di SANTO STRATI – Che la trasmissione Presa Diretta di lunedì scorso dedicata al processo Rinascita Scott avrebbe creato un po’ di scompiglio era più che scontato, meno prevedibile il pesante attacco firmato dalle Camere penali di tutta la Calabria contro il giornalista Riccardo Iacona. Da un lato, i penalisti parlano di «capziosa e partigiana rappresentazione di un processo – che solo sulla carta deve ancora celebrarsi», dall’altro, l’Unione Cronisti calabresi difende il lavoro di Iacona bollando come «sconcertante il documento sottoscritto dai presidenti delle Camere penali calabresi».
Il giornalista ha spiegato all’AdnKronos di non avere fatto «un processo in tv, il processo si fa nell’aula bunker di Lamezia Terme e non era l’oggetto della mia inchiesta. L’oggetto della mia inchiesta era l’indagine Rinascita Scott. E le riprese sono cominciate prima ancora che iniziasse la prima udienza a Lamezia Terme. Non è che noi facciamo cronaca processuale. Invece è importante che i giornalisti tornino a parlare di queste cose».
Secondo l’Unione Cronisti della Calabria, guidata da Michele Albanese, «Il lavoro realizzato da Riccardo Iacona e con i colleghi Marco Dellamonica e Massimiliano Torchia, contrariamente a quanto scritto dai penalisti calabresi ha, invece, avuto il merito di spezzare l’assordante silenzio dell’informazione nazionale su una delle vicende giudiziarie più importanti della storia italiana, ovvero il maxiprocesso Rinascita Scott la cui narrazione, anche a causa delle contestabili e contestate limitazioni imposte dal Tribunale di Vibo Valentia alle riprese audiovisive del dibattimento, è stata sin qui rassegnata al lavoro solitario ed encomiabile di pochissimi cronisti e testate calabresi».
I cronisti calabresi affermano che «la redazione di PresaDiretta ha reso, invece, un servizio al Paese, offrendo una eccezionale pagina di buon giornalismo, raccontando i fatti alla base dell’inchiesta la cui tenuta è adesso al vaglio di collegio di giudici che valuterà nel nome del Popolo italiano la colpevolezza e l’innocenza degli imputati. Nessun processo mediatico, dunque, nessuna sentenza anticipata, ma un’informazione corretta, completa, essenziale e puntuale. Restiamo esterrefatti, peraltro, di fronte a certe affermazioni».
Di parere opposto i rappresentanti delle Camere Penali che sostengono: «L’attacco scriteriato e indiscriminato alla presunzione d’innocenza e ai principi costituzionali del giusto processo non ci sorprende più e, ancor di meno, ci meraviglia che il tribunale del popolo, imbastito abilmente dall’inchiesta giornalistica, si sia espresso per mezzo della televisione pubblica», affermando di avere «avvertito e denunciato il rischio che la diffusa delegittimazione della funzione difensiva – frutto dell’abusata assimilazione tra l’avvocato e le ragioni del proprio assistito – risultasse “plasticamente” raffigurata dalla “colossale” macchina giudiziaria messa in piedi dalla Procura di Catanzaro, senza alcuna tutela per le istanze a presidio delle libertà individuali».
I penalisti calabresi indicano che «Violando la riservatezza e la salvaguardia della “verginità” cognitiva dei giudici, sono stati escussi testimoni, riprodotte intercettazioni (senza il filtro del perito), divulgate immagini, esibiti atti ripetibili d’indagini, il tutto nell’assenza assoluta di un valido contraddittorio. A chi interessa (non si è fatto minimo accenno nella trasmissione) se buona parte (circa 200) delle misure cautelari applicate siano state successivamente censurate nelle sedi giudiziarie del gravame».
Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, nelle scorse settimane, aveva lamentato la scarsa attenzione riservata dai media a questo colossale processo che mette alla sbarra un incredibile quantità di presunti mafiosi e tanti, troppi, “colletti bianchi” supporter – secondo l’accusa – di un sistema criminale interamente in capo alla ‘ndrangheta. E l’inchiesta di Iacona ha raccontato come si è arrivati a istruire questo processo e a illustrare le ragioni della pubblica accusa (13mila pagine di ordinanza): il processo è ancora agli inizi e dovrà, ovviamente, avere tutta la visibilità mediatica dovuta. Quindi inspiegabili sono anche le limitazioni imposte dai giudici all’attività giornalistica e di documentazione audio-video.
Due posizioni contrastanti, dunque: tra diritto alla difesa e diritto all’informazione. A nostro modesto avviso, hanno ragione entrambe le parti. Da troppo tempo è invalsa l’abitudine di ritenere un avviso di garanzia l’equivalente di una condanna e da strumento a tutela dell’indagato/accusato si è trasformato in gogna mediatica garantita, oltre, naturalmente, alle custodie cautelari, ai sequestri e quant’altro previsto in casi del genere dal nostro codice penale. Presa Diretta ha esercitato il diritto di cronaca, cercando di spiegare, di informare, di contestualizzare il quadro processuale, senza emettere sentenze: non è compito dei giornalisti e la correttezza e la serietà professionale di Iacona non possono in alcun modo essere messe in discussione. E non si può dire che non abbia ascoltato anche le parti della difesa. Indubbiamente, in una sintesi televisiva, il rischio di teatralità è inevitabile, soprattutto se si prendono le intercettazioni e si fanno interpretare con tanto di inflessione dialettale, tanto da indurre più d’uno a immaginare che siano le registrazioni in mano ai magistrati. Questo modo di fare giornalismo, probabilmente, merita una presa di distanza: il racconto distaccato del cronista – rischia di essere “viziato” di una inevitabile – anche se spesso involontaria – sponda a favore soltanto della pubblica accusa.
Intendiamoci, il lavoro – straordinario e non invidiato da nessuno – del dott. Gratteri è fuori discussione: il suo impegno per la legalità e il trionfo della giustizia sono sotto gli occhi di tutti, giorno dopo giorno, come una missione che solo un sognatore o un “fanatico della legge” come il procuratore di Catanzaro potrebbe portare avanti. La sua lotta contro il crimine organizzato, contro la ‘ndrangheta, ma soprattutto contro le cosiddette “zone grigie” di funzionari dello Stato, imprenditori, professionisti, che si ritrovano a fiancheggiare la mafia per la conquista di spazi a 360 gradi da parte delle varie cosche, la sua lotta deve avere il plauso e il sostegno incondizionato di tutti i calabresi, anzi di tutto il popolo italiano: la malapianta del crimine si può estirpare solo grazie a personaggi come Gratteri che hanno sacrificato un’esistenza tranquilla a favore di una guerra totale alla ‘ndrangheta. Che è fatta non più solo di capibastone e di picciotti, ma di troppi compiacenti personaggi dell’apparato della vita civile, che hanno contribuito alla crescita e permettono, ancora oggi, il prosperare di traffici illeciti che generano profitti pazzeschi.
Quindi, non solo non ci si deve fermare nella lotta indiscriminata alle consorterie mafiose, che crescono con le devianze massoniche o il favore di infedeli colletti bianchi dell’amministrazione statale, ma bisogna incrementare e sostenere tale battaglia, che, anzi, è una vera e propria guerra. Servono giudici, militari, forze dell’ordine: un rafforzamento in tutti i campi che piantoni il territorio e garantisca la legalità, proprio nel momento in cui le indagini scoperchiano un verminaio sempre più disgustoso di alleanze che i calabresi perbene (e sono tantissimi) vorrebbero vedere annientato una volta per tutte. Serve, in altre parole, lo Stato che faccia sentire la sua presenza e non abbandoni i suoi uomini migliori in questa lotta spesso impari con il crimine organizzato.
Allo stesso tempo, però, non si può fare a meno di sottolineare che il diritto a un giusto processo – che sia di ragionevole durata – è assolutamente inalienabile. E, invece, c’è, purtroppo, con una frequenza che mette paura, il ricorso “facile” alle manette e alle custodie cautelari, dimenticandosi di chi finisce dietro le sbarre o al chiuso dei “domiciliari”, lasciandolo in attesa di un giudizio che è lentissimo e che finisce col punire solamente l’innocente che si ritrova, per varie e spesso superficiali motivazioni, all’interno di un’inchiesta giudiziaria di mafia.
C’è il caso, a noi vicino, dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa Jonica, Rocco Femia che ha dovuto aspettare dieci anni per vedere riconosciute le sue ragioni d’innocenza. Però, s’è fatto cinque anni di carcere durissimo, è stata distrutta la sua carriera politica, invalidata per sempre la sua attività di professore di liceo, frantumata l’esistenza e tentato (senza fortuna, grazie a moglie e figli)) di minare anche la stessa vita familiare. Per poi scoprire che è assolutamente estraneo agli infamanti fatti di mafia di cui era stato accusato. Chi ripagherà l’amministratore e l’uomo Femia delle infamie, dei soprusi subiti in carcere, dell’indegna carcerazione e del pubblico ludibrio della sua onorabilità calpestata senza un briciolo di prove?
La mancanza della “pistola fumante”, ovvero la prova incontrovertibile, dovrebbe essere il metro giusto per misurare le richieste di custodia cautelare e indagini rapide dovrebbero essere garantite per accertare se esistono ragionevoli indizi sulla presunta colpevolezza. Attenzione alla parola “presunta”: la nostra Carta Costituzionale garantisce la presunzione d’innocenza fino al terzo grado di giudizio: se i padri costituenti hanno ritenuto opportuno scrivere al secondo comma dell’art. 27 «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», questa dettato va rispettato da tutti, senza se e senza ma. Ma non è quello che si vede, ai giorni nostri, leggendo molti giornali o guardando certe trasmissioni televisive.
Noi giornalisti, dobbiamo smettere di cercare il sensazionalismo evitando di applicare facili etichette di colpevolezza alla semplice emissione di un avviso di garanzia, dedicando semmai le proprie capacità (e, quando c’è, il talento) a fare quel giornalismo d’inchiesta di cui sembra si siano perse le tracce. Iacona fa questo tipo di giornalismo, con onestà intellettuale e massimo rigore, e dovremmo avere cento, mille Iacona a scoperchiare magagne e sollecitare l’interesse della magistratura su condotte non certo irreprensibili. Ma nella stessa misura non abbiamo bisogno di magistrati “giustizialisti” secondo i quali tutti sono colpevoli, salvo a dimostrare il contrario. Compito della pubblica accusa è dimostrare la colpevolezza e tocca alla difesa smontare l’ipotesi accusatoria, quando questa è basata sul nulla o non si regge su elementi probatori certi. Non si può mettere il timbro di “mafioso” a una persona perbene in base a intercettazioni indirette o a prove che risulteranno poi inesistenti: è accaduto, accade ancora, purtroppo.
Occorre trovare l’equilibrio perché la giustizia sia sempre tale e non, come ha raccontato miseramente l’ex capo dell’Associazione Magistrati Palamara, a volte a favore dell’uno o dell’altro interesse personalistico. Ne va della nostra vita di cittadini: a nessuno sia consentito di continuare a delinquere, a corrompere, a imporre la logica mafiosa del potere che compra tutto e travolge tutto (ma non tutto, per fortuna), ma non è altresì tollerabile vedere una persona – apparentemente perbene – finire ai ferri, senza elementi certi di indagine, senza prove che non possono essere confutate perché inesistenti. La regola della “pistola fumante” sarebbe il primo passo per una riforma della giustizia che non può più essere rinviata: una giustizia che persegua mafiosi e gente di malaffare, ma non mortifichi e “uccida” socialmente qualche innocente. (s)
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LE REAZIONI E I COMMENTI
LEGA – Il commissario regionale della Lega, avv. Giacomo Saccomanno ricorda che «la Calabria e l’Italia intera sono stati distrutti dalla corruzione e dagli intrecci tra criminalità organizzata, politica e imprenditoria. Elementi questi che hanno completamente bloccato una possibile crescita della nostra regione, obbligando tanti giovani ad andare via. Danni gravissimi che, però, non vengono nemmeno esaminati. D’altro canto, scagliarsi contro chi ha evidenziato tale quadro, si allarmante, e come buttare avanti le mani! Eppure, tale attacco proviene da coloro che ben conoscono le regole del processo. La Procura fa delle indagini e se ritiene che vi siano degli elementi di rilevanza penale procede a formulare le proprie richieste. Queste vengono vagliate da altri magistrati terzi che, se ne ravvedono le condizioni, procedono ad accogliere o negare le richieste. Poi a seguire i tanti mezzi impugnatori che garantiscono l’indagato o l’imputato».
Secondo il legale di Rosarno, «È veramente intollerabile che si possa commentare negativamente l’azione giudiziaria portata avanti da un valente ed intransigente magistrato e da una Procura coraggiosa ed anche la libertà di stampa per un libero commento a tali indagini. La fragilità delle lamentele è tale che appare veramente incomprensibile. Sembra essere ritornati a tanti anni orsono allorquando si contestava una metodologia, ma non si rifletteva sulla sostanza delle conseguenti gravi scoperte»
TESORO CALABRIA – Carlo Tansi sostiene che si«attacca chi denuncia, non chi delinque, Ma è assordante il silenzio della politica». Secondo Tansi, «Iacona ha dunque scoperchiato il Vaso di Pandora, illuminando il tenebroso sottobosco in cui si saldano gli interessi perversi di vecchi boss ancora degni del Padrino, e simbolicamente legati a coppola e lupara, quasi fossero ‘chiddi cu i peri incritati’ tipo Riina e Provenzano; nuovi famelici capibastone più affaristici e intraprendenti; insospettabili colletti bianchi al completo servizio in cambio di fiumi di denaro da parte dei vertici delle varie ‘ndrine; appartenenti alle forze dell’ordine corrotti e alcuni di quei ‘bravi cittadini’ a disposizione del Sistema in cerca di utilità di qualsivoglia genere. Una malapianta che cresce infestando una foresta sana e drogando l’economia e la società di una regione altrimenti fra le più belle d’Italia e non solo.
Ma quello che mi fa più male, addirittura sconvolgendomi, non è tanto l’affondo dell’Unci regionale a salvaguardia dei suoi interessi fra avvocati secondo l’accusa asseriti burattinai di certi giochi di potere e soldi, tantissimi soldi, imputati eccellenti e capimafia ottimi clienti, bensì l’assordante silenzio della politica. Un’Istituzione che avrebbe dovuto urlare tutto lo sdegno e la rabbia per quanto mostrato da Rai3 in diretta nazionale e viceversa chiusa a riccio, per i troppi inconfessabili strusci con quel mondo di… mezzo, in attesa di veder passare la tempesta. Una vergogna senza fine. Una pagina nera, da voltare al più presto.
CAMERE PENALI – Il coordinamento delle Camere Penali Calabresi, con le firme degli avvocati Valerio Murgano (Catanzaro), Armando Veneto (Palmi), Pasquale Foti (Reggio), Eugenio Minniti (Locri), Pietro Perugini (Cosenza), Liborio Bellusci (Castrovillari), Giuseppe Mario Aloi (Vibo Valentia), Romualdo Truncè (Crotone), Massimo Zicarelli (Paola), Giuseppe Zofrea (Lamezia Terme) e Giovanni Zagarese (Rossano) ha redatto il documento con cui sostiene che il giornalista Iacona ha «delegittimato il processo».
«Non servirà – si legge nel documento – un dibattimento, inutile ascoltare oltre mille testimoni – indicati in buona parte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro – e attendere la perizia sulle intercettazioni; superflue le domande e le discussioni dei difensori, così come tutta l’impalcatura processuale sancita nel codice di rito.
Non occorreva l’indovino Tiresia (secondo la mitologia greca reso cieco dagli Dei affinché non profetizzasse argomenti “segreti”) per immaginare quello che sarebbe avvenuto da lì a poco nella trasmissione televisiva del servizio pubblico “presa diretta”: il processo Rinascita Scott è stato celebrato dalla Tv di Stato (Rai Tre) con la condanna anticipata di tutti gli imputati.
L’attacco scriteriato e indiscriminato alla presunzione d’innocenza e ai principi costituzionali del giusto processo non ci sorprende più e, ancor di meno, ci meraviglia che il tribunale del popolo, imbastito abilmente dall’inchiesta giornalistica, si sia espresso per mezzo della televisione pubblica.
Attraverso la capziosa e partigiana rappresentazione di un processo – che solo sulla carta deve ancora celebrarsi – è stata rivendicata la necessità che gli “orpelli” del diritto processuale penale siano smantellati attraverso una scenografica rappresentazione delle istanze punitive della pubblica accusa.
Le camere penali calabresi avevano avvertito e denunciato il rischio che la diffusa delegittimazione della funzione difensiva – frutto dell’abusata assimilazione tra l’avvocato e le ragioni del proprio assistito – risultasse “plasticamente” raffigurata dalla “colossale” macchina giudiziaria messa in piedi dalla Procura di Catanzaro, senza alcuna tutela per le istanze a presidio delle libertà individuali. Si è già detto: ”emerge lampante come un processo elefantiaco a carico di 480 imputati si risolva “fisiologicamente” (sia consentito l’ossimoro) in un rito sommario nei confronti di “categorie criminologiche” assistite dalla presunzione di colpevolezza. Il resto è teatralità”.
Da avvocati penalisti abbiamo il dovere di resistere alle barbarie del processo virtuale, mediatico, anticipato, capace di condizionare non solo l’opinione pubblica, ma soprattutto i giudici che compongono il Tribunale del processo Rinascita Scott.
Avevamo paventato – a ragione – che la spettacolarizzazione dell’inchiesta potesse nuocere alla dignità e alle sorti processuali dei soggetti coinvolti.
Oggi si ha la certezza che la sovraesposizione degli atti d’indagine, interpretati come nelle migliori fiction dai loro stessi protagonisti, verranno valutate come prove della responsabilità penale dei singoli.
Violando la riservatezza e la salvaguardia della “verginità” cognitiva dei giudici, sono stati escussi testimoni, riprodotte intercettazioni (senza il filtro del perito), divulgate immagini, esibiti atti ripetibili d’indagini, il tutto nell’assenza assoluta di un valido contraddittorio. A chi interessa (non si è fatto minimo accenno nella trasmissione) se buona parte (circa 200) delle misure cautelari applicate siano state successivamente censurate nelle sedi giudiziarie del gravame.
Sotto lo scudo del diritto di cronaca si è materializzato un attacco cruento ai principi cardinali del sistema penale, le informazioni somministrate senza il filtro di un interlocutore capace di offrirne un’analisi corretta all’opinione pubblica.
La libertà personale, la tutela dell’immagine, la difesa della dignità dei soggetti inquisiti, il diritto a un equo e giusto processo, tutti sacrificati sull’altare di un giustizialismo propagandistico e inquisitorio, degno di una TV di regime.
Assistiamo, oramai assuefatti, all’abuso costante del diritto-dovere di informare da parte dei media, i quali, pur di perseguire l’audience e il successo editoriale, prestano il fianco alle logiche di un potere illimitato nelle mani di un tiranno che tratta i propri cittadini come sudditi.
Una sorta di realtà “parallela” frutto sapiente di una sceneggiatura montata ad arte dalla testata giornalistica pubblica.
Il grido di dolore delle camere penali calabresi è ben condensato nelle sapienti parole che il Guardasigilli ha pronunciando solo due giorni fa in commissione giustizia alla Camera dei Deputati e con le quali il Ministro Marta Cartabia ha riaffermato, a questo punto anche lei inutilmente, il “no” al processo mediatico, denunciando “la sponda” che gli inquirenti cercano sui media per amplificare la forza delle accuse.
Ed allora, i giudici saranno chiamati a valutare fatti già accertati, a giudicare soggetti già condannati, a valutare prove già assunte.
L’uso distorto del diritto d’informazione, l’annientamento delle garanzie processuali, la violazione sistematica del diritto di difesa, non indeboliscono, ma all’opposto rafforzano la criminalità organizzata, amplificando logiche e spinte antistatali che trovano nuova linfa nell’animo di coloro che non credono più che l’imputato abbia il diritto di difendersi nel processo e nel rispetto delle regole.
Le Camere Penali Calabresi, nel ribadire il momento drammatico che l’esercizio del diritto di difesa vive sul proprio territorio, propongono alla Giunta di voler proclamare lo stato di agitazione dell’avvocatura penalista, accompagnata da iniziative di carattere politico sull’intero territorio nazionale».
UNIONE CRONISTI – Come riferisce il giornale online Giornalistitalia, diretto da Carlo Parisi, i cronisti calabresi sottolineano che «la redazione di PresaDiretta ha reso, invece, un servizio al Paese, offrendo una eccezionale pagina di buon giornalismo, raccontando i fatti alla base dell’inchiesta la cui tenuta è adesso al vaglio di collegio di giudici che valuterà nel nome del Popolo italiano la colpevolezza e l’innocenza degli imputati. Nessun processo mediatico, dunque, nessuna sentenza anticipata, ma un’informazione corretta, completa, essenziale e puntuale. Restiamo esterrefatti, peraltro, di fronte a certe affermazioni».
«Frasi sottoscritte dai penalisti come “assistiamo, oramai assuefatti, all’abuso costante del diritto-dovere di informare da parte dei media, i quali, pur di perseguire l’audience e il successo editoriale, prestano il fianco alle logiche di un potere illimitato nelle mani di un tiranno che tratta i propri cittadini come sudditi” – incalza l’Unci Calabria – sono gravissime. I giornalisti italiani e calabresi, sottoposti essi stessi ad estenuanti procedimenti penali e cause temerarie milionarie, abusano davvero del diritto-dovere d’informare?
Oppure chi abusa sono, invece, coloro che ricorrono strumentalmente proprio dal diritto con lo scopo di intimidire e fermare i giornalisti stessi? E chi sarebbe il tiranno? Il procuratore Nicola Gratteri, forse? O la tirannide, invece, è quella dei mafiosi che, essi sì, trattano i cittadini come sudditi o, peggio, come schiavi e che costringono molti nostri colleghi a vivere sotto scorta o sottoposti a servizi di vigilanza dinamica dalle Prefetture?».
Dal Gruppo Cronisti Calabria, dunque, «solidarietà piena e convinta non solo a PresaDiretta, a Riccardo Iacona e ad i suoi inviati, ma anche a tutti coloro che, resistendo ad ogni forma di pressione, continuano a produrre un’informazione seria, coraggiosa e competente, rispettosa dei diritti costituzionali tutti»