di VINCENZO VITALE – In una recente intervista l’arch. Fabrizio Sudano, direttore della Soprintendenza reggina, che in spregio alla sua mission di tutela e conservazione ha progettato la completa demolizione dell’impianto storico della centralissima Piazza De Nava di Reggio Calabria per sostituirla con uno “spazio ampio” in cui tenere “mostre ed eventi folkloristici”, ha affermato che i lavori partiranno appena dopo il 27 novembre perché la Soprintendenza ha “le carte a posto”.
A parte la banale considerazione che avere le “carte a posto” non significa che si è autorizzati a fare una cosa brutta, ingiusta, sbagliata e che nessuno vuole (anche Putin, se deciderà di usare l’atomica tattica dopo la beffa dei referendum, affermerà di avere le “carte a posto”), a quali carte si riferisce il dott. Sudano? Certamente a quell’insieme di pratiche burocratiche che, pur ammettendo che siano formalmente corrette, comunque di fatto configurano un grosso vulnus democratico per la città perché frutto di decisioni prese in oscure stanze da ancora più oscuri travet con l’avallo, che ora tutti si rimangiano, di una politica distratta e di basso livello.
A parte le autorizzazioni superficialmente e colpevolmente rilasciate in modo ancillare e servente, una di queste “carte a posto” illustra il mefitico milieu culturale che ha dato vita al progetto di crimine urbanistico cui stiamo assistendo.
È il 20 aprile del 2021 e, in coda alla Conferenza dei Servizi decisoria e asincrona sul destino di piazza De Nava, prima che venga dato il placet conclusivo, si riunisce la Commissione regionale per il patrimonio culturale della Calabria, costituita da burocrati ministeriali di estrazione locale. Viene ascoltata la progettista arch. Giuseppina Vitetta, che risponde alle eccezioni presentate dalla Fondazione Mediterranea circa la perdita irreversibile di un pezzo di storia cittadina, di memoria collettiva e di identità dei luoghi che deriverebbe dalla demolizione della piazza prevista dal progetto. Cosa afferma la Vitetta? Testuale dal Verbale, il n. 5 del 20 aprile 2021: “nessun materiale lapideo degno di pregio e testimonianza della storia territoriale sarà distrutto, ma verrà recuperato per essere riutilizzato nelle fasi di realizzazione dello stesso progetto … per pavimentazioni, bordure, gradini e cordonali”.
Un’arrampicata sugli specchi che susciterebbe l’ilarità perfino in un bambino appena uscito dal mondo affabulato della prima infanzia. In altri termini, mutatis mutandis, è come se si affermasse che, per mantenere l’identità storica di una Piazza Navona destinata a restyling (inglesismo che piace molto alla Soprintendenza), il materiale residuo della sua demolizione venisse usato “per pavimentazioni, bordure, gradini e cordonali” della nuova piazza. È come se assistessimo a una pièce in un teatro dell’assurdo.
Ebbene questo assurdo, su cui stanno sganasciando dalle risa gli urbanisti di molte università italiane (che figuraccia per la cultura reggina!), è stato approvato dall’arch. Sudano, presente in Commissione, e fatto suo nel proseguo per inserirlo nel carniere delle “carte a posto”.
Posto che “Una professione intellettuale è un’abilità specifica fondata su principi indotti dalle scienze che vengono insegnati normalmente nelle università o scuole superiori e che implica sempre la soluzione di un problema sulla base di quei principi” (così nello statuto dell’Ordine professionale degli architetti); e che per la soluzione del problema identitario di piazza De Nava i progettisti hanno usato soluzioni che non si rifanno a principi indotti dalle scienze e che non vengono insegnati in nessuna università; l’Ordine professionale degli Architetti, che è tenuto a sanzionare questo tipo di comportamenti, potrebbe/dovrebbe intervenire anche solo dal punto di vista deontologico. (vv)