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SVIMEZ: MEZZOGIORNO NON È UN DESERTO
INDUSTRIALE MA CRESCE MENO DEL NORD

SVIMEZ: IL MEZZOGIORNO NON È UN DESERTO INDUSTRIALE MA CRESCE MENO DEL NORD

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Nel 2025 il Mezzogiorno tornerà a crescere meno del Centro-Nord. È quanto emerso dal Rapporto Svimez, in cui denuncia «i rischi di un ritorno alla “normalità” di una crescita più stentata al Sud rispetto al resto del Paese», con il Meridione che rimane sullo +0,7% contro il Centro-Nord che registrerà una crescita di +1,0%. Una tendenza che si confermerebbe anche nel 2026: (+0,8% contro 1,1%).

Dati in controtendenza a quelli positivi riscontrati dall’Associazione: Il Sud, infatti, per il secondo anno consecutivo, cresce più della media del Centro-Nord: +0,9% contro +0,7%. Si riduce tuttavia sensibilmente lo scarto di crescita favorevole al Sud rispetto al 2023, quando il Pil del Sud era cresciuto quasi un punto percentuale sopra la media del Centro-Nord. La crescita più sostenuta del Mezzogiorno è dovuta a una più robusta dinamica degli investimenti in costruzioni (+4,9% contro il 2,7% del resto del Paese) trainati dalla spesa in opere pubbliche del Pnrr. I consumi delle famiglie tornano, invece, in negativo nel 2024 (-0,1% contro +0,3% nel Centro-Nord), frenati dalla crescita dimezzata del reddito disponibile delle famiglie rispetto all’anno scorso (+2,3% nel 2024 contro il +4,5% del 2023) e da una dinamica dei prezzi in rallentamento, ma lievemente più sostenuta rispetto al resto del Paese.

A politiche invariate, il 2025 rappresenta un anno di passaggio verso differenziali territoriali di crescita guidati da fattori strutturali sfavorevoli al Sud, a causa del rientro dalle politiche di stimolo agli investimenti privati e di sostegno ai redditi delle famiglie, solo parzialmente compensati dall’impatto positivo degli investimenti del Pnrr.

Nel triennio 2024-2026, al Sud gli investimenti del Pnrr valgono 1,8 punti percentuali di Pil meridionale (1,6 punti nelle regioni del Centro-Nord). In media, circa tre quarti della crescita del Pil del Mezzogiorno nel triennio è legata alla capacità di attuazione degli investimenti del Piano, a fronte di circa il 50% nel resto del Paese.

A fronte della ripresa occupazionale, il colpo inferto dall’inflazione al potere d’acquisto dei redditi da lavoro resta la criticità più rilevante, soprattutto nel Mezzogiorno. Tra il quarto trimestre 2019 e la prima metà del 2024, i salari reali si sono ridotti del -5,7% al Sud e del -4,5% nel Centro-Nord (-1,4% nell’eurozona). Un vero e proprio crollo al Sud causato da una più sostenuta dinamica dei prezzi e dai ritardi nei rinnovi contrattuali, in un mercato del lavoro che ha raggiunto livelli patologici di flessibilità.

A metà 2024, l’occupazione in Italia ha superato i livelli del 2019 di circa 750mila unità (+3,2%), un’espansione che è andata dunque ben al di là del semplice recupero degli effetti della crisi. Nello stesso periodo, il numero di occupati è cresciuto di 330mila unità (+5,4%) nel Mezzogiorno.

La ripresa dell’ultimo triennio ha riportato nel Mezzogiorno l’occupazione sui livelli, mai recuperati f ino a tutto il 2019, di metà 2008. Al Sud, sono tre milioni i lavoratori sottoutilizzati o inutilizzati. Il labour slack Svimez, l’indice del “non lavoro”, è calato, tra il 2019 e il 2023 dal 39,3 al 33% nel Mezzogiorno.

Allo stesso tempo, il “non lavoro” al Sud resta su valori più che doppi che nel resto del Paese. Le tre regioni meridionali con i tassi di “non lavoro” più elevati sono Sicilia (38%), Campania e Calabria (entrambe 36,8%). Dei tre milioni di lavoratori meridionali sottoutilizzati o inutilizzati, quasi un milione rientra tra i disoccupati secondo la definizione ufficiale, 1,6 milioni sono forze di lavoro potenziali e 400mila sono occupati in part-time involontario. Nel Centro-Nord, l’area del non lavoro si attesta intorno a 2,8 milioni.

Nel Mezzogiorno la precarietà è diventata un fenomeno tutt’altro che marginale in comparazione ad altre economie europee. Nelle regioni meridionali più di un lavoratore su cinque è assunto con contratti a termine: 21,5%, contro una media europea del 13,5%. La minore diffusione di posizioni permanenti è spiegata soprattutto dalla presenza di una struttura produttiva che più si presta a ricorrere al lavoro flessibile, per la più marcata specializzazione nel terziario tradizionale e la più contenuta dimensione media delle imprese.

Quasi i tre quarti degli occupati meridionali a tempo parziale sono in part-time involontario (72,9%), a fronte del 46,2% nel Centro-Nord e meno del 20% nell’Ue. Nel Mezzogiorno si concentra il 60% dei 2,3 milioni di lavoratori poveri italiani (circa 1,4 milioni). L’andamento positivo dell’occupazione non ha impedito l’aumento delle famiglie con persona di riferimento occupata in povertà assoluta nel Mezzogiorno: 9,5% nel 2023 dall’8,5% del 2021. L’aumento è stato addirittura di 3 punti percentuali per le famiglie con persona di riferimento occupata con qualifica di operaio o assimilato: dal 13,8 del 2021 al 16,8%.

Al 2050, il Paese perderà 4,5 milioni di abitanti e l’82% della perdita interesserà le regioni meridionali: -3,6 milioni. Non solo spopolamento, ma un progressivo degiovanimento che colpirà soprattutto il Mezzogiorno, che perderà 813mila under 15, quasi un terzo di quelli attuali (-32,1%), mentre gli anziani con più di 65 anni aumenteranno di 1,3 milioni (+29%). Un trend demografico avverso che avrà un forte impatto sul numero degli iscritti nelle scuole italiane. Al 2035, la riduzione di studenti è stimata al -21,3% nel Mezzogiorno, addirittura al -26% nelle regioni del Centro (-18% nelle regioni settentrionali).

Per la scuola primaria, il rischio chiusura è concreto in 3mila comuni con meno di 125 bambini, numero sufficiente per una sola “piccola scuola”: il 38% del totale dei comuni (quota che sale al 46% nel Mezzogiorno), localizzati soprattutto nelle aree interne. Il contrasto al gelo demografico necessita di politiche di lungo periodo orientate al rafforzamento del welfare familiare, degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita-lavoro, dell’offerta dei servizi per l’infanzia, dei sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità, superando la frammentarietà degli interventi. L’emergenza è l’emigrazione, non l’immigrazione.

«Dal 2012 al 2022 – ha rilevato la Svimez – 138mila giovani laureati (25-34 anni) hanno lasciato l’Italia. Tra gli altri fattori, incidono sulla scelta le basse retribuzioni: dal 2013 le retribuzioni reali lorde per dipendente sono calate di 4 punti percentuali (-8 nel Mezzogiorno), contro una crescita di 6 punti in Germania».

«Negli ultimi 10 anni – si legge nel Rapporto – i giovani laureati che hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord sono quasi 200mila. Le migrazioni intellettuali da Sud a Nord sono alimentate anche dalla mobilità studentesca: due studenti meridionali su dieci (20mila all’anno) si iscrivono a una triennale al Centro-Nord, quasi quattro su dieci (18mila all’anno) a una magistrale in un ateneo settentrionale. Per alcune regioni meridionali il tasso di uscita degli studenti magistrali è nettamente superiore: in Basilicata l’83% lascia la regione, il 74% in Molise, più del 50% in Abruzzo, Calabria e Puglia. Tra il 2010 e il 2023, il sensibile aumento del numero di laureati meridionali si è realizzato esclusivamente grazie ai titoli conseguiti presso atenei del Centro-Nord (+40mila), mentre è addirittura diminuito il numero di laureati presso gli atenei meridionali».

Il quadro internazionale è segnato da nuove crescenti incertezze: i conflitti in corso, i nuovi rischi di shock inflazionistici, le tensioni commerciali globali, i rischi di una nuova ondata protezionistica. Ma la riconfigurazione delle global supply chain fornisce nuove opportunità di sviluppo al Mezzogiorno, che possono essere intercettate valorizzando il contributo del Sud alle transizioni, a partire dalle sue specializzazioni mature. Il Mezzogiorno non è un deserto industriale. Per contributo a valore aggiunto e occupazione, in termini di internazionalizzazione, competenze e tecnologia, il peso del Sud è rilevante in diverse filiere nazionali: Agroindustria, Navale e Cantieristica, Aerospazio, Edilizia e Automotive.

«È il momento di mettere in campo una politica industriale più ambiziosa, declinata attraverso strumenti utili ad attivare processi di trasformazione strutturale e creare occasioni di lavoro qualificato. Non si tratta solo di assicurare risorse adeguate al Mezzogiorno, ma di adottare un’impostazione orientata all’identificazione e al supporto delle priorità produttive e delle specializzazioni strategiche», viene detto nel Rapporto, sottolineando come «il  superamento dell’impostazione orizzontale delle politiche industriali degli ultimi decenni impone una riflessione sotto il profilo degli strumenti, andando al di là degli incentivi senza vincoli di destinazione settoriale».

La distribuzione territoriale degli incentivi dei Piani Transizione 4.0 e 5.0 dipende dalle capacità ex ante delle imprese (struttura, organizzazione, dimensione) di intercettarli, consolidando il tessuto industriale esistente nelle aree forti, ma pregiudicando l’attivazione di un vero processo di cambiamento strutturale nelle regioni deboli.

Per la Svimez, poi, «la filiera dell’Automotive è il settore sul quale si giocherà la sfida europea nel cambiamento strutturale del sistema produttivo e il futuro industriale del Mezzogiorno».

L’industria automobilistica italiana è collocata, infatti, prevalentemente nel Mezzogiorno. Nei primi 9 mesi del 2024, gli stabilimenti del Mezzogiorno hanno fornito quasi il 90% degli autoveicoli prodotti in Italia, ma hanno perso più di 100mila unità sul 2023 (-25%). Lo stabilimento di Melfi ha visto da solo una perdita di quasi 90mila unità (-62%), ma anche gli altri stabilimenti – in crescita nella prima parte dell’anno – sono entrati in territorio negativo, con cali che hanno interessato sia gli autoveicoli (Pomigliano, -6%) che i veicoli commerciali (Atessa, -10%). Ad aggravare il quadro, è stato sospeso l’investimento da oltre 2 miliardi per la realizzazione della gigafactory di batterie a Termoli, che indica una generalizzata vulnerabilità europea nella transizione all’elettrico. La filiera estesa nel Mezzogiorno dell’Automotive vale quasi 13 miliardi in termini di valore aggiunto, di cui più di quattro quinti in Campania (29%), Puglia (20%), Sicilia (22%) e Abruzzo (13%). Gli occupati riconducibili alla filiera Automotive sono circa 300mila, più della metà in Campania (30%) e Puglia (21%), seguite da Sicilia (21%) e Abruzzo (11%).

Il rilancio dell’industria automobilistica in Europa e la difesa dell’occupazione e dell’indotto richiede un cambio di paradigma che passa da un piano industriale europeo, finalizzato al rafforzamento della filiera elettrica e alla riduzione del gap tecnologico accumulato rispetto ai competitor, mettendo al centro gli stabilimenti del Mezzogiorno.

Per quanto riguarda la Zes, la Svimez ha rilevato come «il Piano strategico non risulta ancora formalmente approvato».

Serve, infatti, «un’accelerazione delle procedure attuative e di risorse – si legge nel Rapporto – certe nel tempo per le agevolazioni alle imprese (il credito d’imposta Zes è finanziato per il solo 2025), ma soprattutto di una continuità di impegno politico. L’incertezza sulle prospettive delle deleghe governative per il Mezzogiorno e il rischio di uno spacchettamento delle deleghe su Affari europei, Sud e Pnrr rischiano di pregiudicare il completamento delle riforme avviate».

Per dare continuità a investimenti e servizi è importante che i fondi europei e nazionali per la coesione 2021-2027 operino in complementarità con le azioni del Pnrr. Questo significa introdurre nel dibattito di politica economica la possibilità di utilizzare i fondi per la coesione anche per finanziare servizi di rilevante utilità sociale. Il Rapporto Svimez evidenzia i limiti, oramai strutturali, dell’attuale modello, la cui programmazione si fonda su obiettivi tematici generici e non adattabili alle diverse priorità e fabbisogni dei territori, secondo un criterio imperniato sulla rendicontazione della spesa e non legato al raggiungimento di precisi obiettivi di crescita o di riduzione dei divari.

Al contrario, l’applicazione di un metodo Pnrr adattato alle politiche di coesione, che subordini l’erogazione delle risorse al raggiungimento di precisi obiettivi, piuttosto che alla semplice rendicontazione delle spese, potrebbe rappresentare una proposta di riforma concretamente percorribile e in grado di condurre a un sostanziale miglioramento dell’efficacia di queste politiche. L’Accordo di partenariato dovrebbe contenere precisi target quantitativi, fissati a livello quantomeno regionale, accompagnati da milestone che presentino una connotazione anche territoriale, soprattutto in tema di riforme della regolazione dei servizi pubblici locali, di prestazione dei servizi essenziali (in primis istruzione e salute), e di rispetto delle direttive europee.

«Le analisi Svimez – si legge – confermano il ruolo determinante di stimolo del Pnrr alla crescita dell’area, ma evidenziano anche la necessità di accompagnare il ciclo di investimenti in infrastrutture economiche e sociali con un rilancio delle politiche industriali volte al rafforzamento del tessuto produttivo locale. La maggior parte dei progetti risultano in corso (105 su 140 miliardi di euro), e le diverse aree del Paese sembrano sostanzialmente allineate nel percorso attuativo. Bene i comuni, che gestiscono progetti Pnrr per circa 30 miliardi».

«Un terzo delle risorse – continua il Rapporto – risulta ancora da avviare, ma la maggior parte dei progetti ha avvio previsto nell’autunno/inverno 2024, vale a dire che la partita si sta giocando proprio in questi mesi. Al Sud spetta uno sforzo attuativo sicuramente maggiore; i comuni rispondono bene specialmente sulla realizzazione di investimenti connessi alle infrastrutture sociali con un importo avviato pro capite maggiore rispetto al dato del Centro-Nord. A rilento invece le infrastrutture più complesse, come quelle di trasporto, che vedono una percentuale di cantieri aperti inferiore al 20% e leggermente più elevata, per i progetti superiori ai 5 milioni di euro, al Sud (27% contro una media nazionale del 26%)».

L’Associazione, infine, ha evidenziato come «l’eliminazione della Decontribuzione Sud dal 31 dicembre 2024 comporta impatti significativi su crescita e occupazione. Nel 2023, ha riguardato mediamente più di 2 milioni di lavoratori per una spesa di oltre 3,6 miliardi e lo stanziamento cancellato per effetto dell’abolizione dell’agevolazione è pari a 5,9 miliardi per il solo 2025. Secondo stime Svimez, l’abrogazione comporterà una riduzione di due decimi di punto della crescita del Pil del Mezzogiorno e di tre decimi dell’occupazione, con circa 25 mila posti di lavoro a rischio».

Nonostante la Legge di Bilancio preveda, a compensazione, il finanziamento di un nuovo Fondo per interventi al Sud, con una dotazione di 2,4 miliardi nel 2025 e ulteriori 4,4 nel successivo biennio, per la Svimez si tratta di fondi «che, il finanziamento di un nuovo Fondo per interventi al Sud, con una dotazione di 2,4 miliardi nel 2025 e ulteriori 4,4 nel successivo biennio».

In Italia, il 54% degli alunni della scuola primaria frequenta un edificio scolastico che dispone di una mensa. Questo dato si ferma al 30% per il Mezzogiorno (240mila su circa 800mila bambini) e sale al 67% per il Centro-Nord (980mila sui circa 1,4 milioni). La percentuale di alunni che frequentano un edificio scolastico dotato di palestra è del 54% in Italia, ma nel Mezzogiorno si ferma al 46% (370mila su 800mila circa) rispetto al 60% (850mila su 1,4 milioni) del Centro-Nord. Le carenze nell’offerta dei servizi incidono sull’accesso al tempo pieno nelle scuole primarie del Sud e condizionano significativamente i processi di apprendimento degli studenti meridionali lungo l’intero ciclo scolastico, spiegando buona parte dei divari Nord/Sud nei livelli delle competenze maturate.

La dispersione scolastica è più alta al Sud. Dei 583.644 alunni iscritti al I anno di scuola secondaria di I grado a settembre 2012, 96.177 (il 16,5%) hanno abbandonato il sistema scolastico senza conseguire un titolo di studio nei sette successivi anni. L’abbandono scolastico è particolarmente diffuso al Sud (17,4%) e nelle Isole (20,6%), mentre nel Centro-Nord si attesta al di sotto del dato nazionale (14,6% per il Centro e 15,6% per Nord-Est e Nord-Ovest). L’istruzione è un bene pubblico essenziale, la cui qualità e diffusione capillare tra territori sono condizioni imprescindibili per uno sviluppo inclusivo. Dare priorità all’investimento in istruzione significa restituire alla scuola il suo ruolo di primo presidio di contrasto alle disuguaglianze, garantendo a tutti gli studenti, indipendentemente dal contesto familiare e sociale, pari condizioni di accesso a un diritto di cittadinanza fondamentale.

Nel biennio 2022-2023, 7 donne italiane su 10 di 50-69 anni hanno avuto accesso agli screening mammografici a cadenza biennale, 5 su 10 nell’ambito di un programma organizzato. Questa media nazionale nasconde profondi differenziali territoriali. La prima regione per copertura è il Friuli-Venezia Giulia: 9 donne su 10, quasi 7 nell’ambito di un programma organizzato. L’ultima è la Calabria: solo 2 donne su 10, appena 1 su 10 nell’ambito di un programma organizzato.

Nel 2022, la mobilità passiva ha interessato 629mila pazienti, il 44% dei quali residente in una regione del Sud. Nello stesso anno, i Ssr meridionali hanno attirato 98mila pazienti, solo il 15% della mobilità attiva totale. Complessivamente, i malati oncologici residenti nel Mezzogiorno che ricevono cure presso un Ssr di una regione del Centro-Nord sono 12.401, circa il 20% dei pazienti oncologici meridionali da un minimo del 15% della Campania a un massimo del 41% della Calabria. Al Sud non mancano le esperienze positive, come il modello innovativo della Rete Oncologica Campana, sulle quali bisognerebbe investire per rafforzare l’offerta di percorsi di cura territorialmente omogenei e ridurre le diseguaglianze di accesso alle cure.

Escludendo dai criteri di allocazione i fattori socioeconomici che impattano sui fabbisogni di cura e assistenza, il riparto regionale delle risorse per la sanità penalizza i cittadini delle regioni del Mezzogiorno. La presa in conto di questi fattori (povertà, istruzione, deprivazione sociale) renderebbe la distribuzione del finanziamento nazionale tra Ssr più coerente con le finalità di equità orizzontale del Ssn. (ams)

 

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