La sottosegretaria Nesci: Sentenza “Rinascita-Scott” dimostra che Stato c’è, serve ripartenza culturale

La sottosegretaria per il Sud, Dalila Nesci, ha ribadito come «la pioggia di condanne  al processo Rinascita-Scott rappresenta la reazione ferma delle istituzioni di fronte alle infiltrazioni della ‘Ndrangheta a ogni livello. Questa sentenza dimostra che lo Stato c’è, viene inflitto un colpo durissimo alle cosche e alla loro rete di connivenza».

«Il processo andrà avanti – ha aggiunto – ma è necessario che ci sia anche una risposta a livello civile, serve una ripartenza di tipo culturale per liberare il vibonese e la Calabria dall’oppressione della criminalità».

«Grazie al Procuratore Nicola Gratteri, alla magistratura e alle Forze dell’ordine – ha proseguito – per il loro lavoro che ha portato a questo primo importante risultato, è un grande messaggio di speranza per i cittadini onesti che hanno subito per anni la presenza pervasiva della criminalità. Questa sentenza rappresenta un punto di partenza non solo per il maxi processo, ma anche per una svolta sul piano culturale, in particolare a beneficio delle nuove generazioni che hanno il diritto di costruire un futuro migliore».

«È necessario il lavoro sinergico delle istituzioni e della società civile per consentire una presa di coscienza collettiva e – ha concluso Nesci – appagare il desiderio di rinascita dei calabresi». (rrm)

L’OPINIONE / Attenzione: è un processo alla ‘ndrangheta, non alla Calabria

La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.(Corrado Alvaro)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se si parla di “Rinascita” di Calabria, sorride il cuore. Ripartono i sentimenti di pancia e riaffiorano l’orgoglio e l’identità. Il senso preciso dell’appartenenza risorge e si mobilita persino la nobiltà del dialetto. Ma se si passa a “Rinascita Scott”, cambia il disco.

Il cuore piange, il dialetto stracangia e il sentimento che prende allo stomaco ammalatisce il pensiero e frammenta i santi lumi.

Una storia triste che ha la forza di avere sullo sfondo paesaggi da togliere il fiato. Un avvicendamento di tempi ed eventi che suffragati dalle lusinghe del bisogno, tumulano una terra forte e gloriosa. Dove la bellezza abdica, e al suo posto s’introna la bramosia del potere. Declassandola da Magna Grecia, a terra di nenti e di nuju.

Una crociata che va dalla Genesi all’Apocalisse. Con la polvere tra le ciglia, senza sapere se chi è vicino a te è un Dio o un diavolo.

Terra di briganti prima, terra di ‘ndranghetisti poi. Questione di vedute e mai di ravvedimenti.

Una Lectio viva che tratta di dignità e morale. Un nodo atavico che più il calabrese si divincola e scapiglia, più si stringe. E la fame d’aria è peggio della fame di pane.

Una stortura tragicomica e minchiona che getta tra gli inferi pure i lattanti. E sdegna il contadino, il muratore, l’artista e la maestra. Il primo che rivolta le zolle, l’altro che scuote la sabbia tra i mattoni, l’artista che mescola i colori e la maestra che legge sui libri i nomi dei bambini.

Una pena e una penale che rimbrotta i cuori. Pompa il sangue al cervello e lo risucchia come una ventosa. Annigrica le vesti. Mangia le teste pulite. Processa i santi e pure i lutti. I porci e pure i buoi. I criminali  e i lavoratori. E con requiem aeternam, anche la gloria di una Calabria da sempre regia e magna per le sue antiche gesta e la sua mirabile storia. I suoi dolci vizi e le sue amabili virtù.

Il processo è alla ndrangheta, non alla Calabria. Il processo è alla categoria dei tinti, non ai Bruzi. Allo sfregio, non alla bellezza. Cosenza, Crotone, Vibo, Catanzaro e Reggio, Calabria Ultra e Calabria Citra, dispongono di ben altro che la ciotià della ‘ndrangheta. Ma da dietro gli schermi non passa, in prima serata e in primo piano sarebbe troppo. Così non si intravedono che appena i pochi scorci lontani, di una vita naturale e tranquilla, che quaggiù si vive a tutt’oggi. Laboriosa e impegnativa più che altrove.

Il processo è alla ndrangheta, non alla Calabria. La ‘ndrangheta è un sistema. La Calabria è una terra. Calabresi si nasce, uomini di ‘ndrangheta si diventa.

Il processo di dequalificazione a cui la Calabria, nel tempo, è stata sottoposta, affinché vi stesse comodo il proso di certuni, e quello dei calabresi onesti, finisse sfiancato di sacrifici e di lavoro, non è che un atto ignobile di cui tutto il paese è responsabile. E il nostro paese è l’Italia.

E in “Presa Diretta” se ne prenda il carico.

Dal 17 marzo 1861, l’affondo a questa terra non è mica finito.

I fatti e i misfatti della ‘ndrangheta, che coinvolgono il Sud, quasi sempre nella sua interezza, restano parte di una questione che nessuno profondamente ha mai voluto studiare. Che a nessuno è mai interessava. Che Milano, e tutto il Nord, hanno favorito. Volutamente indotto. Accettando compromessi, favoritismi, e inneggiando alla più spietata delle corruzioni.

Ma la Calabria non è la ‘ndrangheta. E ci sono uomini e donne che raccontano perfettamente questo spaccato di vita. Una verità che va urgentemente detta. E va chiamata con nomi e cognomi.

I calabresi sono uomini e donne d’Italia con “Credo” e con “Valori”, e come tali fermamente respingono i processi gratuiti fatti fuori dai tribunali, per mezzo dei quali si rischia di identificare come criminale tutta la società calabra civile.

Il processo è alla ‘ndrangheta non alla Calabria.

 La Calabria è una terra viva che richiede apertamente di essere vissuta. Abitata. Perlustrata fin dentro la sua pancia. Con i metodi dello scandaglio, navigata. In andata e in ritorno, nelle acque aperte dei suoi due mari. I fondali blu dello Ionio, le secche pescose del Tirreno.

Non è sufficiente farsela piacere questa una terra così. Non  basta esservi nati, per sentirvene parte. È necessario amarla. Svisceratamente. Dall’Aspromonte al Pollino. Come ognuno fa con la sua terra. Con trasporto sentimentale e sensuale. In presenza quotidiana. Con assidua frequenza di battiti, con precisi moventi e senza alibi. D’impulso anche, con la coscienza puntata sui sacrifici e le rinunce. L’offerta volontaria della propria vita.

Non basta dichiararle amore una sola volta. L’attestazione del sentimento che si prova, va obbligatoriamente ripetuta. Ogni giorno. Con fare ciclico e perpetuo. Con i gesti, gli esempi, il lavoro, la fatica, il senso di responsabilità, il coraggio, le opere, le prestazioni, la forza, ma soprattutto il tempo prezioso con cui ci si dedica a tutto questo.

La Calabria è un sentimento urgente. Uno stato d’animo che danna e rallegra. Ed è amara ed è bella.

E come l’amore, capita, non si sceglie. Ma va mantenuta. Come accade con le promesse.

È un destino dentro al cuore che ti prende e non lo sai lasciare.

Un destino prepotente che rischia di lasciarti senza niente.

Nessuno può amarla per obbligo o per capriccio, la Calabria. Giammai per gusto spicciolo o tornaconto personale. Si Perpetuerebbe l’ennesimo crimine.

E il processo della ‘ndrangheta diventerebbe, immediatamente, il processo della Calabria. (gsc)

GIUSTIZIA, CAMERE PENALI CONTRO IACONA
TEATRALITÀ IN TV O DIRITTO DI CRONACA?

di SANTO STRATI – Che la trasmissione Presa Diretta di lunedì scorso dedicata al processo Rinascita Scott avrebbe creato un po’ di scompiglio era più che scontato, meno prevedibile il pesante attacco firmato dalle Camere penali di tutta la Calabria contro il giornalista Riccardo Iacona. Da un lato, i penalisti parlano di «capziosa e partigiana rappresentazione di un processo – che solo sulla carta deve ancora celebrarsi»,  dall’altro, l’Unione Cronisti calabresi difende il lavoro di Iacona bollando come «sconcertante il documento sottoscritto dai presidenti delle Camere penali calabresi».

Il giornalista ha spiegato all’AdnKronos di non avere fatto «un processo in tv, il processo si fa nell’aula bunker di Lamezia Terme e non era l’oggetto della mia inchiesta. L’oggetto della mia inchiesta era l’indagine Rinascita Scott. E le riprese sono cominciate prima ancora che iniziasse la prima udienza a Lamezia Terme. Non è che noi facciamo cronaca processuale. Invece è importante che i giornalisti tornino a parlare di queste cose».

Secondo l’Unione Cronisti della Calabria, guidata da Michele Albanese, «Il lavoro realizzato da Riccardo Iacona e con i colleghi Marco Dellamonica e Massimiliano Torchia, contrariamente a quanto scritto dai penalisti calabresi ha, invece, avuto il merito di spezzare l’assordante silenzio dell’informazione nazionale su una delle vicende giudiziarie più importanti della storia italiana, ovvero il maxiprocesso Rinascita Scott la cui narrazione, anche a causa delle contestabili e contestate limitazioni imposte dal Tribunale di Vibo Valentia alle riprese audiovisive del dibattimento, è stata sin qui rassegnata al lavoro solitario ed encomiabile di pochissimi cronisti e testate calabresi».

I cronisti calabresi affermano che «la redazione di PresaDiretta ha reso, invece, un servizio al Paese, offrendo una eccezionale pagina di buon giornalismo, raccontando i fatti alla base dell’inchiesta la cui tenuta è adesso al vaglio di collegio di giudici che valuterà nel nome del Popolo italiano la colpevolezza e l’innocenza degli imputati. Nessun processo mediatico, dunque, nessuna sentenza anticipata, ma un’informazione corretta, completa, essenziale e puntuale. Restiamo esterrefatti, peraltro, di fronte  a certe affermazioni».

Di parere opposto i rappresentanti delle Camere Penali che sostengono: «L’attacco scriteriato e indiscriminato alla presunzione d’innocenza e ai principi costituzionali del giusto processo non ci sorprende più e, ancor di meno, ci meraviglia che il tribunale del popolo, imbastito abilmente dall’inchiesta giornalistica, si sia espresso per mezzo della televisione pubblica», affermando di avere «avvertito e denunciato il rischio che la diffusa delegittimazione della funzione difensiva – frutto dell’abusata assimilazione tra l’avvocato e le ragioni del proprio assistito – risultasse  “plasticamente” raffigurata dalla “colossale” macchina giudiziaria messa in piedi dalla Procura di Catanzaro, senza alcuna tutela per le istanze a presidio delle libertà individuali».

I penalisti calabresi indicano che «Violando la riservatezza e la salvaguardia della “verginità” cognitiva dei giudici, sono stati escussi testimoni, riprodotte intercettazioni (senza il filtro del perito), divulgate immagini, esibiti atti ripetibili d’indagini, il tutto nell’assenza assoluta di un valido contraddittorio. A chi interessa (non si è fatto minimo accenno nella trasmissione) se buona parte (circa 200) delle misure cautelari applicate siano state successivamente censurate nelle sedi giudiziarie del gravame».

Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, nelle scorse settimane, aveva lamentato la scarsa attenzione riservata dai media a questo colossale processo che mette alla sbarra un incredibile quantità di presunti mafiosi e tanti, troppi, “colletti bianchi” supporter – secondo l’accusa – di un sistema criminale interamente in capo alla ‘ndrangheta. E l’inchiesta di Iacona ha raccontato come si è arrivati a istruire questo processo e a illustrare le ragioni della pubblica accusa (13mila pagine di ordinanza): il processo è ancora agli inizi e dovrà, ovviamente, avere tutta la visibilità mediatica dovuta. Quindi inspiegabili sono anche le limitazioni imposte dai giudici all’attività giornalistica e di documentazione audio-video.

Due posizioni contrastanti, dunque: tra diritto alla difesa e diritto all’informazione. A nostro modesto avviso, hanno ragione entrambe le parti. Da troppo tempo è invalsa l’abitudine di ritenere un avviso di garanzia l’equivalente di una condanna e da strumento a tutela dell’indagato/accusato si è trasformato in gogna mediatica garantita, oltre, naturalmente, alle custodie cautelari, ai sequestri e quant’altro previsto in casi del genere dal nostro codice penale. Presa Diretta ha esercitato il diritto di cronaca, cercando di spiegare, di informare, di contestualizzare il quadro processuale, senza emettere sentenze: non è compito dei giornalisti e la correttezza e la serietà professionale di Iacona non possono in alcun modo essere messe in discussione. E non si può dire che non abbia ascoltato anche le parti della difesa. Indubbiamente, in una sintesi televisiva, il rischio di teatralità è inevitabile, soprattutto se si prendono le intercettazioni e si fanno interpretare con tanto di inflessione dialettale, tanto da indurre più d’uno a immaginare che siano le registrazioni in mano ai magistrati. Questo modo di fare giornalismo, probabilmente, merita una presa di distanza: il racconto  distaccato del cronista – rischia di essere “viziato” di una inevitabile – anche se spesso involontaria – sponda a favore soltanto della pubblica accusa.

Intendiamoci, il lavoro – straordinario e non invidiato da nessuno – del dott. Gratteri è fuori discussione: il suo impegno per la legalità e il trionfo della giustizia sono sotto gli occhi di tutti, giorno dopo giorno, come una missione che solo un sognatore o un “fanatico della legge” come il procuratore di Catanzaro potrebbe portare avanti. La sua lotta contro il crimine organizzato, contro la ‘ndrangheta, ma soprattutto contro le cosiddette “zone grigie” di funzionari dello Stato, imprenditori, professionisti, che si ritrovano a fiancheggiare la mafia per la conquista di spazi a 360 gradi da parte delle varie cosche, la sua lotta deve avere il plauso e il sostegno incondizionato di tutti i calabresi, anzi di tutto il popolo italiano: la malapianta del crimine si può estirpare solo grazie a personaggi come Gratteri che hanno sacrificato un’esistenza tranquilla a favore di una guerra totale alla ‘ndrangheta. Che è fatta non più solo di capibastone e di picciotti, ma di troppi compiacenti personaggi dell’apparato della vita civile, che hanno contribuito alla crescita e permettono, ancora oggi, il prosperare di traffici illeciti che generano profitti pazzeschi.

Quindi, non solo non ci si deve fermare nella lotta indiscriminata alle consorterie mafiose, che crescono con le devianze massoniche o il favore di infedeli colletti bianchi dell’amministrazione statale, ma bisogna incrementare e sostenere tale battaglia, che, anzi, è una vera e propria guerra. Servono giudici, militari, forze dell’ordine: un rafforzamento in tutti i campi che piantoni il territorio e garantisca la legalità, proprio nel momento in cui le indagini scoperchiano un verminaio sempre più disgustoso di alleanze che i calabresi perbene (e sono tantissimi) vorrebbero vedere annientato una volta per tutte. Serve, in altre parole, lo Stato che faccia sentire la sua presenza e non abbandoni i suoi uomini migliori in questa lotta spesso impari con il crimine organizzato.

Allo stesso tempo, però, non si può fare a meno di sottolineare che il diritto a un giusto processo – che sia di ragionevole durata – è assolutamente inalienabile. E, invece, c’è, purtroppo, con una frequenza che mette paura, il ricorso “facile” alle manette e alle custodie cautelari, dimenticandosi di chi finisce dietro le sbarre o al chiuso dei “domiciliari”, lasciandolo in attesa di un giudizio che è lentissimo e che finisce col punire solamente l’innocente che si ritrova, per varie e spesso superficiali motivazioni, all’interno di un’inchiesta giudiziaria di mafia.

C’è il caso, a noi vicino, dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa Jonica, Rocco Femia che ha dovuto aspettare dieci anni per vedere riconosciute le sue ragioni d’innocenza. Però, s’è fatto cinque anni di carcere durissimo, è stata distrutta la sua carriera politica, invalidata per sempre la sua attività di professore di liceo, frantumata l’esistenza e tentato (senza fortuna, grazie a moglie e figli)) di minare anche la stessa vita familiare. Per poi scoprire che è assolutamente estraneo agli infamanti fatti di mafia di cui era stato accusato. Chi ripagherà l’amministratore e l’uomo Femia delle infamie, dei soprusi subiti in carcere, dell’indegna carcerazione e del pubblico ludibrio della sua onorabilità calpestata senza un briciolo di prove?

La mancanza della “pistola fumante”, ovvero la prova incontrovertibile, dovrebbe essere il metro giusto per misurare le richieste di custodia cautelare e indagini rapide dovrebbero essere garantite per accertare se esistono ragionevoli indizi sulla presunta colpevolezza. Attenzione alla parola “presunta”: la nostra Carta Costituzionale garantisce la presunzione d’innocenza fino al terzo grado di giudizio: se i padri costituenti hanno ritenuto opportuno scrivere al secondo comma dell’art. 27 «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», questa dettato va rispettato da tutti, senza se e senza ma. Ma non è quello che si vede, ai giorni nostri, leggendo molti giornali o guardando certe trasmissioni televisive.

Noi giornalisti, dobbiamo smettere di cercare il sensazionalismo evitando di applicare facili etichette di colpevolezza alla semplice emissione di un avviso di garanzia, dedicando semmai le proprie capacità (e, quando c’è, il talento) a fare quel giornalismo d’inchiesta di cui sembra si siano perse le tracce. Iacona fa questo tipo di giornalismo, con onestà intellettuale e massimo rigore, e dovremmo avere cento, mille Iacona a scoperchiare magagne e sollecitare l’interesse della magistratura su condotte non certo irreprensibili. Ma nella stessa misura non abbiamo bisogno di magistrati “giustizialisti” secondo i quali tutti sono colpevoli, salvo a dimostrare il contrario. Compito della pubblica accusa è dimostrare la colpevolezza e tocca alla difesa smontare l’ipotesi accusatoria, quando questa è basata sul nulla o non si regge su elementi probatori certi. Non si può mettere il timbro di “mafioso” a una persona perbene in base a intercettazioni indirette o a prove che risulteranno poi inesistenti: è accaduto, accade ancora, purtroppo.

Occorre trovare l’equilibrio perché la giustizia sia sempre tale  e non, come ha raccontato miseramente l’ex capo dell’Associazione Magistrati Palamara, a volte a favore dell’uno o dell’altro interesse personalistico. Ne va della nostra vita di cittadini: a nessuno sia consentito di continuare a delinquere, a corrompere, a imporre la logica mafiosa del potere che compra tutto e travolge tutto (ma non tutto, per fortuna), ma non è altresì tollerabile vedere una persona – apparentemente perbene – finire ai ferri, senza elementi certi di indagine, senza prove che non possono essere confutate perché inesistenti. La regola della “pistola fumante” sarebbe il primo passo per una riforma della giustizia che non può più essere rinviata: una giustizia che persegua mafiosi e gente di malaffare, ma non mortifichi e “uccida” socialmente qualche innocente. (s)

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LE REAZIONI E I COMMENTI

LEGA – Il commissario regionale della Lega, avv. Giacomo Saccomanno ricorda che «la Calabria e l’Italia intera sono stati distrutti dalla corruzione e dagli intrecci tra criminalità organizzata, politica e imprenditoria. Elementi questi che hanno completamente bloccato una possibile crescita della nostra regione, obbligando tanti giovani ad andare via. Danni gravissimi che, però, non vengono nemmeno esaminati. D’altro canto, scagliarsi contro chi ha evidenziato tale quadro, si allarmante, e come buttare avanti le mani! Eppure, tale attacco proviene da coloro che ben conoscono le regole del processo. La Procura fa delle indagini e se ritiene che vi siano degli elementi di rilevanza penale procede a formulare le proprie richieste. Queste vengono vagliate da altri magistrati terzi che, se ne ravvedono le condizioni, procedono ad accogliere o negare le richieste. Poi a seguire i tanti mezzi impugnatori che garantiscono l’indagato o l’imputato».

Secondo il legale di Rosarno, «È veramente intollerabile che si possa commentare negativamente l’azione giudiziaria portata avanti da un valente ed intransigente magistrato e da una Procura coraggiosa ed anche la libertà di stampa per un libero commento a tali indagini. La fragilità delle lamentele è tale che appare veramente incomprensibile. Sembra essere ritornati a tanti anni orsono allorquando si contestava una metodologia, ma non si rifletteva sulla sostanza delle conseguenti gravi scoperte»


TESORO CALABRIA – Carlo Tansi sostiene che si«attacca chi denuncia, non chi delinque, Ma è assordante il silenzio della politica». Secondo Tansi, «Iacona ha dunque scoperchiato il Vaso di Pandora, illuminando il tenebroso sottobosco in cui si saldano gli interessi perversi di vecchi boss ancora degni del Padrino, e simbolicamente legati a coppola e lupara, quasi fossero ‘chiddi cu i peri incritati’ tipo Riina e Provenzano; nuovi famelici capibastone più affaristici e intraprendenti; insospettabili colletti bianchi al completo servizio in cambio di fiumi di denaro da parte dei vertici delle varie ‘ndrine; appartenenti  alle forze dell’ordine corrotti e alcuni di quei ‘bravi cittadini’ a disposizione del Sistema in cerca di utilità di qualsivoglia genere. Una malapianta che cresce infestando una foresta sana e drogando l’economia e la società di una regione altrimenti fra le più belle d’Italia e non solo.
Ma quello che mi fa più male, addirittura sconvolgendomi, non è tanto l’affondo dell’Unci regionale a salvaguardia dei suoi interessi fra avvocati secondo l’accusa asseriti burattinai di certi giochi di potere e soldi, tantissimi soldi, imputati eccellenti e capimafia ottimi clienti, bensì l’assordante silenzio della politica. Un’Istituzione che avrebbe dovuto urlare tutto lo sdegno e la rabbia per quanto mostrato da Rai3 in diretta nazionale e viceversa chiusa a riccio, per i troppi inconfessabili strusci con quel mondo di… mezzo, in attesa di veder passare la tempesta. Una vergogna senza fine. Una pagina nera, da voltare al più presto.


CAMERE PENALI – Il coordinamento delle Camere Penali Calabresi, con le firme degli avvocati Valerio Murgano (Catanzaro), Armando Veneto (Palmi), Pasquale Foti (Reggio), Eugenio Minniti (Locri), Pietro Perugini (Cosenza), Liborio Bellusci (Castrovillari), Giuseppe Mario Aloi (Vibo Valentia), Romualdo Truncè (Crotone), Massimo Zicarelli (Paola), Giuseppe Zofrea (Lamezia Terme) e Giovanni Zagarese (Rossano) ha redatto il documento con cui sostiene che il giornalista Iacona ha «delegittimato il processo».

«Non servirà – si legge nel documento – un dibattimento, inutile ascoltare oltre mille testimoni – indicati in buona parte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro – e attendere la perizia sulle intercettazioni; superflue le domande e le discussioni dei difensori, così come tutta l’impalcatura processuale sancita nel codice di rito.

Non occorreva l’indovino Tiresia (secondo la mitologia greca reso cieco dagli Dei affinché non profetizzasse argomenti “segreti”) per immaginare quello che sarebbe avvenuto da lì a poco nella trasmissione televisiva del servizio pubblico “presa diretta”: il processo Rinascita Scott è stato celebrato dalla Tv di Stato (Rai Tre) con la condanna anticipata di tutti gli imputati.

L’attacco scriteriato e indiscriminato alla presunzione d’innocenza e ai principi costituzionali del giusto processo non ci sorprende più e, ancor di meno, ci meraviglia che il tribunale del popolo, imbastito abilmente dall’inchiesta giornalistica, si sia espresso per mezzo della televisione pubblica.

Attraverso la capziosa e partigiana rappresentazione di un processo – che solo sulla carta deve ancora celebrarsi – è stata rivendicata la necessità che gli “orpelli” del diritto processuale penale siano smantellati attraverso una  scenografica rappresentazione delle istanze punitive della pubblica accusa.

Le camere penali calabresi avevano avvertito e denunciato il rischio che la diffusa delegittimazione della funzione difensiva – frutto dell’abusata assimilazione tra l’avvocato e le ragioni del proprio assistito – risultasse  “plasticamente” raffigurata dalla “colossale” macchina giudiziaria messa in piedi dalla Procura di Catanzaro, senza alcuna tutela per le istanze a presidio delle libertà individuali. Si è già detto: ”emerge lampante come un processo elefantiaco a carico di 480 imputati si risolva “fisiologicamente” (sia consentito l’ossimoro) in un rito sommario nei confronti di “categorie criminologiche” assistite dalla presunzione di colpevolezza. Il resto è teatralità”.

Da avvocati penalisti abbiamo il dovere di resistere alle barbarie del processo virtuale, mediatico, anticipato, capace di condizionare non solo l’opinione pubblica, ma soprattutto i giudici che compongono il Tribunale del processo Rinascita Scott.

Avevamo paventato – a ragione – che la spettacolarizzazione dell’inchiesta potesse nuocere alla dignità e alle sorti processuali dei soggetti coinvolti.

Oggi si ha la certezza che la sovraesposizione degli atti d’indagine, interpretati come nelle migliori fiction dai loro stessi protagonisti, verranno valutate come prove della responsabilità penale dei singoli.

Violando la riservatezza e la salvaguardia della “verginità” cognitiva dei giudici, sono stati escussi testimoni, riprodotte intercettazioni (senza il filtro del perito), divulgate immagini, esibiti atti ripetibili d’indagini, il tutto nell’assenza assoluta di un valido contraddittorio. A chi interessa (non si è fatto minimo accenno nella trasmissione) se buona parte (circa 200) delle misure cautelari applicate siano state successivamente censurate nelle sedi giudiziarie del gravame.

Sotto lo scudo del diritto di cronaca si è materializzato un attacco cruento ai principi cardinali del sistema penale, le informazioni somministrate senza il filtro di un interlocutore capace di offrirne un’analisi corretta all’opinione pubblica.

La libertà personale, la tutela dell’immagine, la difesa della dignità dei soggetti inquisiti, il diritto a un equo e giusto processo, tutti sacrificati sull’altare di un giustizialismo propagandistico e inquisitorio, degno di una TV di regime.

Assistiamo, oramai assuefatti, all’abuso costante del diritto-dovere di informare da parte dei media, i quali, pur di perseguire l’audience e il successo editoriale, prestano il fianco alle logiche di un potere illimitato nelle mani di un tiranno che tratta i propri cittadini come sudditi.

Una sorta di realtà “parallela” frutto sapiente di una sceneggiatura montata ad arte dalla testata giornalistica pubblica.

Il grido di dolore delle camere penali calabresi è ben condensato nelle sapienti parole che il Guardasigilli ha pronunciando solo due giorni fa in commissione giustizia alla Camera dei Deputati e con le quali il Ministro Marta Cartabia ha riaffermato, a questo punto anche lei inutilmente, il “no” al processo mediatico, denunciando “la sponda” che gli inquirenti cercano sui media per amplificare la forza delle accuse.

Ed allora, i giudici saranno chiamati a valutare fatti già accertati, a giudicare soggetti già condannati, a valutare prove già assunte.

L’uso distorto del diritto d’informazione, l’annientamento delle garanzie processuali, la violazione sistematica del diritto di difesa, non indeboliscono, ma all’opposto rafforzano la criminalità organizzata, amplificando logiche e spinte antistatali che trovano nuova linfa nell’animo di coloro che non credono più che l’imputato abbia il diritto di difendersi nel processo e nel rispetto delle regole.

Le Camere Penali Calabresi, nel ribadire il momento drammatico che l’esercizio del diritto di difesa vive sul proprio territorio, propongono alla Giunta di voler proclamare lo stato di agitazione dell’avvocatura penalista, accompagnata da iniziative di carattere politico sull’intero territorio nazionale».


UNIONE CRONISTI – Come riferisce il giornale online Giornalistitalia, diretto da Carlo Parisi, i cronisti calabresi sottolineano che «la redazione di PresaDiretta ha reso, invece, un servizio al Paese, offrendo una eccezionale pagina di buon giornalismo, raccontando i fatti alla base dell’inchiesta la cui tenuta è adesso al vaglio di collegio di giudici che valuterà nel nome del Popolo italiano la colpevolezza e l’innocenza degli imputati. Nessun processo mediatico, dunque, nessuna sentenza anticipata, ma un’informazione corretta, completa, essenziale e puntuale. Restiamo esterrefatti, peraltro, di fronte  a certe affermazioni».

«Frasi sottoscritte dai penalisti come “assistiamo, oramai assuefatti, all’abuso costante del diritto-dovere di informare da parte dei media, i quali, pur di perseguire l’audience e il successo editoriale, prestano il fianco alle logiche di un potere illimitato nelle mani di un tiranno che tratta i propri cittadini come sudditi” – incalza l’Unci Calabria – sono gravissime. I giornalisti italiani e calabresi, sottoposti essi stessi ad estenuanti procedimenti penali e cause temerarie milionarie, abusano davvero del diritto-dovere d’informare?
Oppure chi abusa sono, invece, coloro che ricorrono strumentalmente proprio dal diritto con lo scopo di intimidire e fermare i giornalisti stessi? E chi sarebbe il tiranno? Il procuratore Nicola Gratteri, forse? O la tirannide, invece, è quella dei mafiosi che, essi sì, trattano i cittadini come sudditi o, peggio, come schiavi e che costringono molti nostri colleghi a vivere sotto scorta o sottoposti a servizi di vigilanza dinamica dalle Prefetture?».
Dal Gruppo Cronisti Calabria, dunque, «solidarietà piena e convinta non solo a PresaDiretta, a Riccardo Iacona e ad i suoi inviati, ma anche a tutti coloro che, resistendo ad ogni forma di pressione, continuano a produrre un’informazione seria, coraggiosa e competente, rispettosa dei diritti costituzionali tutti»

 

 

I cronisti calabresi: annacquato il diritto di informare al maxiprocesso di Lamezia

«È un provvedimento tardivo, parziale e tutt’altro che rispondente alle esigenze della libera informazione e, in particolare, del diritto costituzionale di informare ed essere informati». Così il Gruppo Cronisti Calabria “Franco Cipriani” dell’Unci, guidato dal giornalista Michele Albanese, commenta la decisione assunta dal Tribunale di Vibo Valentia (presidente Brigida Cavasino, a latere Claudia Caputo e Gilda Romano) che – «dopo una lunga ed inspiegabile attesa», evidenzia l’Unci Calabria – ha finalmente autorizzato le riprese audiovisive del maxiprocesso Rinascita Scott.

«Preliminarmente – evidenzia l’Unci Calabria – ci domandiamo quale evento nuovo sia intervenuto affinché il collegio giudicante di uno dei procedimenti penali più importanti della storia giudiziaria italiana, riconoscesse che “sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento”.
Perché tale “interesse sociale” non è stato riconosciuto sin dall’inizio del processo? Perché le numerose richieste pervenute da colleghi di tutto il mondo al Tribunale di Vibo Valentia sono rimaste inevase?». L’Unci rammenta anche di «aver incontrato (attraverso il presidente Michele Albanese e il segretario Pietro Comito) il presidente del Tribunale di Vibo Valentia, Antonio Erminio Di Matteo, affinché fosse latore delle osservazioni dei cronisti al collegio del maxiprocesso Rinascita Scott. Anche in quel caso, l’appello a superare il diniego delle riprese fu disatteso.

Cosa è accaduto di nuovo? E soprattutto, ci domandiamo, perché autorizzare le riprese, ma con una serie di limitazioni che finiscono, a conti fatti, col rendere questa stessa autorizzazione quasi inutile?».
Vediamo, infatti, cosa ha stabilito il Tribunale: «Due persone per ogni testata. Le riprese potranno essere effettuate – spiega l’Unci calabrese – solo attraverso telecamere fisse. E poi “al fine di garantire l’assoluta genuinità della prova è fatto divieto di diffusione, prima della lettura del dispositivo, delle riprese audiovisive effettuate, fatta salva la divulgazione di immagini e brevi video (privi di audio) funzionale alla realizzazione di servizi di cronaca giudiziaria”.
Ci chiediamo in che modo la divulgazione delle immagini audio-video prima della sentenza possa in qualche modo minare la genuinità della prova dibattimentale. Ai colleghi delle radio, a quelli di Radio Radicale, che nel processo ’Ndrangheta stragista hanno reso un servizio straordinario al Paese Italia, che diciamo? Che non possono trasmettere l’audio delle udienze prima della sentenza perché il Tribunale di Vibo è più sensibile alla “genuinità della prova” rispetto a quello di Reggio Calabria? Certamente siamo grati a questo collegio che ci autorizza a pubblicare “brevi video (privi di audio)” funzionali a servizi di cronaca giudiziaria, ma questa “brevità” come la possiamo calcolare? Un minuto, tre, cinque, mezzora?».
E ancora: «Per evitare assembramenti di telecamere e operatori, avevamo proposto come Unci Calabria che fosse un solo service ad occuparsi delle riprese. Perché avere in aula un esercito di telecamere fisse che possono riprendere solo dalle retrovie un solo campo visivo, quando se ne potevano sistemare solo quattro, sempre fisse, ma in punti strategici, per effettuare riprese più rispondenti alle necessità documentaristiche dell’informazione? Ovviamente, anche questa proposta, ignorata».

La conclusione: «Siamo fortemente rammaricati. Per due motivi. Il primo è per la perdurante, ingiustificata ed ingiustificabile chiusura del Tribunale di Vibo Valentia alle esigenze della libera informazione su un processo che, comunque finirà, segnerà una pagina fondamentale della storia giudiziaria italiana. Il secondo è che mai avremmo voluto criticare questo collegio giudicante, chiamato a presiedere un procedimento penale enorme, per numeri e significato. Noi ci abbiamo provato, abbiamo compiuto ogni passaggio con enorme rispetto e responsabilità, ma adesso non possiamo più tacere». (courtesy giornalistitalia.it)

Avviato il maxiprocesso a Lamezia, telecamere escluse dall’aula bunker

È iniziato ieri a Lamezia Terme, nell’aula bunker allestita in tempi record presso la Fondazione Mediterranea Terina, il maxi processo antindranghera che vede oltre 300 imputati con circa 400 capi di imputazione. Escluse le telecamere dall’aula bunker per scelta del giudice dott.ssa Brigida Cavasino. «Una decisione, quella del giudice Cavasino, – scrive Giornalitalia.it – che ha amareggiato e fatto infuriare i giornalisti accreditati a seguire le udienze: il ruolo dell’informazione – sottolineano – durante i procedimenti giudiziari è fondamentale. Specie in un processo così importante, che vede alla sbarra i legami fra ‘ndrangheta e colletti bianchi».

Il pubblico ministero è il procuratore capo della Direzione Antimafia di Catanzaro, Nicola Gratteri, insieme al suo pool di indagine, presente ieri a Lamezia. Tra gli altri presenti, ieri a Lamezia, il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra e il presidente della Commissione regionale antindrangheta Antonio De Caprio. Secondo quest’ultimo «Quello che si è aperto oggi a Lamezia Terme è uno dei processi più importanti degli ultimi decenni. Un processo scaturito da una maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta condotta dalla Procura guidata dal dott. Nicola Gratteri, che ci auguriamo possa scrivere una pagina importante di legalità per la nostra Calabria, che ha disperato bisogno di guardare al futuro con rinnovato spirito. L’innocenza o la colpevolezza degli imputati verrà sancita da un giudice terzo, ed ovviamente non si può entrare nel merito delle contestazioni. Ma da parte mia – sottolinea De Caprio – non posso non evidenziare come questo processo rappresenti un momento importante per ristabilire i valori democratici e di legalità in un territorio per troppo tempo oppresso dal fenomeno mafioso».

Secondo il presidente De Caprio, dunque, «è arrivato il momento per la Calabria di guardare avanti; tutti dobbiamo essere consci che lo Stato c’è, e che i suoi “anticorpi” – rappresentati da investigatori di primo livello in ogni corpo di polizia, e dalla guida sicura di un magistrato integerrimo – sono in grado di respingere ogni attacco del malaffare. Ma il lavoro è solo all’inizio, e parte da ognuno di noi, dai nostri comportamenti quotidiani. Solo agendo nel solco della legalità possiamo avere qualche speranza di costruire un domani migliore per i nostri figli». (rcz)

Inaugurata l’aula bunker a Lamezia Terme per il processo “Rinascita Scott”

Nella giornata di oggi, alla presenza del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è stata inaugurata l’aula bunker di Lamezia Terme, che ospiterà il maxi processo Rinascita Scott.

Presenti, insieme al ministro Bonafede, il presidente f.f. della Regione Calabria, Nino Spirlì, Nicola Gratteri, il procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, il procuratore generale Beniamino Calabrese e il presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, Domenico Introcaso.

«L’importanza di questa giornata – ha detto il presidente Spirlì – sta nelle parole del procuratore Gratteri, che ha ringraziato la Regione Calabria nella persona del presidente Jole Santelli. Questo giorno lo dobbiamo a Jole e alla sua intuizione politica. È un altro grande regalo che lascia ai calabresi, a 60 giorni dalla sua scomparsa».

Lo scorso luglio, infatti, la Giunta regionale, presieduta dalla compianta presidente Santelli, aveva approvato una delibera con la quale era stata messa a disposizione del ministero della Giustizia un immobile di 3.300 metri quadri nell’area ex Sir. Subito dopo, era stato firmato il protocollo d’intesa.

«La Regione – ha sottolineato Spirlì – ha concesso gli spazi per consentire l’utilizzo questa parte della Fondazione Terina. La giustizia trionferà e finalmente quella malavita, che da secoli devasta questa terra, sarà sconfitta, anche grazie a Jole».

«La risposta è nei fatti. Nel luglio 2020 – ha dichiarato il ministro Bonafede – abbiamo firmato il protocollo d’intesa. A distanza di 5 mesi l’aula è pronta per accogliere circa mille persone. Quando le istituzioni dimostrano che c’è la volontà, le cose vengono realizzate in tempi rapidi e anche in tempi, lasciatemelo dire, difficili come questo».

«L’aula bunker – ha aggiunto – è un segnale di presenza della Stato, un segnale verso quei magistrati che, tra mille difficoltà, combattono la ‘ndrangheta, ma anche verso gli operatori della giustizia. A proposito della carenza in questo settore, posso dire che, da quando sono ministro, c’è stato un ampliamento di 22 unità di magistrati e di 150 di personale amministrativo. Desidero ringraziare tutti, anche la Regione e il demanio».

«Si tratta – ha spiegato il procuratore Gratteri durante il sopralluogo – di una vetrina per l’Italia che combatte le mafie. C’è un’attenzione mediatica mondiale. Questa è un’aula all’avanguardia, basti pensare che ci sono 64 telecamere di controllo, il massimo per questo Paese».

«Finalmente – ha commentato il procuratore Falvo – quest’aula vedrà la luce. I lavori sono stati realizzati in tempi record, grazie anche alla testardaggine di Gratteri. L’aula sarà utilizzata da metà gennaio. È una grande opportunità per la giustizia italiana. La ‘ndrangheta deve essere processata qui dove nasce e prolifera. La presenza del ministro è il riconoscimento di un impegno da parte di tutti». (rcz)

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