobili, macchina…).

E Gesù venne al giornale anche il Primo Maggio, passava per un saluto, un caffè, una mancia. Era un narratore straordinario, intelligente e arguto.

«Gesù, ma sotto il fascismo?»

«Il Primo Maggio lo festeggiavamo lo stesso. Non potevi in piazza, il comizio… Così, andavamo a Torre a Mare (un borghetto marino alle porte di Bari) e mangiavano le sardine fritte tutti insieme. Se non avevamo i soldi (cioè quasi sempre…), ce li facevamo prestare, ma il Primo Maggio doveva essere festa. Quelli del fascio, vedendo questa gente tutta insieme a far festa, venivano a chiedere: “Beh, come si sta con il Duce?”. “Non ci possiamo lamentare”, rispondevamo noi: infatti, se ti lamentavi, la pagavi cara. “E che state festeggiando: il Primo Maggio dei lavoratori?”. “No”, dicevo e loro restavano disorientati, perché la frase non coincideva con quella “proibita”, “festeggiamo quelli che vivono del lavoro”. Non sapevano che fare e andavano via, con una mezza minaccia e mezza raccomandazione: “Non fate casini, se no…”. Manganello».

«Gesù, ma se t’avessero preso, con tutti quei figli… rischiavi!»

«Sì, lo sapevamo. Ma noi volevamo essere liberi».

E io che credevo di sapere, perché scrivevo, leggevo tanti libri e a vent’anni ero giornalista.

Grazie, Gesù. E Buon Primo Maggio, ma non a tutti, solo a chi vuol essere libero, ma soprattutto vuole che anche gli altri lo siano. E la prima libertà è quella dal bisogno. (pa)

NON SI FERMA L’ESODO DEI GIOVANI DALLA
CALABRIA: CERCANO LAVORO ALL’ESTERO

di BRUNO MIRANTE – La valigia di cartone ha rappresentato un simbolo per tutti quei cittadini che nel secolo scorso hanno deciso di cercare la propria realizzazione umana e professionale lontano dalla propria terra. Poche competenze e tanta voglia di mettersi in gioco per costruire un futuro migliore per sé stessi e per la propria famiglia. Al giorno d’oggi, i giovani hanno ripreso a partire ma a differenza dei loro predecessori, si tratta di profili con un alto grado d’istruzione.

Un’Italia che fatica sempre di più ad essere competitiva – perché terzultima in Europa per percentuale di laureati – li spinge altrove, verso altri Paesi del Continente. Nel 2024 le emigrazioni verso l’estero, con un aumento del 20%, hanno fatto registrare il valore più elevato finora osservato negli anni Duemila: si è passati da 158mila del 2023 a poco meno di 191mila nel 2024. I dati emergono dall’ultimo rapporto Istat sulla popolazione italiana.

Germania, Spagna e Regno Unito le mete preferite

Ma l’aumento delle migrazioni verso l’estero è dovuto esclusivamente all’impennata di espatri di cittadini italiani (156mila, +36,5% rispetto al 2023) che si dirigono prevalentemente in Germania (12,8%), Spagna (12,1%) e Regno Unito (11,9%), mentre circa il 23% delle emigrazioni dei cittadini stranieri è riconducibile al rientro in patria dei cittadini romeni.

Il saldo migratorio con l’estero complessivo – spiega Istat – pari a +244mila unità, è frutto di due dinamiche opposte: da un lato, l’immigrazione straniera, ampiamente positiva (382mila), controbilanciata da un numero di partenze esiguo (35mila); dall’altro, il flusso con l’estero dei cittadini italiani caratterizzato da un numero di espatri (156mila) che non viene rimpiazzato da altrettanti rimpatri (53mila). Il risultato è un guadagno di popolazione di cittadinanza straniera (+347mila) e una perdita di cittadini italiani (-103mila).

Bolzano in testa per le partenze, Taranto la città meno abbandonata

La quota di espatri ogni mille residenti più alta risulta essere nel Nord-est e nelle zone di confine. Tra le prime 40 province per migrazioni figurano due grandi città come Milano e Bologna e solo nove territori del Mezzogiorno: Campobasso, Vibo Valentia, Cosenza, Ragusa, Teramo, Pescara, Chieti, Isernia e Reggio Calabria. Le province del Sud, infatti, si concentrano per lo più nella parte di classifica, dove si trovano i territori che pochi lasciano per andare oltre confine. La città meno abbandonata risulta essere Taranto con 4,4 emigrati ogni mille abitanti pur essendo una delle province italiane con i numeri peggiori in termini di occupazione. Di converso, a riprova che la partenza verso altri paesi non è sempre il risultato di una situazione economica depressa, in cima alla classifica figura Bolzano, una delle città che vantano un’alta qualità della vita nonché il primato nazionale in termini di natalità.

In Calabria le città si ripopolano durante le festività

Nel 2024 gli emigrati all’estero cosentini sono stati 800 in più rispetto all’anno prima e quasi 1200 in più se si prende in considerazione il 2022. L’incidenza pari a 10 emigrati ogni 1000 residenti è speculare al dato di Vibo Valentia, leggermente inferiore a Reggio Calabria. Ma la caratteristica comune delle città calabresi e del Mezzogiorno è il fenomeno che si manifesta a ridosso di festività o ponti lunghi. Le città si ripopolano di giovani assumendo un volto effervescente seppur temporaneo.

Fecondità al minimo storico

La fecondità, nel 2024, è stimata in 1,18 figli per donna, sotto quindi il valore osservato nel 2023 (1,20) e inferiore al precedente minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel 1995. La contrazione della fecondità riguarda in particolar modo il Nord e il Mezzogiorno. Infatti, mentre nel Centro il numero medio di figli per donna si mantiene stabile (pari a 1,12), nel Nord scende a 1,19 (da 1,21 del 2023) e nel Mezzogiorno a 1,20 (da 1,24). Per ciò che concerne la Calabria, il dato si attesta leggermente al di sopra della media nazionale all’1,25%. Mentre l’età media al parto è di 32,4 anni. Il primato della fecondità più elevata continua a essere detenuto dal Trentino-Alto Adige, con un numero medio di figli per donna pari a 1,39 nel 2024, comunque in diminuzione rispetto al 2023 (1,43). Come lo scorso anno seguono Sicilia e Campania. Per la prima, il numero medio di figli per donna scende a 1,27 (contro 1,32 del 2023), mentre in Campania la fecondità passa da 1,29 a 1,26. In queste regioni le madri sono mediamente più giovani: l’età media al parto è pari a 31,7 anni in Sicilia e a 32,3 in Trentino-Alto Adige e Campania.

Nel Mezzogiorno coesistono regioni che registrano la più alta fecondità nel contesto nazionale (Sicilia, Campania e Calabria) e regioni caratterizzate da livelli minimi (Sardegna, Molise e Basilicata). Tra le province, quella in cui si registra il più alto numero medio di figli per donna è la Provincia Autonoma di Bolzano (1,51 contro 1,57 del 2023). Seguono le province calabresi di Crotone (1,36) e Reggio Calabria (1,34) e quelle siciliane di Ragusa, Agrigento (entrambe 1,34) e Catania (1,33). (bm)

[Courtesy LaCNews24]

LA PRECARIETÀ È UN PROBLEMA DIFFUSO IN
CALABRIA: BASTA LAVORATORI “INVISIBILI”

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti, quanti hanno una stabilità lavorativa. C’è una situazione di precariato diffuso. Non è solo la quantità, ma la qualità dell’occupazione». Sono dure le parole di Pierpaolo Bombardieri, segretario nazionale di Uil Calabria, nel corso della Carovana Uil, l’iniziativa del sindacato che ha gremito piazza dei Bruzi a Cosenza.

Una vera e propria ondata azzurra che ha colorato la piazza cosentina per sensibilizzare sul tema dei lavoratori fantasma: «Con questa nostra iniziativa in giro per l’Italia, vogliamo richiamare la politica, l’opinione pubblica e gli imprenditori sulla necessità di affrontare il tema della precarietà, perché occorrono decisioni e scelte che facciano diventare queste ragazze e questi ragazzi delle persone in grado di rivendicare ed esercitare diritti e tutele come chiunque altro», ha spiegato Bombardieri nel corso della manifestazione di Pescara dello scorso 3 aprile, sottolineando come «nonostante  record sbandierati dal governo sull’occupazione, la vita quotidiana ci dimostra tutt’altro: ancora troppi sono i precari e i lavoratori in nero, persone ridotte a fantasmi per la società, perché chi non ha un contratto a tempo indeterminato non può rivolgersi a una banca per un mutuo, non può comprare una macchina, non può acquistare un cellulare, ma soprattutto non può programmare la propria vita».

«Chi ha un lavoro precario è un fantasma – ha tuonato il sindacalista a Cosenza – non lo vede nessuno, soprattutto le banche e chi deve vendergli le case. Allora è necessario fare degli interventi per dare a questi ragazzi e a queste ragazze la possibilità di diventare persone».

«Per l’Istat – ha proseguito – 6 milioni di persone sono povere e 7 si avvicinano alla povertà assoluta. Ed è ovvio che chi guadagna 20-24 mila euro lordi l’anno, anche se ha un lavoro, non è in grado di vivere dignitosamente».

«Il Senato stima una perdita di 50.000 posti di lavoro. Ci dicono “niente panico”, ma provate a dirlo a chi rischia di non pagare il mutuo o la rata dell’auto. Per loro è una catastrofe reale, non una crisi astratta», ha proseguito Bombardieri, per poi parlare del tema dei dazi: «il governo parla solo con le imprese. Ma se le aziende chiudono, chi perde il lavoro sono i lavoratori. Chiediamo che al tavolo siedano anche i sindacati, non solo una parte del Paese».

«Ci sono 400.000 lavoratori e lavoratrici in aziende che producono servizi e beni esportati soprattutto negli Stati Uniti d’America, per quasi 70 miliardi: in particolare il settore meccanico, con 11 miliardi e mezzo, quello della moda, con 5 miliardi e quello agroalimentare, con 7,8 miliardi», aveva spiegato Bombardieri a Napoli, nel corso del convegno organizzato dalla Uil Polizia sul tema della sicurezza.

«Se i dazi – ha precisato il leader della Uil – producono un ridimensionamento delle attività almeno del 10%, rischiamo decine di migliaia di posti di lavoro. È necessario intervenire subito differenziando i mercati: dobbiamo trovare altre zone dove poter esportare. E, poi, bisogna favorire i consumi nel nostro Paese: ecco perché rilanciamo l’idea di detassare gli aumenti contrattuali e di rinnovare i contratti. Serve, infine, che l’Europa dia una risposta chiara e non che a trattare sia ogni singolo Stato, perché questo ci renderebbe più deboli.

«In tale quadro – ha detto Bombardieri – ribadiamo anche che il Patto di stabilità è un errore dal punto di vista economico: finalmente anche la Presidente del consiglio ha assunto questa posizione».

Le soluzioni ci sono, secondo Bombardieri, e ne suggerisce alcune: diversificare i mercati, affidare all’Europa le trattative, aumentare i salati per rilanciare i consumi e sbloccare i contratti scaduti dei metalmeccanici e del pubblico impiego.

«Serve una svolta sul precariato: la Spagna ha limitato i contratti a termine e l’occupazione è cresciuta», ha detto ancora Bombardieri, passando poi sul tema della Questione Meridionale, «scomparsa dai radar».

«Ma senza il Sud, l’Italia non riparte – ha ribadito –. Il Mezzogiorno ha bisogno di infrastrutture, investimenti e attenzione reale. Chi vive lì ha la stessa dignità di chi vive altrove».

«Basta lavoratori invisibili. È il momento di scelte coraggiose per un’Italia più giusta, più inclusiva, più vera», ha concluso Bombardieri.

Mariaelena Senese, segretaria generale Uil Calabria, sa bene qual è la situazione regionale, a livello occupazionale: «il 61% dei giovani calabresi è assunto con contratti atipici o a tempo determinato».

«Noi oggi vogliamo parlare di lavoro stabile», ha detto Senese, sottolineando «la lungimiranza di questa iniziativa dedicata al precariato, che è una piaga che affligge in modo particolare questa regione. C’è un effetto di scoraggiamento evidente».

«Il Governo continua a mentire sull’occupazione, dicendo che la percentuale degli occupati è aumentata e siamo a livelli record. La maggior parte di questi occupati, però, sono precari o a tempo determinato. Di questi, tanti sono giovani: come si può pensare a un futuro se non si ha la certezza del lavoro?», ha chiesto la sindacalista.

Tanti, sul palco della Uil, a riflettere sul tema del lavoro: Emanuele Ronzoni, segretario organizzativo della Uil, la vicesindaca di Cosenza, Maria Locanto, che ha parlato dell’importanza di «parlare di lavoro oggi» e di come «il precariato è la vera piaga del lavoro di oggi. La parola sfruttato e la parola lavoro non possono stare insieme».

«Ogni testimonianza è importante e insieme abbiamo messo in luce le problematiche reali che meritano di essere ascoltate e affrontate. Come sempre porteremo ai tavoli del governo proposte concrete per costruire un futuro più giusto e equo per tutti», dice il sindacato in una nota.

La due giorni della carovana della Uil è stata, dunque, un’occasione di confronto e crescita «in una piazza, quella di Cosenza, piena di giovani che rappresentano il nostro futuro». (ams)

GUARDANDO AL NORD-EST, C’È L’AMAREZZA
DI UNA CALABRIA INCAPACE DI AFFERMARSI

di SANTO GIOFFRÈ  – Nei giorni scorsi sono stato in Friuli Venezia Giulia e Veneto. Ne ho apprezzato il perfetto ordine regnante. Sanità pubblica al 70%, in grado di affrontare e risolvere tutte le esigenze/emergenze sanitarie della loro gente. Le strade tutte asfaltate, nemmeno una buca a cercarla pedissequamente. Non una busta di spazzatura lanciata o lasciata ai margini. Paesi pieni e curatissimi.

Ricchezze che sbucavano da tutti i vicoli non asfaltati, per sciccheria e trend, dei griffati, ricchissimi vigneti. Eppure, all’inizio del ‘900, per fame, i Veneti emigrarono il doppio dei calabresi, fino al fascismo. La bonifica delle paludi pontine la fecero con i sudori e le vite dei Veneti. Bene, mentre dopo la guerra coloro che governarono il Veneto, pure se fottevano, le cose le facevano, in Calabria, fottevano pure le cose che dovevano fare.

I poteri palesi e oscuri dello Stato, qui, s’inventarono la ‘Ndrangheta, suo vero braccio violento, con l’obiettivo di arricchirsi reciprocamente attraverso il dominio delle risorse che vennero trasformate in economia criminale.
Nel farlo, hanno sospeso la Costituzione e istituzionalizzato, elevandola a governo della Cosa Pubblica, la cromosomica incapacità di elaborazione minima delle dinamiche reali dei processi sociali, approfittando, anche, dell’atavica propensione al servilismo dei calabresi. Trasformandoli in emigranti-schiavi col doppio risultato: manodopera a gogò, con bassi diritti e salari da fame, funzionale solo allo sviluppo economico e industriale del Nord; tenere la Calabria in uno stato di perenne instabilità sociale.

Creando un enorme sottoproletariato di funzione e, per generazioni, eternamente trattenuto dentro una situazione di equilibrio precario a disposizione dello stato dei bisogni di scopo del Potere. Qualsiasi colore assuma quel Potere.

Il Nord-Est ha visto e intrapreso la sua strada. Noi, abbiamo subìto un processo, all’inverso: una perenne sperimentazione su come auto-allevarci vitelli per ogni macello. C’è un articolato piano e processo a monte. Persino il PCI ne uscì, storicamente, strumentalizzato, tanto che non pensò mai a feroci campagne di irregimentazione ideologica delle masse con fasi di lotta armata per l’equilibrio territoriale.

Ora, abbiamo, tenendo conto dell’autonomia differenziata già in vigore, solo due strade da intraprendere: o ci rassegniamo e andiamo verso l’estinzione antropologica dei calabresi, al di là delle battute georgiche come la cosiddetta”restanza” che non ho mai capito cosa sia, se non una banale parola senza un’anima che includa una ricercata prassi sociologica e storica, o passiamo a fasi politiche che portino all’espulsione totale di questa classe dirigente, la qualunque classe dirigente, impadronendoci del nostro destino, gestendolo e sottomettendolo ai bisogni.

Iniziando ad imporre un modo rivoluzionario nella gestione della Cosa Pubblica. Senza accettare nessun mediazione. Decidetevi altrimenti, non vedremo, mai, le bellezze del Nord-Est. (sg)

Occhiuto visita sedi Konecta Rende e Crotone

Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ha visitato le sedi di Rende e Crotone della società Konecta che, attraverso il progetto di dematerializzazione delle cartelle cliniche, ideato dalla Regione Calabria, ha potuto assorbire i lavoratori dell’ex Abramo Customer Care.

Attualmente i neo assunti sono in fase di formazione ed attendono di iniziare l’attività per Konecta, che prevede già entro il primo anno di riuscire a digitalizzate 1 milione e 300 mila cartelle.

La vertenza Abramo Customer Care, che coinvolgeva circa 1000 lavoratori a rischio licenziamento, si è chiusa positivamente dopo un percorso lungo e complesso, frutto di tanto impegno e del grande lavoro di squadra che la Regione ha saputo mettere in campo, grazie anche alla sinergia preziosa con il governo e con tutte le organizzazioni sindacali.

Un accordo che ha permesso il passaggio dei lavoratori alla società Konecta, garantendo la piena continuità occupazionale e il mantenimento delle condizioni contrattuali.

In questo progetto la Regione Calabria ha investito 15 milioni di euro, ai quali si aggiungono 5 milioni messi dal governo nazionale per dematerializzare le nostre cartelle sanitarie.

«Sono felice, sono molto soddisfatto di come si sia conclusa questa delicatissima vertenza – ha dichiarato il presidente Occhiuto – che metteva a rischio circa 1000 posti di lavoro in Calabria. Si garantisce il diritto al lavoro a donne e uomini, e la serenità alle loro famiglie».

«Abbiamo ideato – ha proseguito – un modello innovativo, qualcuno i primi mesi mi definiva un visionario, per la riconversione e il reinserimento nel mercato dei lavoratori dei call center, un modello al quale adesso altri territori guardano con interesse».

«La Regione, in questa difficile e cruciale partita – ha sottolineato – non si è mai tirata indietro con tutte le sue articolazioni e ha potuto raggiungere questo importante risultato con il supporto del governo e delle organizzazioni sindacali».

«Per questo – ha aggiunto –desidero ringraziare ancora una volta il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Gaetano Caputi, il sottosegretario di Stato con delega all’Innovazione, Alessio Butti, le strutture del ministro Adolfo Urso, Francesco Soro, ad dell’Istituto Poligrafico dello Stato, Pietro Labriola, ad di Tim, e Angelo Borrelli, capo del Dipartimento per la trasformazione digitale».

«Ringrazio, anche – ha proseguito – i vari soggetti istituzionali che hanno partecipato insieme a me a tutti i tavoli: il mio vicepresidente Filippo Pietropaolo che ha lavorato insieme al suo direttore generale, Tommaso Calabrò, alla convenzione del progetto della dematerializzazione con l’Istituto Poligrafico dello Stato, l’assessore al Lavoro, Giovanni Calabrese, che insieme al suo Dipartimento e ai direttori generali, Fortunato Varone e Maurizio Nicolai, ha prodotto diversi bandi a sportello propedeutici a questa soluzione, i miei preziosi consulenti Ettore Figliolia e Alessandro Ruben, che hanno seguito passaggi chiave di questa vicenda».

«Ringrazio, infine – ha concluso – Andrea Lubian, direttore generale Konecta Group, che ha creduto in questo progetto e che ha garantito – facendo un ulteriore sforzo organizzativo – che entro qualche settimana anche gli ex lavoratori a progetto di Abramo saranno assunti e faranno dunque parte della loro squadra». (rcz)

LA CALABRIA, NON È UNA REGIONE PER LE
DONNE, TRA DIVARIO E DISOCCUPAZIONE

di MARIAELENA SENESE e  ANNA COMI Per fare uscire le donne dal limbo lavorativo nel quale si trovano è necessario promuovere la stabilità lavorativa e sostenere la conciliazione fra vita e lavoro. Le donne in Calabria sembrano condannate a svolgere lavori precari e discontinui. Quello che serve invece, è una regione più forte ed inclusiva e per raggiungere questo risultato tutto passa, inevitabilmente, dalla compiuta parità di genere.

Per favorire la crescita di quella giustizia sociale così difficile da raggiungere per le donne calabresi, siamo pronti a proporre un’agenda di interventi mirati per affrontare queste disparità e promuovere una Calabria più equa e competitiva.

In Calabria, meno di 1 donna su 3 in età lavorativa ha un’occupazione regolare. Il tasso di occupazione femminile è stabilmente inferiore al 35%, contro una media nazionale che si attesta intorno al 50%, e ben distante dai valori europei che superano il 60%. Questo dato colloca la Calabria tra le regioni peggiori in Europa in termini di inclusione femminile nel mercato del lavoro.

Per questo chiediamo misure concrete per abbattere le barriere di genere e creare un mercato del lavoro più in linea con quello europeo, quali: incentivi fiscali per l’assunzione di donne che si concretizzino in agevolazioni fiscali e sgravi contributivi per le imprese che assumono donne, specialmente nelle aree rurali e nei settori dove le disparità di genere sono più marcate.

In Calabria, la maggioranza dei contratti femminili è a termine o part-time involontario. Le donne calabresi, più degli uomini, sono costrette ad accettare occupazioni a tempo ridotto non per scelta, ma per mancanza di alternative a tempo pieno. Questo fenomeno accentua la fragilità economica femminile, riduce la possibilità di accumulare contributi per la pensione e amplia il divario di reddito tra uomini e donne. E quando le donne calabresi riescono a trovare un’occupazione, i loro salari sono mediamente inferiori di circa il 30% rispetto ai colleghi uomini.

Oltre alle difficoltà di accesso e permanenza nel mercato del lavoro, sulle donne calabresi grava quasi esclusivamente il peso del lavoro di cura familiare, che continua a essere invisibile dal punto di vista economico e previdenziale. Oltre il 70% delle donne calabresi inattive dichiara di non poter cercare lavoro a causa di impegni familiari e di cura.

Per superare questo divario allarmante e insopportabile, poi, è opportuno il sostegno concreto alla conciliazione vita-lavoro che può essere ricercato solo attraverso l’ampliamento della rete di servizi di supporto per le famiglie e voucher per l’assistenza privata, con l’incentivazione del telelavoro e della flessibilità oraria per le dipendenti madri, offrendo vantaggi alle aziende che adottano queste misure, per rendere il lavoro femminile più compatibile con le esigenze familiari.

Come sarebbe importante sostenere la concretizzazione, lavorativa e previdenziale, della figura del caregiver. La Regione deve investire nell’espansione e nel potenziamento dei servizi di Assistenza domiciliare integrata, garantendo un maggiore accesso a professionisti sanitari a domicilio, in modo da supportare i caregiver nella gestione di malattie croniche e nella somministrazione di terapie; servizi di sollievo, che prevedano l’intervento di assistenti sociali o operatori sociosanitari per alcune ore al giorno o alla settimana, in modo da permettere ai caregiver di avere del tempo libero per sé. La riforma del welfare regionale deve passare anche da qui: dal riconoscimento e dal sostegno a chi si prende cura dei più fragili.

Senza dimenticare la necessità di accelerare la realizzazione di nuovi asili nido, al fine di allineare la Calabria alla disponibilità di posti della media nazionale. Dobbiamo ricordare che nella nostra regione meno di un comune su 5 offre il servizio, a fronte di una media nazionale del 59,3% molto al di sotto della media nazionale che è pari al 27,2% e dell’obiettivo del 33% stabilito in sede Ue, e che il Pnrr stanzia una enorme mole di investimenti per gli asili nido e le scuole per l’infanzia.

Sarebbe determinante potenziare il sistema di welfare regionale, attraverso contributi aggiuntivi per le famiglie e sostegno economico alle lavoratrici, in modo da ridurre il rischio di ritiro dal mercato del lavoro per ragioni economiche.

Così come, infine, sarebbe decisivo promuovere finanziamenti e microcredito per l’imprenditoria femminile, per sostenere le donne che desiderano avviare nuove attività, soprattutto in settori tradizionali e innovativi, come il turismo e l’artigianato, capaci di svincolare le donne da quegli ambiti, come la cura delle persone o la scuola, che ne hanno storicamente contraddistinto l’impegno lavorativo. La parità di genere non è solo una questione di giustizia, ma un motore per la crescita economica e sociale della Calabria. Offrire pari opportunità alle donne significa costruire una Calabria più forte, inclusiva e innovativa. (ac e ms)

[Mariaelena Senese e Anna Comi sono rispettivamente segretaria generale Uil Calabria e Responsabile Coordinamento pari opportunità
Uil Calabria]