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Covid-19 / Innalzare la spesa sanitaria per produrre crescita di salute

Covid-19

di MARIATERESA FRAGOMENI – L’emergenza Covid ha stravolto il nostro modo di vivere e, probabilmente, ci ha cambiato per sempre, come singoli e come comunità. In poche settimane, su tutto il pianeta, ci si è resi conto che non sono il libero mercato e l’economia, ma il senso di umanità e di solidarietà, che stanno tenendo il mondo insieme.

In ambito sanitario, l’emergenza Covid ha messo a nudo tutte le criticità ed i limiti di un sistema sempre più basato alle sole regole di mercato. Quanto, però, questo sistema sia in realtà fallimentare, lo si è visto in queste settimane. I modelli sanitari improntati al criterio della massima produttività, dove si privilegia la concentrazione ed il potenziamento dei settori a più alta redditività, mentre si abbandonano quelli a più alto rischio o basso rendimento (vedi le terapie intensive) sono collassati su se stessi. Al contrario, hanno retto, di più e meglio, quei modelli in cui il pubblico è più forte, dove si privilegia l’erogazione del servizio e la distribuzione sul territorio ed in cui il privato agisce ad integrazione del pubblico e non in sua sostituzione.

L’esperienza di questi giorni, ci ha insegnato, inoltre, che la salute non è solo un bene primario individuale, ma è un bene sociale da difendere e tutelare come interesse generale dell’intero paese.

E se la dimensione del problema è nazionale – anzi – sovranazionale – allora l’approccio allo stesso deve essere di ampio respiro, senza le tare ideologiche che caratterizzano il braccio di ferro tra l’apparato centrale e quelli locali. I principi di sussidiarietà e di decentramento vogliono che le amministrazioni locali si occupino di questioni di respiro locale, mentre quelle nazionali si occupino di questioni di ambito nazionale o internazionale.

La crisi di questi giorni ci ha ricordato (non si può dire insegnato, perché lo sapevamo già) che la cura della salute è una questione di carattere generale e nazionale, non certo regionale. Facendo un brevissimo excursus sulla disciplina del nostro sistema sanitario, va detto che questo è stato interessato, nel tempo, da una serie di interventi legislativi che lo hanno via via trasformato profondamente. Dal 1992, (con il D. L. n 502/92) al 1999 (con il d.lgs. n. 229/1999) si è passati da una concezione di assistenza pubblica illimitata, ad un sistema in cui la spesa sociale e sanitaria doveva essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate: le vecchie USL sono diventate ASL, ossia aziende pubbliche con a capo un “manager” e successivamente ASP (passando da un ambito territoriale locale ad uno provinciale).

Per contrappeso, è stato introdotto, sin dal ’92, il principio dei c. d. LEA, ossia dei livelli essenziali di assistenza, uniformi su tutto il territorio nazionale, ai quali, però, le singole regioni, con oneri a carico dei propri bilanci, avrebbero potuto aggiungere servizi ulteriori. Va detto però che la concreta attuazione delle riforme è sempre stata asimmetrica: se da un lato, infatti, si è data da subito attuazione ai principi “aziendali”, dall’altro è mancato, dall’inizio, un piano sanitario nazionale e la stessa definizione dei LEA, è arrivata molto più tardi (solo nel 2001).

Sul piano attuativo, poi, i livelli minimi non sono mai stati raggiunti ed applicati su tutto il territorio. Con la (a voler essere generosi) opinabile riforma del titolo V del 2001, infine, è stato costituzionalizzato il passaggio dal servizio sanitario nazionale a quello regionale.

Tuttavia, come accennato in precedenza, si è trattato di una riforma progettata male ed attuata ancora peggio. L’asimmetria tra il criterio dell’efficienza contabile e quello del livello adeguato del servizio, ha creato un vero e proprio circolo vizioso: da un lato, infatti, la mancanza dei servizi essenziali crea inefficienza e migrazione sanitaria, che si risolve in un disavanzo di gestione e nella risposta statale dei commissariamenti e dei tagli lineari, dall’altro non si può riuscire a garantire i livelli essenziali, senza effettuare investimenti ed assumere personale sanitario, cosa che però è resa impossibile dal regime dei piani di rientro che prevedono il blocco del turn over.

In realtà, se si guarda al servizio sanitario nel suo complesso, la sua regionalizzazione non ha portato dei miglioramenti al sistema globalmente inteso, ma ha solo trasferito servizi e risorse da alcune zone già povere e depresse, ad altre realtà c. d. (per autodefinizione) virtuose.

Il sistema, però, nel suo complesso, non ci ha affatto guadagnato:

– c’è stata maggiore confusione e sovrapposizione di competenze tra Stato e Regioni;

– il contenzioso è cresciuto a dismisura ed è cresciuta altrettanto esponenzialmente la spesa complessiva che, dal 2000 ad oggi, è aumentata del 69% in termini nominali e del 22% in termini reali.

Dunque la sanità, oggi, non solo costa complessivamente di più, ma funziona anche peggio, perché drena molte risorse che non finanziano il servizio in sé, ma la mobilità passiva.

Vi è poi un altro dato che merita di essere preso in seria considerazione, ossia quello che riguarda l’asimmetria nella ripartizione della spesa pro capite, che è molto più alta nelle regioni del Nord (mediamente del 50%) rispetto a quelle del Sud. E si tratta di un divario che è inevitabilmente destinato ad aumentare, soprattutto se si darà attuazione alle richieste di autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Eppure, soprattutto in tema di bisogni anelastici (o di domanda caratterizzata prevalentemente da componenti anelastiche) l’investimento in termini di spesa pubblica smette di essere produttivo oltre una certa soglia.

Secondo molti studi (ad esempio il modello Dea dell’Oecd, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nei territori a bassa spesa sanitaria, un suo innalzamento può produrre una notevole crescita di salute, mentre nei territori che già spendono oltre una certa soglia – quelli evidentemente più ricchi , o che comunque, come in Italia, attraggono una quota maggiore di risorse pubbliche – un aumento ulteriore di spesa non garantisce un corrispondente aumento della salute generale.

Va dunque ripensato il ruolo delle regioni, che non possono essere le titolari di un settore così importante per i cittadini, dando vita ad un sistema frammentatissimo, con 20 sottosistemi diversi ed in concorrenza tra loro. Va però ripensato anche il ruolo del Governo: anch’esso frammentario e soprattutto improntato ad una logica ragionieristico-sanzionatoria.

Il Governo è infatti (o dovrebbe essere) responsabile della concreta attuazione dei LEA (la salute è prima di ogni altra cosa un diritto) ma, mentre è vigile e solerte quando si tratta di intervenire sul disavanzo, rimane di fatto inerte quando si tratta di agire sul disservizio.

Il punto è, però, che i due aspetti sono quasi sempre correlati, per cui, se c’è un disservizio, il cittadino andrà a curarsi altrove e la regione subirà una perdita economica. Per rendersene conto, basta prendere ad esempio quello che sta accadendo nella realtà calabrese dove, nonostante la sanità sia commissariata da oltre un decennio e la gestione sia stata caratterizzata da una politica di continui tagli lineari, il disavanzo, anche a causa della mobilità passiva, è sempre cresciuto. Va dunque rivisto, con una organica riforma legislativa, sia il ruolo del Governo che delle regioni, a queste ultime può ben restare la gestione – in termini rigorosamente esecutivo amministrativi – ma il sistema va pianificato e normato a livello nazionale.

Le procedure devono essere uniformi e più snelle ed a tal fine bisogna certamente agire sulla burocrazia, senza decentrare i processi decisionali, altrimenti si rischia solo di sostituire la burocrazia statale con quella regionale. Il Governo centrale, inoltre, ogni qualvolta si verifica un disservizio, deve intervenire non solo, in chiave squisitamente ragionieristica, sul relativo capitolo di spesa, ma piuttosto deve agire (e rimuovere) la causa concreta del problema.

La sanità, deve tornare ad essere un diritto, e come tale, deve essere garantita, per tutti i cittadini e su tutto il territorio nazionale. (mf)

 

Mariateresa Fragomeni, ex assessore al Bilancio alla Regione Calabria, è dottore commercialista
Gestore del rischio in sanità, collaboratrice direzione Master di Risk Management in sanità di Luiss Business School

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