di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Quante volte abbiamo detto o sentito dire: che faccia di Pasqua!, e in realtà Pasqua non era?
Molte forse, tenendo conto che, tradizionalmente, la Calabria si presenta tanto bella nei detti quanto nei fatti.
Quante altre volte invece, una faccia di Pasqua ce la siamo sentiti addosso, illuminati dai rossori della gioia, stropicciati da plurimi sorrisi, e senza che nessun altro se ne stesse lì a dirci: guarda che faccia che hai! Certamente parecchie, tenendo conto che i calabresi sono gente che si piega, ma non si spezza. E alla tenebra contrappone sempre la luce. Del sole se è giorno, di una teda se è notte.
Tendenzialmente è il Sud la terra allegra d’Italia, quella gioconda che non si incupisce per nulla, non teme le carestie né i terremoti, nasce benigna proprio dalla festa. E nella Pasqua popolare o sacra che sia, trova il suo reale compiacimento. Una festa che rispetto a tutte le altre dell’anno, riconosce particolarmente sua, come tratto somatico.
La Calabria come Cristo si offre per amore, come il cireneo porta le croci proprie e quelle degli altri, come il buon ladrone chiede perdono per i suoi peccati. E risorge, perché oggi stesso è in paradiso. E oggi è il tempo che la Calabria vive, il presente in cui coniuga i suoi discorsi dialettali.
La Pasqua è il perfetto equilibrio che si stabilisce tra il dolore del corpo e la gioia del viso; la forza e il coraggio di vivere l’uno e il desiderio di assaporare l’altro; la morte di Cristo e la sua resurrezione, il passaggio obbligato dell’uomo dall’una per poter trovare compimento nell’altra.
Così la Calabria, terra di via Crucis, come scrisse il beato don Mottola, di cristi e cirenei, ladroni, madonne e donne pie, che a ogni caduta, ritrova la speranza nella sua forza interiore di rialzarsi. Mantenendo radiosa la sua faccia di Pasqua. Dai lidi del mare alle alte montagne.
Una faccia che nel momento in cui si atteggiano le labbra, ecco che diventa una scoperta dolce che sazia e delizia, oltre i sapori gli odori e il gusto di cuzzupe, campanari e pittepie fatti dalle mani sapienti delle nostre madri con le ricette antiche della tradizione, nella sua stessa storia, ma anche nei sottoposti della geografia. Soprattutto nella preziosità del destino antropologico di cui si nutre l’anima.
Una faccia di Pasqua che rigetta le lamentazioni e rafforza la sua fede nei canti e nei balli concepiti dalla tradizione, nei suoni tipici prodotti dalla terra buona, dove il seme caduto produce il suo frutto. Si realizza nelle sue affrontate, incrinate o cumprunte, nella rigenerazione del suo profondo credo che non contempla solo il giorno della festa, ma tutti i giorni dell’anno. E poi anche nelle madri, ove addolorate, ove desolate che, mentre il venerdì santo corrono col manto nero al vento per prendere il figlio e serrarsi al petto la croce, gli altri santi giorni li portano in stazione per partire i loro figli, e sempre lì, li attendono ritornare.
In Calabria, la Pasqua è la faccia di tutti, dei grandi e dei piccini, dei ragazzi che preparano i sepolcri, degli infanti ancora in fasce nelle culle. Degli anziani in attesa che si consumi il tempo, dei lavoratori precari e dei disoccupati.
È quell’espressione “tipica” che mette in relazione il calabrese con il resto del mondo, rendendolo unico nel suo essere accogliente, fraterno, disponibile. Un aspetto pasquale che lo contraddistingue e soprattutto lo identifica proprio nella faccia. E sì, perchè senza questa faccia qui, la Calabria sarebbe ben altro. Una terra differente che avrebbe certamente la sua Pasqua, è vero, ma non la bella faccia di Pasqua che ha. (gsc)