di RAFFAELE MALITO – Non mi pare che gli opinionisti dei salotti televisivi che discettano su tutto, si soffermino su un tema politico che sta emergendo e, probabilmente, condizionerà il controverso dibattito sulle sorti del Pd: quello del rapporto tra Maurizio Landini, leader del nostro più grande sindacato, la Cgil, e il nuovo camaleonte della politica italiana, Giuseppe Conte.
Qualcuno li ha definiti i dioscuri del populismo corporativo. In effetti si frequentano, si stimano, condividono idee ed analisi della situazione politica, economica e sociale. Governano le proprie organizzazioni con un dominio totalizzante. Landini non ha mai pensato di promuovere una qualche forma di protesta contro i due governi presieduti dal Che Guevara di Scampia: ha detto, di fatto, sì al reddito di cittadinanza e a quota 100, misure, l’una pauperista e l’altra corporativa, disinteressandosi, da una parte dei conti pubblici e, dall’altro, di un’autentica emancipazione dei giovani attraverso il lavoro, la ricerca di un’occupazione. Si potrebbe aggiungere che non ha mai detto nulla contro i decreti sicurezza di Salvini.
Ha, invece, solertemente, promosso uno sciopero, insieme con l’Uil ma senza la Cisl, contro il governo Draghi che stava riportando credibilità, prestigio, all’Italia, capacità di governo, che aveva avviato un lavoro serio di ripresa del Paese.
Uno sciopero, solo, dunque, per una dimostrazione di esistenza in vita.
Un combinato disposto tra i settarismi di ribellismo sociale, politico, qualunquista, fatto di slogan: giù le armi, su i salari, assistenza a tutti. Queste le stelle polari che orientano i cinque stelle del Conte camaleonte. Ma non possono essere le stesse per chi rappresenta e dirige un sindacato come la Cgil che ha una grande storia di responsabilità di fronte ai grandi fatti politici del nostro Paese.
Conte e Landini: entrambi condividono una sorta di spaesamento populista che pesa su una sinistra radicale, che trova, ahinoi ascolto in una parte del Pd,incapace di interpretare i mutamenti nel sistema economico e nelle trasformazioni avvenute nel mercato del lavoro: metodi rivendicativi del passato- salario come variabile indipendente- rifiuto della decentralizzazione con contratti sempre più centrati sulla azienda piuttosto che sui contratti nazionali. Così come netto è stato il rifiuto di ogni innovazione riformista del mercato del lavoro nel senso della flessibilità. Difesa ad oltranza dell’art.18, contro il jobs act – ottusamente contrastato – che ha aperto opportunità per i giovani, i voucher che consentivano lavori stagionali, contratti a termine, flessibilità di orari e tempi di lavoro. Lavorare, comunque, intanto.
Poi, certo, l’impegno contro la precarietà ma anche contro forme di puro assistenzialismo, come il reddito di cittadinanza, vissuto sempre più come uno strumento corporativo. Ma guai a modificarlo né, tanto meno, ad abolirlo: insomma nella logica del conservatorismo sindacale e grillino i poveri diventano una categoria che fa comodo per mantenere e accrescere il consenso.
Oggi le cinque stelle dell’onda grillina, identificata nel camaleonte Conte, rischiamo di essere la bussola impazzita di un sindacato sempre più corporativo e chiuso a ogni forma di autentico riformismo: la storia insegna che quando si insegue e si sceglie la linea corporativa e “rivoluzionaria” si favorisce la destra conservatrice e autoritaria.
Il populismo corporativo di Conte e Landini non è la via migliore per rilanciare il progressismo in Italia e per promuovere una nuova stagione del lavoro. Vanno in questo senso le annunciate mobilitazioni, con scioperi regionali, di Cgil e Uil – ancora una volta senza la Cisl – nei prossimi giorni, a cui si lega, non casualmente, la manifestazione di piazza del Pd contro il governo per il 17 dicembre.
Ho seguito per molti decenni da vicino, da giornalista, l’impegno – o meglio, la missione- del Sindacato, dei dirigenti calabresi e quelli, di grande prestigio, nazionali. Ne cito solo alcuni momenti cruciali: quando Luciano Lama e Giovanni Agnelli, nel 1975, firmarono il patto per la scala mobile contro l’inflazione; quando Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto, gli storici leader dei metalmeccanici, vennero, con Lama, a Reggio, nel 1972, capeggiando la grande “ marcia dei cinquantamila” per rispondere alla strategia fascista della “rivolta”; quando, a metà anni ’70, Bruno Trentin guidò una grande manifestazione a Gioia Tauro per il V Centro siderurgico; quando Cgil, Cisl e Uil, nel 1992, firmando, con il governo Amato, in piena emergenza economica e politica, l’accordo per la concertazione sulla politica dei redditi, nuove relazioni industriali con la riforma del sistema contrattuale- nazionale e decentrato- si caricavano sulle spalle il destino del Paese assumendo impegni e responsabilità da classe dirigente nazionale, interpreti e portatori di interessi generali.
Un abisso tra quei dirigenti sindacali del passato e quelli del populismo corporativo di oggi. (rcs)