QUEL PIANO DI BILANCIO INADEGUATO PER
LE REALI ESIGENZE DI CRESCITA DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – È cominciato il rito delle audizioni. Dinanzi alla Camera dei Deputati è stato sentito il 7 ottobre il capo del Dipartimento di Economia e Statistica di Banca d’Italia, Sergio Nicoletti Altimari, per esaminare il Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025 2029, che con un acronimo difficilissimo viene chiamato (PSBMT).

L’8 ottobre, presso la Sala del Mappamondo di Montecitorio, le Commissioni Bilancio di Camera e Senato, nell’ambito dell’attività conoscitiva preliminare all’esame del Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025-2029, si è svolta l’audizione del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti.    

Si è trattato di illustrare i dati fondamentali per un periodo estremamente lungo: cinque anni. La Commissione Europea vuole vederci chiaro sui progetti dei vari Paesi dell’Unione, dopo la parentesi del Covid, nella quale si è proclamato il “liberi tutti”. I temi fondamentali riguardano il debito pubblico accumulato negli anni e la sua sostenibilità, il deficit annuale, il saldo primario, le riforme necessarie che allineano i percorsi di tutti i Paesi dell’Unione, tipo la Bolkstein, l’incremento atteso del Pil e dell’occupazione. 

È un vero e proprio quadro di cosa sarà il Paese nel  periodo prossimo considerato e quindi alla fine dei cinque anni. Ma non può essere un libro dei sogni perché le poste che si presentano devono essere coerenti tra di loro ed effettivamente realizzabili. Il grande rischio che si corre è, però, che in tutte le audizioni previste ci si addentri  nelle singole poste con molta precisione e si perda di vista il quadro generale. In particolare questo problema esiste per il Mezzogiorno che di questo progetto o piano strutturale vorrebbe conoscere gli elementi fondamentali che riguardano il suo futuro. 

Tra questi quelli che interessano maggiormente sono il numero di posti di lavoro che saranno creati nel periodo considerato nell’area.  Anche in tutto il Paese, cosa altrettanto importante, ma maggiormente nelle realtà meridionali, nelle quali le esigenze sono più importanti.

Infatti la quantità di persone che dovranno andar via per cercare una ipotesi di futuro altrove, i figli e i nipoti che potranno rimanere accanto ai loro genitori e ai loro nonni, dipenderà da quel rapporto occupati popolazione che continua ad essere al Sud di una persona su quattro.

Il 36,2 per cento della domanda di lavoro sarà innescata nelle Regioni del Mezzogiorno, con la Campania (68.194 unita) e la Sicilia (56.031 unita), che coprono il 17,5 per cento della domanda di lavoro generata dal Pnrr. Cosi recita il Piano. 

Ma questa è una dichiarazione di sconfitta assoluta. Perché anche se il numero globale di saldo occupazionale fosse nei cinque anni prossimi vicino ai 500.000, e dalle previsioni del piano siamo assolutamente distanti da questi numeri, saremmo molto lontani dalle esigenze effettive che il Mezzogiorno ha per arrivare a un rapporto popolazione occupati simile a quelle delle aree sviluppo a compiuto. Quel benchmark di riferimento che è l’Emilia-Romagna, nella quale il rapporto é vicino all’uno a due. 

Altimari, per esempio nella sua audizione ha riconosciuto l’importanza del Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029, nel quadro della nuova governance economica europea, approvata nell’aprile 2024, che prevede l’impegno dei Paesi membri con un elevato debito pubblico, come l’Italia, a intraprendere un percorso di riduzione del rapporto debito/Pil. E nessuno può pensare di non concordare su tale importanza. 

Ma vogliamo anche dire che il Piano prevede che, anche in costanza in parte degli effetti del Pnrr, la situazione non muterà  rispetto alla domanda di posti di lavoro necessaria per il Mezzogiorno? 

Vogliamo dire che la Zes unica, succeduta alle otto Zes, nel piano è ritenuta un fallimento visto che l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, per la quale è stata concepita, alla fine non crea quei posti di lavoro che nessuno mai si è azzardato di quantificare adeguatamente? Oppure si ritiene che i vari temi  vadano ognuno per la propria strada e siano indipendenti? Certo il Vangelo dice che è bene che la destra non sappia quello che fa la sinistra, ma in quel caso si parlava di elemosina, di fare del bene. Qui invece si analizzano  tutti gli aggregati macroeconomici, cercando di farli rimanere all’interno del range che l’Unione ritiene opportuno, ma alla fine non vi è una parola chiara sul fatto che con questi dati del Piano si prevede che perduri quel percorso che si è avuto fino ad adesso e che vede piccole crescite sia del Pil che degli occupati, certamente inadeguate rispetto alle esigenze.

Nessun  salto di qualità, nessuna crescita particolare, nessun recupero di ritardo previsto. È tutta la saggistica sul Mezzogiorno batteria d’Europa, sul Mediterraneo centrale per il prossimo futuro, sul Sud nuova opportunità e locomotiva del Paese, rimangono per le prossime grida manzoniane. 

Grida che  serviranno  per le  future campagne elettorali, per illudere i meridionali che qualcosa cambierà finalmente, in termini occupazionali, in termini di diritti. 

Il Piano dice invece quello che effettivamente avverrà con tutti i vincoli dei quali non si può tener conto a cominciare dall’enorme debito pubblico che ci fa pagare interessi importanti che sottraggono risorse agli investimenti possibili. Debito pubblico che, visto lo stato della infrastrutturazione del Mezzogiorno, nasce anche dalle grandi opere che sono state fatte in una sola parte del Paese. O dagli aiuti che sono dati alla parte produttiva che certamente nella sua maggiore dimensione è localizzata al Nord. 

Nemmeno l’opposizione evidenzia in modo adeguato le carenze del Piano, perché segue le logiche delle audizioni, perdendosi spesso nei dettagli e perdendo di vista il quadro complessivo.  

Ma è evidente che il Piano previsto forse è l’unico possibile se si tiene  conto dei condizionamenti esistenti, di realtà consolidate che non possono essere ignorate, di un appesantimento di una struttura amministrativa burocratica centrale che certo non può essere sfoltita e alleggerita in modo rapido.  La cosa più facile è il percorso degli anni passati, andare piano. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

EDILIZIA SCOLASTICA IN CALABRIA ANCORA
C’È TROPPO DA FARE TRA DIVARI E RITARDI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria a poco a poco si stanno rendendo più sicure e moderne le scuole. Si tratta certamente di un importante risultato, ma questo non è abbastanza per poter dire che nella regione le Scuole stanno bene, perché non è così. A certificare lo stato di salute degli edifici in Calabria e in tutta Italia, la 14esima edizione del report Ecosistema Scuola di Legambiente, in cui sono emersi dati molto interessati.

Ad esempio, Vibo Valentia è tra le città che hanno realizzato maggiori interventi di adeguamento sismico, mentre Cosenza è tra quelle che hanno realizzato i maggiori interventi di messa in sicurezza dei solai nelle proprie scuole negli ultimi 5 anni, oltre ad avere – assieme a Crotone – il maggior numero di scuole servite da pedibus. La città bruzia, inoltre, brilla per il maggior numero di scuole raggiungibili in bicicletta grazie alle piste ciclabili. Catanzaro, invece, viene “rimandata” per non aver fornito dati gli impianti di energia rinnovabile nelle scuole, mentre Vibo, se da una parte è stata virtuosa contro i terremoti, dall’altra viene “bocciata” per non avere impianti di energia. Il capoluogo e Crotone rientrano, anche, tra le scuole che non hanno fornito dati sul monitoraggio amianto. Sempre Vibo, è tra le città che spendono di pi ù nel servizio di pre e post scuola. Reggio Calabria, invece, non compare in nessuna classifica.

Dati importanti, considerando che i dati sulle certificazioni ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco rassicurante, visto che ancora oggi solo 1 edificio su 2 dispone del certificato di agibilità (49,3%) e di collaudo statico (47,5%). Nello specifico, il 68,8% degli edifici del Nord dispongono del certificato di agibilità, mentre solo il 22,6% di quelli del Sud e il 33,9% delle Isole.

Nel Report, infatti, sono raccolti i dati del 2023 di 100 Comuni capoluogo su 113  e che riguardano 7.024 edifici scolastici di loro competenza, tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, frequentati da una popolazione di oltre un milione e 300mila studenti, offre un’analisi dettagliata sullo stato di salute delle scuole confrontandola con i servizi essenziali di prestazione, i cosiddetti Lep previsti dall’autonomia differenziata, e che per le scuole riguardano edilizia scolastica, digitalizzazione e servizi mensa, denunciandone ritardi ed emergenze da affrontare anche per quel che riguarda trasporti, palestre e sostenibilità energetica, tre servizi non contemplati dai Lep riguardanti l’istruzione.

«Con l’autonomia differenziata – ha commentato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente – si rischia di aumentare i divari tra le scuole del nord e sud. Di questo passo senza un investimento sui Lep, rischiano le aree più fragili del Paese, come il sud e le aree interne, non solo di non recuperare i ritardi sull’edilizia scolastica ma anche di restare indietro sui servizi scolastici. Se si vuole lavorare su una didattica inclusiva e innovativa l’organizzazione e la progettazione degli spazi è rilevante, bisogna che ci siano laboratori, palestre, mense, nuovi ambienti di apprendimento».

«Ma anche le condizioni di lavoro sono fondamentali – ha aggiunto – gruppi classe più piccoli, un isolamento termico che consenta di stare in classe senza disagi, scelte di sostenibilità che migliorino lo stato generale degli edifici. Tutto questo potrebbe essere realizzato se la messa a terra dell’autonomia differenziata aprisse una stagione con al centro un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole per connettere bisogni e azioni».

«Per ridurre il gap con il resto d’Italia – si legge nel rapporto – ma soprattutto per mettere in sicurezza le scuole, si rende, quindi, urgente dedicare maggiori fondi al Sud e Isole ma, soprattutto, aiutare le amministrazioni a realizzare gli interventi necessari per la messa a norma degli edifici scolastici di loro competenza.

«È giunto il tempo – ha detto Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – di “alzare l’asticella della qualità”, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive».

Infatti, nella Penisola una scuola su tre ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti, un dato che nel Sud e nelle Isole sale al 50%, 1 scuola su 2. Un’emergenza ormai cronica, che non migliora, nonostante nel 2023 a livello nazionale siano stati stanziati maggiori fondi per la manutenzione straordinaria (media per singolo edificio), 42milax euro, rispetto a quelli medi degli ultimi 5 anni, 36mila euro. Senza contare che persiste un forte gap tra quanto viene stanziato e quanto le amministrazioni riescono effettivamente a spendere: nel 2023 considerata la media a edificio scolastico su 42.022 euro stanziati ne sono stati spesi 23.821 euro. Preoccupano, anche, i ritardi su digitalizzazione, trasporti, servizi per lo sport ed efficientamento energetico e in questo quadro l’autonomia differenziata rischia di non aiutare la scuola.

Ma non solo: a pesare sullo stato di salute  degli edifici scolastici sono anche i ritardi che si registrano sul fronte della sicurezza – solo il 50% delle scuole ha tutte le garanzie (ossia i certificati di sicurezza) – ma anche sul fronte servizi come, ad esempio, sull’innovazione digitale con poco più di 1 scuola su 2 che dispone di reti cablate e Wi-Fi.Le mense restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%. Preoccupa la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso. Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente.

Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7 % si trova in classe A.  Per Legambiente è una grave mancanza che i Lep relativi all’istruzione non considerino tre servizi come trasporto scolastico, palestre e sostenibilità energetica. Si tratta di servizi indispensabili per garantire il diritto allo studio, l’accessibilità a strutture sportive pubbliche e ambienti qualitativamente vivibili anche da un punto di vista climatico.

Nel rapporto, poi, viene rilevato come «persiste, nella Penisola, il divario tra Nord e Sud anche in termini di capacità progettuale, di reperimento dei fondi e di finalizzazione della spesa. In particolare, per quel che riguarda i fondi nazionali per l’edilizia scolastica per interventi di diversa tipologia, nel 2023 nel Nord e nel Sud la media dei fondi nazionali ricevuti per edificio scolastico è stata di circa 1,4milioni di euro, nel Centro il dato scende a poco più di 600mila, per arrivare a meno di 300mila euro a edificio nelle Isole. Fondi esigui, quest’ultimi, per la messa in sicurezza e l’efficientamento degli edifici scolastici. Differenti anche i tempi di durata dei cantieri, se in alcune regioni del Nord possono essere di 8-10 mesi dallo stanziamento della risorsa all’opera ultimata, in diverse regioni del Sud possono invece arrivare a 24 mesi. Sul fronte nuova edilizia scolastica, negli ultimi 5 anni stando ai dati inviati dalle amministrazioni, nella Penisola sono solo 41 le scuole nuove costruite».

Alla luce dei dati emersi dal Report, Legambiente ha presentato dieci proposte che hanno come filo rosso un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole a partire da una manutenzione, gestione, organizzazione e qualità della scuola migliore. Primo intervento importante da mettere in campo, attivare da parte degli Enti Locali processi di amministrazione condivisa sulla base di patti educativi di Comunità. A seguire tra gli interventi prioritari per Legambiente occorre ampliare la funzione dell’anagrafe scolastica rendendo trasparenti le informazioni sullo stato di avanzamento degli interventi per l’edilizia scolastica e relativi finanziamenti, creare una struttura di governance per facilitare accesso e gestione dei fondi per l’edilizia scolastica da parte degli Enti Locali e garantire il funzionamento dell’Osservatorio per l’edilizia scolastico. (ams)

IL MERIDIONE BATTERIA DELL’EUROPA: UN
AFFARE PER IL PAESE MA DANNEGGIA IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl Mezzogiorno batteria dell’Europa. Sembra una conquista: finalmente con la chiusura dei rifornimenti da parte della Federazione Russa il Mezzogiorno diventa centrale. E allora impianti eolici, solari, passaggio di reti elettriche di collegamento con il Nord Africa, attraversamento di reti di collegamento dalla Sicilia alle Alpi, arrivo di navi gasiere per trasformare l’energia  liquida con rigassificatori posizionati sulle coste.  

Qualcuno si è reso conto però per prima che l’affare non è per le realtà che sono interessate a diventare la cosiddetta Batteria e invece che  si tratta di un secondo sfruttamento, dopo quello avvenuto con il posizionamento delle tante raffinerie e delle fabbriche di industria pesante che hanno rovinato la costa di Gela, Milazzo, Augusta, Taranto, Bagnoli e la salute delle popolazioni residenti nelle aree. 

E infatti la Sardegna ha già sospeso le autorizzazioni per impianti solari e eolici che oltre a sottrarre suolo alle culture di eccellenza, che possono localizzarsi in Sardegna, modificano lo skyline dei territori, peggiorandolo notevolmente. 

Altre regioni come la Sicilia esultano per la mole di investimenti fatti dalle aziende che si occupano di tali impianti, dimenticando che è un’operazione da apporre nel conto economico tutta dalla parte del dare. 

Il rigassificatore che si vuole costruire a Porto Empedocle, a pochi chilometri dalla Valle del Templi e dalla casa di Pirandello in realtà porterebbe a regime un numero di posti di lavoro inferiore a quelli di un solo grande albergo, anche se lavoro di livello elevato, ma di contro costituirebbe una grossa servitù per il porto che invece potrebbe essere molto meglio utilizzato per accogliere le grandi navi crociere e costituire l’Hub per il collegamento lento e veloce con le isole Pelagie, Pantelleria, ma anche il Nord della Tunisia. 

 Tale premessa non ha il significato di affermare che il territorio meridionale non può essere utilizzato per produrre energia pulita per tutto il Paese, che ne potrebbe avere sempre più esigenza, in attesa probabilmente di ritornare all’energia nucleare, ribaltando una decisione autolesionista che ha portato il costo dell’energia per le nostre imprese tra quello più alto dei paesi occidentali, costituendo una penalizzazione notevole per le nostre esportazioni, che hanno molta più difficoltà a competere. 

Se tutto questo avviene in un’ottica programmata di attenzione al territorio, considerato che la vocazione turistica delle aree ha bisogno anche di preservare e proteggere un ambiente fragile, come peraltro stanno facendo in Toscana, dove le valli e le colline, caratterizzate dai cipressi che “a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar” di carducciana memoria, diventano elemento  costitutivo e protetto del paesaggio può essere un fatto positivo. 

Se oggi con l’handicap del caro energia abbiamo superato anche il Giappone nella dimensione economica delle esportazioni, pensate a cosa riusciremo a fare se avessimo anche una energia a basso costo. Infatti i brillanti risultati del farmaceutico a Napoli e dell’alimentare nel Meridione portano il Paese a 373 miliardi esportati nei primi sette mesi del 2024, quarti al mondo prima di Giappone (368), Corea del Nord (361), Francia (352), Canada (302) e Gran Bretagna (266).   

Ma se il futuro è quello di essere fornitori di energia per il Paese e per l’Europa e contemporaneamente salassati da una perdita di capitale umano, spesso giovane, che ci porta a un costo per le casse regionali di una perdita di 20 miliardi l’anno, allora il Mezzogiorno deve dire, come ha fatto la Presidente della regione Sardegna, Alessandra Todde, “noi non ci stiamo”.  

E non dovremmo gioire alla notizia che Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase) ha autorizzato l’infrastruttura elettrica Bolano-Annunziata, un collegamento elettrico sottomarino in corrente alternata a 380 kV di Terna, che unirà la Sicilia e la Calabria. Perché la realizzazione dell’opera non diventa strategica per la rete siciliana ma  per l’intero sistema elettrico nazionale. E che la società, che ha come primo socio Cdp reti (29,851%), abbia previsto un investimento di 128 milioni di euro non ci deve fare esultare. L’infrastruttura – fa sapere la società – incrementerà fino a 2.000 MW la capacità di interconnessione tra la Sicilia e il Continente a beneficio dello sviluppo e dell’integrazione delle fonti rinnovabili previsto nel Sud Italia.  Bella notizia per il Paese solo costo per la Sicilia.

 O notizie come quella riportata “Prende sempre più corpo il ponte energetico che unirà Europa e Africa, passando per la Sicilia, attraverso l’elettrodotto «Elmed». E proprio ieri è stato compiuto un ulteriore passo in avanti, con il protocollo d’intesa siglato a Palermo tra il presidente della Regione, Renato Schifani, e Giuseppina Di Foggia, amministratore delegato e direttore generale di Terna, che realizzerà l’opera con Steg, gestore della rete elettrica tunisina”, non devono essere salutate con tanto entusiasmo.      

Mentre i ristori promessi sanno di mancette che serviranno per la successiva festa del paese che potrà servire al sindaco di turno per aumentare il suo consenso. 

«Inoltre la Regione siciliana e Terna hanno condiviso per la nuova infrastruttura, cofinanziata dalla Commissione Europea tramite il programma Connecting Europe Facility, un accordo per l’attuazione di opere di riqualificazione territoriale ambientale. Nello specifico, Terna erogherà un contributo di un milione di euro per opere di compensazione ambientale che la Regione integrerà con altri 4 milioni provenienti dal Fondo di sviluppo e coesione. In totale 5 milioni di euro che saranno utilizzati per l’anastilosi, ovvero la ricomposizione parziale mediante l’utilizzo dei pezzi originali, delle imponenti colonne Sud del tempio G nel Parco archeologico di Selinunte. In più saranno erogati ulteriori contributi ai due Comuni interessati: 600 mila euro a Castelvetrano, e 2 milioni a Partanna». 

Siamo a miserie contrabbandate come regali importanti, a specchietti che vengono venduti come brillanti, per i poveri meridionali ancora con l’anello al naso. 

Nulla di impianti di aziende manifatturiere importanti da  localizzare in territori dove lavora una persona su quattro invece che una su due, che si stanno spopolando perché i giovani vanno già a studiare nelle università settentrionali, sicuri che in questo modo troveranno un lavoro.

Niente di tutto questo. Soltanto specchietti contrabbandati per brillanti. E la politica locale, spinta dagli interessi nazionali, fa il controcanto, contrabbandando il prezzo che paga per un vantaggio che riceve. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

CONTRO L’EMIGRAZIONE GIOVANILE SI DEVE
PUNTARE A COLMARE IL DIVARIO NORD-SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVale 134 miliardi il capitale umano uscito con i giovani italiani emigrati: dalla Lombardia 23 miliardi, dalla Sicilia 15 e dal Veneto 12, e la quota dei laureati che vanno via diventa sempre più consistente. Così in una nota, firmata Lorenzo Di Lenna, ricercatore junior e Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est, viene calcolato il costo del deflusso di giovani dal nostro Paese.

Nei tredici anni 2011-23 il valore del capitale umano che se ne è andato dall’Italia, e riguardante i giovani 18-34 emigrati, è pari a 133,9 miliardi, con la Lombardia a primeggiare per perdita (22,8 miliardi), seguita dalla Sicilia (14,5), dal Veneto (12,5) e dalla Campania (11,7). 

In realtà il dato assoluto in questo caso non ha alcun senso. Se invece esso viene rapportato alla popolazione residente in ciascuna regione ci si accorge facilmente che la classifica è diversa e vede il valore dei giovani meridionali che abbandonano quello più elevato. E questo calcolo riguarda soltanto il movimento rispetto ai trasferimenti in altre nazioni d’Europa e del mondo. Non tiene conto invece dei trasferimenti all’interno del nostro stesso Paese. Possiamo aggiungere allora che ogni anno le regioni del Sud “regalano” a quelle del Nord una cifra vicina ai 20 miliardi di euro, considerato che ogni ragazzo che viene formato fino alla scuola media superiore ha un costo che viene calcolato in circa 200.000 € e che ogni anno si trasferiscono dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese 100.000 giovani, la maggior parte dei quali sono laureati e che quindi hanno un costo maggiore dei 200.000 € che sono stati riportati prima. 

Lanciare un grido d’allarme per evidenziare che il nostro non è un Paese attrattivo è corretto. Spesso le remunerazioni sono molto basse, vedasi cosa accade con i medici, che trovano convenienti le condizioni complessive offerte altrove. I diritti a cui si può accedere sono più ampi all’estero, si pensi al welfare di cui godono le giovani mamme o spesso ad una sanità che da noi non è all’altezza delle aspettative, soprattutto nel Mezzogiorno.

Insomma non solo un lavoro meglio retribuito, ma anche un welfare più consistente sono le motivazioni alla base della scelta di chi preferisce abbandonare l’Italia e trova conveniente spostarsi. Ma una distinzione tra coloro che abbandonano il Mezzogiorno e quelli che abbandonano il Centro Nord va fatta.

Infatti non si tratta dello stesso tipo di trasferimento. Nel Nord si assiste ad un processo, che peraltro può essere anche virtuoso, perché consente ai giovani italiani di acquisire skill che magari in Italia avrebbero più difficoltà a conseguire. 

Si chiama mobilità ed è un processo in genere bidirezionale, da un paese all’altro, ed arricchisce entrambi i territori. Il giovane inglese viene a lavorare in Italia e il suo collega italiano va a Londra. Nel loro percorso di vita ci potrà essere un ritorno nelle loro aree di origine, perché non sarà difficile per l’ingegnere che si è specializzato in un’azienda londinese trovare la possibilità di essere accolto in una altrettanto bell’azienda brianzola, nella quale potrà continuare il lavoro che svolgeva nella prima. 

Caratteristiche diverse ha l’abbandono dei territori meridionali: in tal caso si parla di emigrazione, che è quel fenomeno che riguarda i paesi poveri, che li depaupera delle migliori energie, che non hanno alcuna possibilità di trovare collocazione nel sistema imprenditoriale esistente. 

In quel caso si tratta di una perdita netta perché senza ritorno: essendovi un sistema manifatturiero imprenditoriale molto carente, le professionalità che vanno via difficilmente potranno trovare collocazione in un eventuale loro, desiderato, ritorno, che avverrà probabilmente soltanto nella fase della pensione.

Per cui il danno sarà doppio: la prima volta lo si avrà quando si perde il costo della formazione sostenuto dalla Comunità di appartenenza, la seconda volta al loro ritorno nelle terre di origine, perché queste dovranno farsi carico di fornire le prestazioni sanitarie, che, come è noto, sono molto più frequenti quando si raggiunge una certa età. 

Peraltro il Nord del Paese, in ogni caso si rifà di eventuali perdite di capitale umano formato attraendo i giovani meridionali, spesso con operazioni di comunicazione scientifiche e programmate. Il Sud invece ha performance simili a quelle dei Paesi in via di sviluppo, come Tunisia, Marocco, Libia.

La differenza è che dal Nord Africa o dall’Africa Centrale arrivano con i barconi, dal Sud basta un volo low cost, ma il depauperamento è uguale.    

Certo consentire un tipo di abbandono come quello di cui si è parlato senza che lo Stato di appartenenza possa rifarsi perlomeno in parte dei costi sostenuti per “l’allevamento“ di tali giovani è un percorso che va rivisto. Anche se in una libera Europa, dove merci e persone possono muoversi liberamente, pensare a rimborsi dovuti allo Stato da chi lascia la propria nazione è assolutamente inimmaginabile, come lo è però la cannibalizzazione che viene fatta nei confronti di alcuni paesi, tipo per esempio la Croazia. 

I meccanismi seri che possono alla base evitare tali processi che impoveriscono alcune aree riguardano soltanto lo sviluppo di esse, le eliminazioni dei divari, che poi è quello su cui l’Europa sta cercando di lavorare più alacremente. Ma è anche il percorso più difficile. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’altravoce dell’Italia]

L’AMPIA SOTTOSCRIZIONE AL SUD CONTRO
AUTONOMIA È IL SEGNO DEL CAMBIAMENTO

di PIETRO MASSIMO BUSETTAInvece che il Ponte sullo stretto di Messina vogliamo l’acqua. In questo agosto con un solleone che rende difficile anche la respirazione, mentre la temperatura anche di notte non scende al di sotto dei 26° e le piogge diventano un miraggio, i luoghi comuni imperversano sui social. 

E visto che la carenza idrica ormai è diventata drammatica, non c’è miglior slogan che lanciare un nuovo luogo comune e contrapporre l’esigenza idrica alla madre di tutte le infrastrutture. 

Il tema è sempre lo stesso invece che… Di volta in volta cambia il secondo soggetto. Invece che il ponte, l’acqua; invece che il ponte, la sanità; invece che il ponte, le opere di difesa ambientale; invece che il ponte le fognature. Potrei continuare con una sfilza infinita di invece che. 

Sembra che i meridionali si siano convinti di non avere gli stessi diritti degli altri italiani. Che invece avrebbero diritto a recuperare le realtà alluvionate dell’Emilia-Romagna, ma contemporaneamente anche a completare il percorso della Tav per collegare Torino a Lione. Devono poter contare sull’aiuto del Governo Centrale in caso di calamità naturali, ma contemporaneamente non rinunciare alle tante opere che si stanno portando avanti, né tantomeno a organizzare eventi sportivi come le Olimpiadi invernali di Milano- Cortina, che costano alla fiscalità generale importi certamente non piccoli di risorse. 

Tale approccio è frutto di una atavica condizione di subalternità, prima nei confronti dei Baroni e della Chiesa, poi nei confronti di uno Stato che era stato visto come nemico ed invasore, e infine di una politica che fa passare il soddisfacimento dei diritti come l’elargizione di favori. 

Per cui non si hanno diritti da soddisfare contemporaneamente ma elargizioni che vanno richieste con una certa gradualità per evitare che il padrone possa infastidirsi. In fin dei conti è la stessa logica che prevede che si dibatta in modo serio sui Lep, Livelli Essenziali delle Prestazioni, senza manifestare indignazione per uno Stato che prevede che in alcune parti possano esserci non livelli uniformi rispetto a quelli esistenti in altre parti del Paese, ma solo quelli essenziali. 

È la logica che sottende tutta la legge sulla Autonomia Differenziata, che Roberto Calderoli dichiara essere a favore del Sud, perché finalmente si è messo per iscritto che in alcuni settori anche il Mezzogiorno ha diritto ad avere i livelli essenziali, cioè minimi. 

È un’affermazione grave perché vuol dire che fino adesso nemmeno quelli si sono avuti. Ci si potrebbe chiedere dove è stato lo Stato Centrale che ha permesso che ci fossero due realtà, così distanti tra di loro, in uno stesso Paese. Dove sono state le Istituzioni di garanzia. Dove i Partiti nazionali, dove i Sindacati e perfino la Chiesa. 

Altro che “Questione Settentrionale” strombazzata ai quattro venti da  opinionisti spesso al libro paga di interessi precisi. Questa è la realtà con la quale dobbiamo confrontarci, certamente non con i tecnicismi e i finti dati reali che il Ministro per gli Affari Regionali, nella sua campagna d’autunno anticipata ad agosto, vuole, con gli Uffici e i Centri Studi al suo servizio, diffondere perché continui la vulgata di un Sud che ha avuto risorse infinite che sono state sprecate, che ha avuto una classe dirigente inesistente, cosa in parte vera, ma funzionale agli interessi di un Nord bulimico. 

Tale incapacità di difendere i propri interessi e i propri elettori si è vista anche nelle votazioni per l’Autonomia Differenziata, per cui moltissimi rappresentanti meridionali al Parlamento, pur di non perdere la possibilità di continuare a fare politica, si sono sparati ai piedi. 

In fin dei conti bisogna accreditare la vulgata che il Sud deve soltanto  guardare a se stesso se è nelle condizioni per cui 100.000 persone ogni anno devono scappare via per avere un progetto di futuro, con un costo per le casse regionali di riferimento di oltre 20 miliardi annui. Che deve guardare alla sua incapacità se nelle case di alcuni Comuni del Sud l’acqua arriva soltanto una volta alla settimana e si è costretti ad avere sui tetti i recipienti di accumulo, per poter fruire di un servizio minimale per ogni Paese appena sviluppato. 

Che deve fare “mea culpa” se per risolvere un problema di sanità importante deve trasferirsi, spesso con la famiglia, e spendere decine di migliaia di euri per poter avere la speranza di essere curato adeguatamente. D’altra parte se a qualcuno instilli la convinzione che la colpa della sua condizione sta solo nella sua incapacità, è evidente che non avendo un nemico da attaccare si rifugerà nell’inazione, nella frustrazione e spesso nel desiderio di passare dalla parte vincente.

Per cui è normale che la maggior parte dei tifosi delle società calcistiche settentrionali siano nelle aree meridionali e che spesso anche nei paesi più sperduti vi sia un Club Juventus o Milan. O che dopo pochi mesi di residenza a Milano, vi siano interlocuzioni nel linguaggio assolutamente estranei rispetto alle origini dei soggetti. Atteggiamento tipico dei colonizzati che tentano in tutti i modi di non farsi riconoscere cadendo poi nel grottesco. 

C’era un Dipartimento per le Politiche di Coesione, istituito da Carlo Azeglio Ciampi, che calcolava in un modo neutro il pro capite in ciascuna parte del Paese e che ha rilevato che vi era una differenza tra il Sud e il Nord, in costanza di spesa pro-capite uguale, come peraltro prevede la nostra Costituzione, di 60 miliardi annui. Troppo neutra la posizione per farlo continuare a lavorare. È infatti è stato chiuso. Meglio avere i dati dalla Cgia di Mestre o dall’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani di Carlo Cottarelli

Perché la base della vulgata deve essere quella raccontata prima: molti soldi dati, incapacità di gestirli, responsabilità degli stessi meridionali. 

Ma la sottoscrizione ampia per un referendum che prevede l’abolizione dell’Autonomia Differenziata, l’orgoglio che viene dalla città di Napoli, che malgrado sia stata massacrata nell’immagine per anni, riesce ad esprimere un’identità mai cancellata, ci fa capire che la musica è cambiata. Ed è questo che rende alcune forze territoriali del Nord, come la Lega, estremamente nervose e pronte ad attaccare, sperando che quella testa che si vuole sollevare dalla sabbia ritorni nel suo alveo naturale. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’INGIUSTIFICATA NECESSITÀ DEL MINISTRO
FITTO DI RIESAMINARE IL PNRR PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «La Commissione Europea ha versato all’Italia la quinta rata del Pnrr, pari a 11 miliardi di euro. Il pagamento segue la valutazione positiva, adottata formalmente lo scorso 2 luglio, connessa al conseguimento di 53 traguardi e obiettivi della quinta rata del Pnrr italiano».

Questa la notizia delle Agenzie che riguarda un fatto estremamente importante, che viene confermato da numeri inoppugnabili: vi è un versamento nelle Casse dello Stato italiano di una cifra considerevole. Parliamo di 11 miliardi che certamente aiutano il bilancio. 

Giancarlo Giorgetti sarà molto soddisfatto e grato nei confronti di Raffaele Fitto, che porta a casa già oltre 100 miliardi. Con l’incasso della quinta rata, infatti l’Italia ha ricevuto ad oggi il 58,4% delle risorse complessive del Pnrr, pari a 113,5 miliardi di euro su un totale di 194,4 miliardi. 

Già il 2 luglio Bruxelles aveva approvato una valutazione preliminare positiva delle 53 tappe e obiettivi richiesti, per sbloccare la rata da 11 miliardi, tra cui l’attuazione di 14 riforme e 22 investimenti, in settori quali il diritto della concorrenza, gli appalti pubblici, la gestione dei rifiuti e dell’acqua, la giustizia, il quadro di revisione della spesa e l’istruzione.

L’Italia ha già richiesto a Bruxelles il pagamento della sesta rata da 8,5 miliardi di euro, ed è al lavoro per la verifica e rendicontazione dei 69 traguardi e obiettivi previsti per la settima rata del Pnrr, equivalenti a 18,2 miliardi di euro.  

I rumors della minoranza che parlano di gioco delle tre carte perché il Pnrr sarebbe solo al «37% del totale del cronoprogramma» non fanno breccia. Né può essere preso sul serio un Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, che pensa che il Governo non sia impegnato «a risolvere i problemi reali del Paese». 

Troppa generica l’accusa e l’attivismo della Premier va proprio nel senso opposto, qualcuno addirittura chiederebbe che avesse meno iniziative. E allora tutto bene? Intanto non vi è dubbio che è meglio incassare le risorse che sono state destinate all’Italia provenienti dal debito comune che invece non essere in condizione di esigerle. 

Ma qualche considerazione più ampia deve essere fatta. Le notizie circa il fatto che a livello territoriale le risorse non stanno arrivando nel Mezzogiorno, nella quantità destinatagli dal Paese, che è inferiore a quella che sarebbe toccata se l’algoritmo europeo fosse stato applicato senza alcuna correzione, sono molto frequenti e da fonti diverse. 

 Lo stesso Raffaele Fitto ha parlato della necessità di rivedere il piano per quanto attiene il Sud, con una rimodulazione che rivela alcune difficoltà, peraltro attese, considerato lo stato degli uffici tecnici delle istituzioni locali dopo anni di “dimagrimento”.  

«Dovremo garantire che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud e su questo bisognerà interrogarsi. Ci sarà l’esigenza di valutare qualche altra ulteriore revisione? Forse sì». Cosi il Ministro,  in una recente audizione presso le Commissioni Riunite Bilancio e Affari Europei di Camera e Senato, nella quale non ha escluso un’ulteriore modifica al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. 

Forse siamo andati nel senso delle proposte indecenti di Giuseppe Sala e Luca Zaia, che si offrivano di spendere loro le risorse, visto che avevano progetti esecutivi e capacità di spesa? 

E che dimenticavano entrambi che il primo obiettivo del Pnrr era di diminuire i divari non di aumentarli, e che solo perché esiste il Sud sono arrivate risorse consistenti, senza dimenticare che in parte sono a debito e quindi dovranno essere restituiti da tutti gli italiani, ovviamente in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, concetto che alcuni “nordici” non riescono ad accettare e forse capire. E che prevede che a parità di reddito si paghi lo stesso importo di tasse e che, indipendentemente da ciò che si versa, si abbia diritto agli stessi servizi essenziali, quelli che sono stati definiti come Lep (Livelli Essenziali di Prestazioni) e che invece dovrebbero essere Lup (Livelli Uniformi di Prestazioni ). 

Ma se “bisognerà” interrogarsi sulla garanzia che il 40% delle risorse del Pnrr vengano spese al Sud allora vuol dire che nel raggiungimento degli obiettivi non è prevista alcuna clausola territoriale.  Se così fosse l’Unione confermerebbe una disattenzione alla quale ormai siamo abituati, e confermerebbe un assenza di governance sull’utilizzo corretto dei fondi strutturali provenienti dall’Europa. 

È accaduto che per anni i fondi strutturali siano stati sostitutivi dei fondi ordinari, che dovevano arrivare nel Mezzogiorno, tanto che il pro-capite che avrebbe dovuto essere superiore nel Sud, per l’utilizzo dei fondi aggiuntivi dell’Europa, sia risultato poi invece, malgrado questi, inferiore, senza che ciò fosse in qualche modo rilevato e sanzionato da parte della Commissione, sempre molto attenta invece  a controllare l’andamento di altri indicatori. 

E non per per una piccola cifra ma per oltre 60 miliardi annui, come è stato ampiamente documentato dal Il Quotidiano del Sud, sulla base dei dati del Dipartimento per le Politiche di Coesione voluto da Carlo Azeglio Ciampi

Bene se il raggiungimento degli obiettivi, che hanno fatto pagare la quinta rata, seguisse la stessa logica, sottovalutando il tema della territorialità, motivo per cui i vari Sala e Zaia non si lamentano più, sarebbe molto grave. 

Perché come al solito avremmo eluso il vero obiettivo che l’Unione si era data, quando per stabilire gli importi da destinare a ciascuno aveva utilizzato tre parametri: il tasso di disoccupazione, il reddito pro capite e la popolazione. 

È chiaro che la Commissione può essere disattenta rispetto ai divari territoriali, considerato che il solo vero Paese duale in Europa,  nel quale coesistono due realtà opposte,  é l’Italia, e che gli altri, che hanno problemi simili, hanno avuto sempre una considerazione estrema, come la Spagna e la Germania, delle loro realtà periferiche. 

Ciò non toglie però che l’Unione pagando le varie rate senza controllare la destinazione territoriale, come sembrerebbe stia facendo,  in realtà diventerebbe  complice del possibile fallimento  dello strumento, che invece di diminuire i divari li aumenterebbe. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

TROPPE INFORMAZIONI ERRATE SUL SUD
CHE FAVORISCONO LE REALTÀ DEL NORD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAEsiste una vulgata sul Sud  che propala informazioni errate. Da quelle relative a un Mezzogiorno che è stato inondato di risorse, a quella che elegge una classe dirigente inadeguata. 

Per il primo tema basta guardare i conti economici territoriali voluti da Ciampi per contestare tali affermazioni. Per il secondo tema si dimentica che si tratta spesso  di elezioni che individuano una classe dominante estrattiva, che non ha come obiettivo il bene comune ma quello di alimentare le proprie clientele. Ma ciò avviene con la collusione e il sostegno della classe dirigente del Paese, che ha interesse ad avere una classe ascara sulla quale fare riferimento per le tante esigenze.

Tale classe dominante, “che ha i voti”, al momento opportuno, si tratti delle pale eoliche o degli impianti solari, o negli anni sessanta di localizzare le raffinerie, costituisce la terza colonna pronta a dare una mano per gli interessi settentrionali. 

Classico “amico all’Avana”, che serve per sparigliare le carte quando si vuole dire no a un rigassificatore a due passi dalla valle dei Templi, o dare autorizzazioni per parchi eolici o per parchi solari utili ad un Nord energivoro. Uno schema tipo delle realtà colonizzate esistenti all’interno di un Paese, solo formalmente unito, ma in realtà spaccato in due per reddito procapite, per tassi di occupazione, per contributo all’occupazione dell’industria manifatturiera, per dimensione dell’industria turistica, per contributo all’export. 

In tal senso esiste un Partito Unico del Nord, che al momento opportuno si compatta per utilizzare anche all’interno dei diversi Partiti lo stesso schema, in cui la rappresentanze meridionali contano in modo molto contenuto se non inesistente. Quando si parla di responsabilità dei meridionali e della loro incapacità di scegliere una classe dirigente adeguata si dimenticano poi le responsabilità dello Stato centrale, che non ha investito adeguatamente nella formazione e nella scuola, consentendo una dispersione scolastica al 30%, oltre che una carenza di asili nido scandalosa e una discriminazione nella scuola del tempo pieno tale che al Nord esiste e al Sud è solo un’idea lontana o la mancanza di domanda di lavoro che porta a cercare vie alternative.

Controbattere tali fake in modo adeguato è estremamente complesso, in assenza di quotidiani  che abbiano diffusione nazionale, di televisioni che possano controbattere quelle che hanno sede e testa al Nord; in assenza del servizio pubblico che, visto che viene pagato per un terzo dal Sud dovrebbe ritornare  in cambio una informazione equilibrata, ma che viene gestito a favore delle realtà settentrionali, sia in termini di spot, per tutto ciò che accade nel Centro Nord, che in termini di opinione. 

Tale informazione parziale trova una colonna “armata” che mette in campo  una strumentazione scientifica importante, con professionalità di altissimo livello e che entra nel dibattito a gamba tesa per sostenere alcune posizioni che difficilmente i Centri di Ricerca del Sud, o le stesse Università meridionali, riescono a confutare. 

La difficoltà poi di mettersi contro spesso una Comunità Scientifica che trova nell’appoggio e nelle citazioni vicendevoli un punto di forza per affermare le proprie posizioni porta molti “sudici” a non  sbilanciarsi troppo, per non ritrovarsi in una isolata minoranza. 

Esempi recenti di tale approccio si verificano quando si parla di Autonomia Differenziata. L’esigenza di dare forza alle posizioni favorevoli porta alcune volte ad affermazioni a dir poco discutibili. Un esempio recente riguarda la posizione dell’Istituto Bruno Leoni che afferma in un suo editoriale recente: «Il dibattito sull’Autonomia Differenziata si sta facendo sempre più rovente. I suoi avversari hanno raccolto, nel giro di qualche settimana, centinaia di migliaia di firme per indire un referendum abrogativo della legge Calderoli».

«I critici dell’Autonomia raccontano un mondo che non esiste: le nuove disposizioni possono piacere oppure no, ma raccontarle come l’anticamera della secessione è semplicemente ridicolo… In particolare, l’autonomia non potrà determinare alcuna differenza nella distribuzione delle risorse economiche tra le regioni né darà luogo ad alcun cambiamento della ripartizione dei denari tra le regioni che accedono all’autonomia e quelle che non lo fanno. Questo è un punto fermo della legge Calderoli, che infatti prende le mosse dalla definizione dei Livelli essenziali di prestazione e affida a essi il ruolo di guida dell’intero processo…, fino a quel momento, si litiga sul nulla». 

Affermare in modo così apocalittico che  una parte dell’intellighenzia meridionale, che si è schierata contro, vive in un mondo irreale (un mondo che non esiste), offendendo pesantemente molti ricercatori seri che hanno preso posizioni (raccontarla come l’anticamera della secessione é semplicemente ridicolo), utilizzando termini che manifestano una spocchia ingiustificata, dimostra la sicurezza che l’avversario non ha gli stessi mezzi per difendersi.     

Affermazioni che non hanno alcun fondamento nemmeno nelle motivazioni leghiste che hanno portato all’approvazione della legge che invece sono molto chiare (né darà luogo ad alcun cambiamento della ripartizione dei denari tra le regioni che accedono all’autonomia e quelle che non lo fanno). 

Nel comunicato numero 733 del 30 aprile 2010 del portale della regione del Veneto il presidente Zaia affermava «Ogni anno almeno 50 miliardi di euro partono da Veneto, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna – le regioni più virtuose – diretti al Sud Italia. Si tratta dell’85% del totale dei trasferimenti Nord – Sud. Il Veneto, da solo, spende annualmente non meno di dieci miliardi di euro per coprire i disavanzi nei bilanci delle regioni del Mezzogiorno. Risorse che, con il federalismo, potranno essere destinate a migliorare la vita dei veneti e di tutti coloro che responsabilmente, attraverso il loro lavoro, pretendono servizi pubblici adeguati».

«Il tasso di spreco medio – che al Nord resta sotto il 15% – cresce al Sud e nelle Isole fino ad arrivare al 50% in Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna».

Anche sulle  altre affermazioni (Lep) ci sarebbe molto da ridire, ma quello che è manifesto e che in qualunque occasione il Sud è quel famoso vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, che come scelta ha solo quello di farsi trasportare in maniera isolata altrimenti il suo destino è di rompersi. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IL PARADOSSO DEL SUD CHE MIGLIORA IN
REPUTAZIONE MA LA CRESCITA È BLOCCATA

di ERCOLE INCALZA – Una serie di comunicati stampa ha fatto presente un dato senza dubbio noto ma che non immaginavamo così preoccupante, mi riferisco alla sostanziale crescita del nord rispetto ad una stasi del Sud. Riporto sinteticamente il dato: il Mezzogiorno tra il 2007 ed oggi ha cumulato un differenziale negativo di crescita rispetto al Nord di 9 punti e questo ha fatto sì che il Prodotto Interno Lordo del Sud è ancora 7 punti sotto rispetto ai livelli che precedono la crisi del debito pubblico scoperta nel 2008. E, cosa ancora più preoccupante, è da ricercarsi nel fatto che il recupero integrale dello shock subito dal Paese sempre nel 2008 avvenuto con un ritardo di oltre dieci anni nel nostro Paese rispetto alla Germania e alla Francia riguarda solo il Nord.

Eppure in questi ultimi anni gli indicatori sulla occupazione nel Sud, sulle eccellenze imprenditoriali del Sud, sulla serie di interventi infrastrutturali attivati proprio nell’ultimo biennio dopo dieci anni di stasi, sulla crescita rilevante del comparto turistico e sulla forte impennata della produzione agro alimentare, lasciavano ben sperare.

D’altra parte questa nuova narrazione positiva del Sud era emersa in occasione del Festival Euromediterraneo di Napoli sia del 2023 che del 2024 e, senza dubbio, era ed è una narrazione vera in quanto questa serie di fattori aveva prodotto un aumento sostanziale della occupazione ma non aveva, in nessun modo, incrementato la partecipazione alla formazione del PIL da parte delle singole Regioni. Infatti, come ho ricordato più volte:

Le otto Regioni del Sud sono tutte all’interno dell’Obiettivo Uno della Unione Europea, cioè tutte hanno un PIL pro capite inferiore al 75% della media europea

Nessuna delle otto Regioni supera la soglia del 5% nella formazione del Pil nazionale. Il Pil pro capite nelle otto Regioni non supera la soglia dei 22 mila euro e addirittura in alcune si attesta su un valore di 17 mila euro; al Centro Nord si parte da una soglia di 26 mila euro per arrivare addirittura ad 40 mila euro.

Ma allora sicuramente ci sono delle cause o delle condizioni che bloccano la crescita del Mezzogiorno, cause che da sempre abbiamo cercato di scoprire ma che in modo quasi paradossale sono rimaste sempre rimaste all’interno di interessanti ricerche, di interessanti approfondimenti ma mai siamo stati capaci di misurare e, soprattutto, di leggere in modo trasparente; come ho ribadito più volte, dopo una diagnosi superficiale, abbiamo fatto sempre ricorso ad una terapia ridicola: quella basata su una assegnazione percentuale elevata, almeno il 30%, delle risorse assegnate dallo Stato per interventi infrastrutturali. Invece stiamo solo oggi capendo che questo assurdo paradosso: si cresce su alcuni comparti ma non si implementa il Pil, è legato ad una serie di elementi che questo Governo, proprio perché ha tutte le caratteristiche di essere un Governo di Legislatura, deve necessariamente affrontare; mi riferisco in particolare a: I Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) all’interno delle otto Regioni sono indifendibili; per la offerta di servizi socio – assistenziali si passa da 22 euro pro capite in Calabria ai 540 euro nella Provincia di Bolzano. La spesa sociale del Sud è di 58 euro pro capite, mentre la media nazionale è di 124 euro.

Il livello di infrastrutturazione del Sud produce un danno annuale nella organizzazione dei processi logistici superiore a 58 miliardi di euro. Nelle otto Regioni esiste solo un interporto quello di Nola – Marcianise, nel Centro Nord ne esistono sette (interporti veri, vere eccellenze logistiche); Nelle otto Regioni esiste solo un porto transhipment, quello di Gioia Tauro, con una rilevante movimentazione di container; La distanza dell’intero Mezzogiorno dai mercati del Nord d’Italia e del centro Europa è un vincolo alla crescita per tutte le otto Regioni.

Di questi punti il primo, a mio avviso, rappresenta quello che sicuramente rappresenta la causa più incisiva di ciò che prima ho definito un folle paradosso perché, in realtà, i consumi delle famiglie del Sud e le attività legate anche a forme di risparmio sempre delle famiglie, sono sempre più limitati perché nelle varie attività i margini prodotti sono limitati ed inoltre questa crescita della produttività, non trovando adeguati Hub logistici, viene gestita da imprenditori del Nord veri attori chiave nella gestione delle attività logistiche ed in questo caso il Prodotto Interno Lordo (Pil) del Sud si trasforma in Prodotto Esterno Lordo (Pel), come ho ricordato spesso, del sistema imprenditoriale del Nord.

Ma, insisto, quei dati relativi alla offerta di servizi socio – assistenziali che in Calabria non supera pro capite la soglia di 22 euro pro capite e che nella Provincia di Bolzano si attesta su un valore di 540 euro o il dato relativo alla spesa sociale del Sud di 58 euro pro capite contro una media nazionale di 124 euro, producono un dato che rimane quasi fisso dal dopo guerra ad oggi (sì da oltre settanta anni): il reddito pro capite medio del Sud si attesta su un valore medio di 21.000 euro (negli anni sessanta era di17.000 euro) mentre nel Nord si attesta su un valore medio di 39.000 euro con soglie superiori ai 42.000 euro.

Di fronte a queste banali considerazioni ho più volte proposto che le otto Regioni del Sud utilizzino il comma 8 dell’articolo 117 della Costituzione che consente il ricorso a forme federative e chiedano, in modo coeso ed unitario, con la massima urgenza al Governo di affrontare e risolvere questa assurda discrasia che, da sempre, penalizza la crescita del Sud e, cosa ancor più strana, offre una immagine falsa dello stato socio economico del Mezzogiorno: di un Mezzogiorno che da settanta anni assicura una crescita di altre realtà del Paese. Con questo non voglio assolutamente denunciare il settentrione del Paese di “parassitismo”, voglio solo però fare presente che le azioni del Governo devono essere capillari e devono essere caratterizzate da un vero Action Plan, cioè da uno strumento che affronti contestualmente sia le carenze legate ai servizi offerti, sia la costruzione organica di reti e nodi capaci di ridimensionare la distanza dell’intero Mezzogiorno dai mercati del Nord e del centro Europa.

Lavorando in tal modo molti, in modo critico, diranno che si ricreano le condizioni definite da Gabriele Pescatore e da Pasquale Saraceno attraverso la istituzione della Cassa del Mezzogiorno, io ritengo che aver spento un simile strumento è stato a tutti gli effetti un atto incomprensibile ed irresponsabile che, a mio avviso, ha danneggiato molto di più lo stesso sistema economico ed imprenditoriale del settentrione del Paese. (ei)

RILANCIARE I SITI INDUSTRIALI DISMESSI
LA CHIAVE DI SVOLTA PER L’ARCO JONICO

di DOMENICO MAZZA – Ciclicamente la Questione Meridionale torna alla ribalta. Oggi, poi, in piena stagione Pnrr, il tema acquisisce anche rinnovata valenza. Abbiamo un termine perentorio: fine ’26. Poco meno di due anni e mezzo per cercare di riequilibrare il Paese; rettificare le sperequazioni tra nord e sud e consentire a chi rimasto indietro di procedere alla stessa velocità di chi invece viaggia spedito.

Non basteranno piogge di finanziamenti, il più delle volte parcellizzati e dilapidati in mille rivoli, a consentire al Mezzogiorno di equipararsi al resto del Paese. Non sarà tanto la quantità di spesa investita al Sud Italia a fare la differenza, ma la capacità che questo spicchio di territorio avrà di attrarre finanziamenti invoglianti le imprese, italiane ed europee, ad investire in una terra, per certi versi, larva di sé stessa.

Commettere l’errore di pensare il Recovery Plan come una spesa risarcitoria ai torti subiti negli anni non renderà il Sud un posto migliore. Piuttosto, sarebbe opportuno approcciarsi attivamente all’idea di sovvenzioni finanziare atte a facilitare interventi pubblico-privati. Le richiamate sovvenzioni, invero, potrebbero riverberare benessere e stabilire un deterrente reale all’esodo incontrollabile che, altrimenti, nel giro di 30 anni, porterà il Mezzogiorno all’abbandono totale. Bisognerà studiare, quindi, condizioni che rendano conveniente, per i capitali privati, l’investimento nelle aree del sud, senza pensare ad incentivi distorsivi.

L’Arco Jonico ha un’opportunità unica: rilanciare i siti industriali dismessi. La loro rigenerazione e il rilancio funzionale rispetto la primaria fonte di sostentamento del territorio rappresentata dall’agricoltura, potrebbe essere la chiave di svolta per una rinnovata prospettiva del territorio. Sarà necessario svecchiare il processo di produzione agricola e modernizzarlo in ottica di produttività e filiera aziendale. Non basta raccogliere il prodotto al fine di inviarlo su altre piazze perché questo venga lavorato.

Andranno creati processi industriali puliti per riverberare lavoro, al fine di aumentarne significativamente l’offerta. Bisognerà avere il coraggio di fare qualcosa mai fatta prima per riscrivere la storia di un terriorio dalle innate potenzialità, ma spesso dimenticato. Solo così si potrà cambiare il paradigma che vuole uno dei territori più promettenti del Mezzogiorno avviato a processi di periferizzazione, causa decenni di politiche centraliste. I sistemi per invertire la tendenza ci sono, ma vanno saputi pianificare. Non saranno le piccole operazioni di restiling conservativo a declinare in maniera differente le sorti economiche di un territorio.

Sull’adriatica Pugliese, nella stesura del dedicato Cis (Contratto istituzionale di sviluppo), non hanno pensato a progetti di piccolo cabotaggio. Paesi, Città, Enti di secondo livello, Regione, hanno lavorato in sinergia mettendo a terra un progetto che riverserà circa 600 milioni tra gli ambienti rivieraschi delle Province di Lecce e Brindisi.

Si abbia il coraggio di mettere attorno ad un tavolo i Presidenti delle 5 Province che si affacciano sulla baia jonica. Si allarghi ai Sindaci dei Comuni demograficamente più rappresentativi, ai Presidenti delle regioni Puglia, Calabria e Basilicata e si lanci l’idea di un progetto unitario e coerente per tutto l’Arco Jonico calabro-appulo-lucano.

Porti, distretti agroalimentari, siti industriali (attivi e dismessi) possono realmente rappresentare il ragionevole tasso di interesse per creare un deterrente all’emorragia demografica in atto.

Solo ragionando per aree ad intessere comune, dando vita a reali processi di coesione territoriale, si potranno creare i presupposti per attrarre investimenti.

Contrariamente, il destino della Sibaritide, del Crotonese, così come di tutti gli altri ambienti che si affacciano sulla baia jonica, sarà quello di restare piccole aree dalle innate potenzialità, ma incapaci di offrire un futuro ai propri figli. (dm)

L’UTOPIA DELL’OCCUPAZIONE FEMMINILE
AL SUD È ANCHE UNA QUESTIONE EUROPEA

di PABLO PETRASSO – «Con l’Autonomia differenziata la condizione delle donne siciliane peggiorerà». E sarà così per tutto il Sud, «uno degli effetti di una misura che indebolirà complessivamente il Mezzogiorno andando a incidere negativamente su servizi essenziali come sanità e scuola, sulle infrastrutture, sullo sviluppo e il lavoro. E a farne maggiormente le spese saranno i soggetti, come appunto le donne ma anche i giovani, che hanno già una posizione di debolezza nel mercato del lavoro».

A inaugurare il nuovo fronte è il manifesto che sarà presentato in Sicilia ed è intitolato “La controffensiva delle donne all’Autonomia differenziata”. Non a caso l’appuntamento è a Nicosia, in provincia di Enna, davanti al punto nascita dell’ospedale. La precarietà delle donne e le difficoltà che si vivono nelle aree interne: due vittime annunciate della riforma Calderoli.

Dati e prospettive fanno dire a Svimez che il tema del lavoro delle donne al Sud è una questione europea. Una di quelle materie in cui il divario Nord-Sud è netto e cristallizzato. «Il divario di genere nelle opportunità di accesso e carriera nel mercato del lavoro – argomenta l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – rimane un tema fortemente attuale nel nostro Paese, e particolarmente allarmante nel Meridione. Le regioni del Sud occupano le ultime posizioni nella classifica europea per tasso di occupazione femminile: circa sette donne su dieci non lavorano; a livello nazionale, la percentuale si attestava al 57,3% a fronte di una media europea del 65%».

La mappa restituisce plasticamente le differenze regionali: il Sud mostra tassi di occupazione femminile tra il 31 e il 35%; al Centro-Nord si raggiungono punte del 62%. La Cgil si aspetta, per cancellare la legge, «un forte contributo» dalle donne «che invece di vedere diminuiti divari e migliorata la loro condizione la vedranno senza dubbio peggiorare».

Altri numeri che aiutano a inquadrare il caso: l’indagine straordinaria sulle famiglie italiane della Banca d’Italia mostra come, durante le sospensioni scolastiche connesse alla pandemia, il lavoro di cura sia ricaduto sul genitore che non lavorava (solitamente la madre) nel 61% dei casi nel Mezzogiorno (41,5% nel Centro-Nord). Allo stesso tempo, al Sud, i genitori hanno fatto meno ricorso allo smart working (4,1% contro il 17,6% nel Centro-Nord). La pandemia, peraltro, «ha fiaccato – riporta Svimez – maggiormente l’occupazione femminile, allargando la forbice con gli occupati maschi, compromettendo anche le opportunità di progressione delle madri. Più in generale, a livello nazionale, nel 77% dei casi, le convalide di dimissioni di genitori con figli tra 0 e 3 anni è ascrivibile alle donne, principalmente con profilo impiegatizio (53%) e operaio (39%)».

È un problema di sistema: al Sud ci sono meno possibilità per svolgere attività extra didattiche e sono le donne a mettere in secondo piano le proprie ambizioni lavorative per sopperire alle carenze dello Stato. Ovviamente si sconta la mancanza di un welfare e di politiche che incentivino la conciliazione famiglia-lavoro. In questo senso, l’Autonomia differenziata rischia di cristallizzare disagi e differenze, assieme al gap per la condizione femminile.

E la condizione attuale dice che «al Sud la condizione di genitorialità per le donne risulta ancora più penalizzante in ambito lavorativo, specialmente se con figli in età prescolare: solo il 37,8% delle madri meridionali con figli fino a 5 anni ha un lavoro (65,1% al Centro-Nord), la metà rispetto ai padri (82,1%). Dati allarmanti che ci restituiscono l’immagine di un Mezzogiorno ancora schiacciato sul male breadwinner model, un modello di sostentamento economico delle famiglie prevalentemente maschile». Lo Stato non aiuta le donne meridionali e questa versione della riforma rischia di lasciare tutto com’è.

Il problema è strutturale e non regge neppure la spiegazione del più basso grado di scolarizzazione delle donne tradizionalmente utilizzata per motivare la “segregazione” femminile sul mercato del lavoro. Per Svimez il dato è contraddetto dall’evidenza empirica: «I divari di genere nei tassi di occupazione e nelle retribuzioni persistono nonostante i percorsi formativi delle donne siano divenuti nel tempo più ambiziosi di quelli degli uomini».

Nel confronto europeo, invece, la quota di donne italiane laureate è sensibilmente più contenuta: nessuna regione italiana presenta un valore pari o superiore alla media. Valori particolarmente bassi si osservano in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Italia tra le ultime in Europa, il Sud staccato dal resto del Paese. Uno schema che si ripete, al quale l’Autonomia differenziata à la Calderoli offre risposte insufficienti, che rischiano di affossare il Sud e non tireranno il Nord fuori dalle secche della crisi. (pp)

[Courtesy LaCnews24]

fotografia: Karolina Grabowska da Pixabay