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RIVITALIZZARE IL TERRITORIO E INNOVARE
COSA SERVE PER LA SALUTE DEI CALABRESI

Salute in Calabria

Il binomio Salute e Sviluppo sembra un ossimoro in Calabria, visti gli insuperabili problemi della Sanità che ormai datano da oltre dieci anni. Il commissariamento ha provocato guasti ulteriori e le varie terapie tentate non hanno prodotto alcun sintomo di guarigione, anzi le cose sono peggiorate. Ma non va visto tutto da un punto di vista pessimistico e c’è chi ritiene, invece, che si possa invertire la rotta. Ne parliamo con un esperto del settore, Franco Caccia, sociologo e responsabile U.O Servizi Sociali dell’Asp di Catanzaro, secondo il quale è ormai indifferibile un piano per la salute dei calabresi, basato sull’innovazione dei servizi e la rivitalizzazione del territorio. 

– Il covid 19, fenomeno drammatico quanto imprevedibile, ha messo a dura prova i sistemi di cura dell’intero Paese. L’impatto della pandemia in Calabria ha tolto ogni dubbio sulla urgenza di procedere ad un radicale rinnovo dell’organizzazione dei servizi sanitari. A suo parere, come bisognerà agire? 

«Innanzitutto bisognerebbe riuscire ad apprendere dai diversi insegnamenti che derivano dall’esperienza Covid. Ci siamo tutti accorti che, quando sulla società si abbatte un’emergenza, prima ancora che la forza dei singoli, è decisiva la tenuta della comunità. Abbiamo visto quanto le nostre vite siano interconnesse, quanto la società sia un organismo fragile. È inoltre emerso con forza uno spirito comunitario e ciascuno si è sentito responsabile verso la salute altrui. Abbiamo preso atto del valore della co-responsabilità, si pensi alla lunga prima fase della pandemia quando le uniche prescrizioni degli esperti erano rappresentati dal distanziamento sociale e dall’uso delle mascherine, e abbiamo riscoperto il valore della solidarietà, quale bene prezioso per la tenuta dei nostri territori. 

«Quanto vissuto ci ha permesso di toccare con mano la veridicità delle dichiarazioni dell’organizzazione mondiale della sanità: “la salute si sviluppa a livello locale, nei contesti della vita quotidiana, nei quartieri e nelle comunità dove le persone di ogni età vivono, lavorano, amano, studiano e si divertono.”(Oms 2016)». 

– Ci avviamo verso un cambio radicale del concetto di salute?

«Per troppi anni, il tema della salute, soprattutto in Calabria, ha chiamato in causa, in maniera quasi esclusiva, la figura dei medici e degli ospedali. Figure e strutture senza dubbio fondamentali per gestire la cura delle malattie, intese come anomalia del corpo umano. Quella impostazione è oggi però superata ed appare urgente ed indispensabile costruire un nuovo piano per la salute dei calabresi che abbia alla base una nuova visione, non solo delle criticità ma anche delle opportunità per costruire le condizioni per star bene all’interno di un approccio di tipo comunitario.  

«Diversamente si corre il rischio di continuare a fare quanto si è sempre fatto, magari con uno strumentale utilizzo di qualche termine in voga in questo periodo (territorialità, prossimità) e di sprecare l’ennesima opportunità per un cambiamento della qualità di vita dei cittadini calabresi. Bisogna pertanto prendere atto delle cause dei problemi incontrati durante l’epidemia e cercare di evitare l’errore più grande e cioè tornare a fare le cose che si facevano prima. 

«La salute è “bene comune”, è la vita di una comunità che garantisce il benessere di tutti attraverso i propri servizi e le proprie risorse (scuola, sanità, servizi assistenziali, cura del territorio, lavoro, cultura e tempo libero). Ripensare all’idea di salute, a partire dalla persona e dalla comunità in cui questa vive e lavora, significa ridefinire priorità, ridisegnare processi, prodotti e metodologie per la realizzazione di percorsi di cura con la più ampia integrazione tra tutte le risorse presenti in ogni comunità. In questa nuova vision, viene sollecitato e sostenuto il contributo che proviene dai contesti familiari, sociali e comunitari, in cui è inserito il cittadino. Questo ruolo attivo, del destinatario e del suo contesto, viene considerato determinante nella co-produzione di un prodotto-servizio tarato sulle singole necessità e potenzialità del singolo. 

«Per tali motivazioni, una delle funzioni centrali, demandata ai moderni sistemi di cura, dovrà essere centrata proprio sulla capacitazione (capacità in azione), che implica concretamente creare condizioni affinché ogni persona possa partecipare all’attuazione del proprio progetto di salute. Un’azione innovativa su cui si giocherà la capacità, delle istituzioni e dei territori, di declinare una nuova programmazione che avrà come destinatari singole persone, nuclei familiari e intere comunità, nonché sulla capacità di orientare le risorse pubbliche ed organizzative verso questo scopo». 

– Siamo di fronte ad un nuovo modo di lavorare nel settore della salute?

«Non c’è dubbio che esistano delle differenze sostanziali tra il prima ed il dopo. Rispetto ai servizi tradizionali cambia infatti il mandato: non erogare ma connettere, non rispondere ma costruire possibilità, non più contenere i mali di una società fragile, ma facilitare, intraprendere, intermediare. Molte di queste esperienze hanno il merito di aprire dei veri e propri laboratori in cui non si parla più di utenti, prestazioni, protocolli. Si dovrebbero inoltre, con sempre maggiore frequenza, utilizzare termini quali: attivazione, condivisone, co-progettazione, reciprocità, fiducia. I servizi e le esperienze generate da questa nuova impostazione sono già tante e varie. Esempi come la badante di condominio, baby-sitter condivisa, biblioteche con iniziative aggregative e sociali, cortili sociali, custode sociale, la rete dei social street, orti di quartiere, agricoltura sociale, banche del tempo, formazione inter-generazionale, cohousing, sono esperienze concrete, in fase di espansione in molte parti d’Italia, in cui è stato attivato il processo di ammodernamento del welfare. Usiamo il termine di welfare generativo per qualificare questi laboratori capaci innestare risposte aggiuntive e migliorative a partire dai risultati raggiunti. 

«Pare comunque evidente che tutte queste realtà si basano sull’assunto che mettendo insieme interessi e bisogni comuni si possono produrre iniziative più efficaci e potenti della somma delle azioni di ciascuno: perché produttrici di legami, fiducia, coesione, e perché benessere individuale e benessere collettivo vivono di intrecci. Nasce così il concetto di “welfare di comunità”, concetto non nuovo ma che, negli ultimi anni, ha trovato nuovi impulsi dai risultati positivi delle sperimentazioni in atto, rafforzando l’idea che occorrano nuove alleanze tra istituzioni, famiglie, il privato sociale, il mercato, in grado di  valorizzare le capacità di iniziativa dei singoli e delle formazioni sociali». 

– Perché la comunità riveste un ruolo centrale nelle nuove politiche di salute?

«Il Santo Padre, papa Francesco, in occasione della messa di Pentecoste, del maggio 2020, ebbe a dire che “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. L’invito del presule deve essere colto a pieno, sia per le scelte di tipo individuale quanto comunitarie, tra cui l’adeguamento dei sistemi di cura. Tra gli addetti al settore della salute abbiamo ben presente quanto certificato da anni di analisi scientifiche internazionali le quali sono chiare nell’attribuire alla presenza/assenza di servizi sanitari un impatto minimo sulle condizioni di salute dei cittadini (10%).  

«Ciò che maggiormente influenza lo star bene delle persone sono i cosiddetti determinanti sociali di salute quali gli stili di vita (50%), i fattori ambientali (20%) ed i fattori genetici (20%).  Siamo di fronte ad un nuovo modo di pensare alle politiche della cura le cui parole chiave sono rappresentate da comunità, personalizzazione degli interventi, domiciliarietà, relazioni umane.  Il covid ha esaltato la centralità del territorio, finora visto e gestito come luogo da cui nascono bisogni/problemi e non già come spazio in cui sono presenti o attivabili risorse ed opportunità. Vi è pertanto necessità di una nuova visione delle politiche per la salute capaci di agire per rinforzare i legami e la collaborazione all’interno delle comunità locali mettendo in campo, prima delle tecniche organizzative, la qualità dell’etica rappresentata da scelte e comportamenti ispirati alla reciprocità, alla solidarietà e alla responsabilità collettiva. 

«In questa direzione, come già avviato a livello internazionale, c’è necessità di un nuovo paradigma della cura chiamato community care (comunità che cura), in cui , partendo dall’assunto di salute  come bene comune e non già  appannaggio esclusivo di alcuna Istituzione, promuove un approccio comunitario in cui si interviene sui diversi aspetti che incidono sulla salute dei cittadini: lavoro adeguato e sicuro, abitazione dignitosa, accesso alla formazione ed alla cultura, ambienti urbani sani, strumenti e opportunità di relazione e di inclusione sociale. Si intuisce quindi che se dovessimo pensare di circoscrivere, con il termine cure territoriali, il potenziamento di qualche servizio domiciliare, senza agire sulla dimensione etica-formativa ed organizzativa dei sistemi di cura, rischiamo di fare poca strada.

– Come può essere affrontato il tema della non autosufficienza nella nuova visione organizzativa del welfare territoriale? 

La non autosufficienza rappresenta per il nostro Paese una priorità assoluta alla luce dei processi sociali e demografici in atto, di fronte alla quale, tuttavia, oggi ci si trova per molti aspetti impreparati. Nell’evoluzione dello scenario sono già presenti gli indicatori su cui basare la certezza di una forte crescita del bisogno di cura a domicilio: progressivo invecchiamento della popolazione; aumento delle malattie cronico-degenerative; indebolimento delle reti familiari (numero risicato di figli delle famiglie moderne, fenomeno acuito, nel caso della Calabria, dall’emigrazione giovanile in altre regioni e/o nazioni); carenza di risorse pubbliche per le politiche di cura tradizionale. 

«Le analisi dei numeri e delle tendenze culturali e demografiche in atto non lasciano dubbi. Siamo di fronte ad un vero “bacino di sviluppo occupazionale”, che potrebbe sprigionare in maniera spontanea la sua forza. Peccato che il settore pubblico, nella maggior parte dei casi, resti a guardare. Nella migliore delle ipotesi, si registra qualche esperienza sporadica in cui pezzi del pubblico intervengono su singole fasi del processo di selezione ed inserimento della figura di cura nel domicilio della persona non autosufficiente. 

«In considerazione dell’aumento dell’ aspettativa di vita e considerato il fenomeno dell’atomizzazione delle famiglie, elemento reso ancor più critico in Calabria dal fenomeno dell’emigrazione dei giovani, è ormai non più rinviabile un piano regionale per le cure a domicilio delle persone non autosufficienti. Sulla base delle migliori prassi, il piano dovrebbe potenziare gli interventi ed i servizi  qualificati ed integrati rivolti alle famiglie. Si tratta di pensare ad un sistema di domiciliarietà che superi la frammentazione delle singole prestazioni per dare spazio ad una filiera di servizi e prestazioni da erogare dentro e fuori ed intorno alla casa o la struttura protetta/RSA. 

Del resto l’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19 ha acceso una nuova luce sui servizi per la non autosufficienza, del quale i servizi domiciliari costituiscono una componente cruciale. È opinione condivisa che una presenza più solida del welfare pubblico nel territorio avrebbe consentito di contrastare meglio il Covid-19 e avrebbe permesso di prevenire il diffondersi della pandemia. 

– Un cambiamento di tale portata richiede un preciso impegno anche da parte della Regione Calabria?

Non c’è dubbio che il ruolo delle scelte operate dall’ente Regione in questo settore saranno decisive. Ho notato che l’on.le Roberto Occhiuto, nelle sue prime dichiarazioni da candidato presidente, abbia messo al primo posto del suo programma la riorganizzazione dei servizi per la salute. Sono sicuro che analogo impegno arriverà presto anche da altri candidati e che questo tema sarà centrale nella campagna elettorale dei prossimi mesi.  

«Dal superamento dell’attuale commissariamento della sanità, alla riorganizzazione dei sistemi territoriali, il compito della regione è insostituibile. In quest’ottica mi limito a due proposte: prima di tutto, l’istituzione nelle 5 ASP della Calabria, come già avviene per regioni come Veneto, Toscana, Emilia Romagna, della figura del direttore dei servizi socio-sanitari. Tale figura, in particolare in una regione come la Calabria dove la rete dei servizi sociali comunali è ancora in fase di costituzione, potrebbe svolgere il doppio ruolo di valorizzare l’approccio socio-relazionale dei professionisti sociali operanti all’interno di ogni ASP e, nel contempo, svolgere il ruolo di supporto tecnico per i Comitati dei sindaci chiamati (ai sensi della L.R. n. 23-2003-art 20) all’elaborazione e gestione dei Piani di Zona e costruire la giusta armonizzazione per un’offerta di servizi per la salute del cittadino, integrata e qualificata. 

«L’altra proposta riguarda la creazione di un’agenzia capace di accompagnare i territori della Calabria, in termini di supporto formativo ed organizzativo, per la condivisione e l’arricchimento di un “pensiero nuovo” verso la cura e verso il welfare di comunità. Qualsiasi innovazione nei processi organizzativi nasce da un cambiamento, spesso radicale, di idee, visioni, metodi. Il nuovo approccio alla cura centrato sul ruolo da protagonista della triade Cittadino-Famiglia-Comunità rappresenta una sfida impegnativa anche perché richiede modalità di approccio distanti dai modelli culturali e dagli approcci organizzativi utilizzati dagli attuali operatori del settore. Ciò che sarà importante da parte dei futuri amministratori della regione Calabria è mettere mano ad un settore dove, nonostante l’immagine negativa costruita negli anni, vi sono ancora le condizioni per invertire la tendenza e creare un percorso che possa portare prima alla normalità e, successivamente,  puntare all’eccellenza. (rrm)

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