«Se dovessi usare il testo di una canzone per raccontarmi, oggi sarebbe: la geografia del mio cammino, di Laura Pausini. Sono una persona molto semplice, sicuramente. Oggi sono una donna consapevole, forte, determinata, serena, con un suo equilibrio e con le complessità tipiche del mondo femminile. Sono una donna a cui la vita non ha regalato nulla anzi, ho sempre dovuto combattere il doppio per raggiungere risultati che altri raggiungevano più facilmente. Ho provato cosa sia la cattiveria delle donne contro le donne. So che la strada è ancora tutta in salita, ma non temo il percorso, né le arrampicate. Sicuramente sono consapevole di essere una persona che non calpesta gli altri per crescere, perché è capitato che lo facessero con me. Quando qualcosa ti fa soffrire hai due possibilità nella vita: comportarti come loro, oppure rimanere te stessa e permettere al dolore di migliorarti. Nei difetti umani che abitano anche il mio carattere scelgo la seconda strada. C’è una domanda che cerco sempre di pormi quando entro in relazione con le persone: e se questo fosse fatto a te? Ecco questa domanda ci eviterebbe la sofferenza che spesso anche involontariamente infliggiamo gli altri. Ci eviterebbe quel malessere diffuso che oggi domina la nostra società, quel malessere che fonda la sua origine nell’egoismo del raggiungere necessariamente un obiettivo» (Giovanna Russo).
di PINO NANO – Da quattro anni esatti, 4 agosto del 2020 il giorno della sua nomina, l’Avvocato Giovanna Francesca Russo è il Garante dei diritti delle persone private della Libertà Personale del Comune di Reggio Calabria. Un’autorità indipendente nominata dal sindaco per le tutele e i problemi legati alle garanzie dei diritti nelle carceri e dei detenuti che le occupano. Un vero e proprio rappresentante istituzionale all’interno del grande pianeta penitenziario di questa città così bella che rimane però, purtroppo ancora oggi, al centro dei grandi riflettori della cronaca nazionale.
È istintivo chiedersi “Ma cosa fa in realtà il Garante dei diritti dei detenuti? È solo un lavoro di inutile rappresentanza istituzionale o è qualcosa di diverso e di più importante? E guardando le tante foto di questa giurista reggina che ci sono in rete diventa altrettanto naturale domandarsi: ma non sarà troppo per una donna, in una terra come la Calabria, un ruolo così complesso e delicato come quello che si vive all’interno di un carcere?”.
Decido allora di cercarla, e ne ricevo in cambio il regalo di un incontro tra i più affascinanti di questi mesi.
«Forse – mi dice – aveva proprio ragione la mia maestra della scuola materna, Clara: smettila di giustificare chi sei! Oggi non giustifico più la mia naturale tendenza di mettere la squadra, le amiche, le persone che valgono al centro della mia vita. Non credo di dover render conto se sto bene con me stessa, se mi fa piacere investire, aiutare e supportare le giovani generazioni e le donne in particolare, se vivo nella testarda convinzione che certi tetti di cristallo vadano forzati, scoperchiati, nella certezza che il meglio debba ancora venire. Sono amica e sorella delle donne che sanno tenersi senza temersi. Ho sempre creduto nella forza delle donne che sanno fare squadra. Ho sempre creduto fermamente che le donne, il giorno che decideranno di unirsi con lealtà fiducia, sincerità, coerenza, nel dialogo e lontane dal chiacchiericcio, cambieranno davvero il mondo.
L’altra sera, proprio al compleanno di una cara amica, Lucia, ho approfondito la conoscenza con una collega. Sorridevamo all’idea che molto spesso, dalle nostre parti le donne siano legate dal pregiudizio di chi sia l’altra. Poi conoscendoci scopriamo e allarghiamo questa cerchia di “sorellanza”. Il futuro che ci attende è donna, ma al contempo mi sia consentito dirlo, leggendo la complessità dei tempi, reputo sia fondamentale che le donne non sminuiscano mai il valore della complementarietà degli uomini. Non è una sfida. Non siamo rivali, ma è la bellezza della diversità che darà alle nuove generazioni un futuro migliore, più autentico, di ritorno ai valori che contano».
A parlarmi tantissimo di lei, e tantissimo bene, era stata nelle settimane scorse Maria Joel Conocchiella, la “pasionaria di Libera in Calabria”, la ragazza a cui don Luigi Ciotti ha affidato la cura di uno dei territori più difficili della regione, la provincia di Vibo Valentia. Già questo l’avevo trovato molto interessante e intrigante, e mi era bastato per cercarla. Solo l’idea che una donna di 39 anni avesse scelto di offrire la sua professionalità al servizio dei diritti delle persone detenute mi poneva mille interrogativi e mille curiosità professionali.
Ecco allora che alla fine riesco ad avere le notizie che mi servono.
Scopro così che “Il Garante dei diritti detenuti”, opera prima di tutto per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale. Non solo questo, ma il Garante “svolge le sue funzioni anche attraverso intese ed accordi con le Amministrazioni interessate volte a consentire una migliore conoscenza delle condizioni delle persone private della libertà personale, mediante visite ai luoghi ove esse stesse si trovino, nonché con associazioni ed organismi operanti per la tutela dei diritti della persona, stipulando a tal fine anche convenzioni specifiche”.
Non è certamente un lavoro di tutti i giorni, e non è un ruolo per nulla semplice da svolgere. Anzi, immagino sia un compito di una delicatezza estrema, ma anche pieno di rischi personali per chi lo esercita, se non altro per le criticità negative che governano il pianeta carcere.
Provo a scavare di più nella decisione del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà e scopro che per statuto comunale “Il Garante promuove, inoltre, l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento domiciliare, residenti o dimoranti nel territorio del comune di Reggio Calabria. E tutto questo con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune medesimo, tenendo altresì conto della loro condizione di restrizione”.
– Avvocato Russo, ma è un incarico adatto ad una donna questo che svolge da quattro anni a questa parte? Non sarebbe stato più semplice per lei fare l’avvocato penalista o civilista nel suo studio privato? Posso chiederle come è arrivata a questa scelta? Una scelta ricercata, desiderata, obbligata, imposta?
«È certamente un incarico delicatissimo. Non è stata una scelta ricercata, desiderata, tanto meno obbligata o imposta. Noi avvocati quando giuriamo pronunciamo la seguente formula: “Consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale, mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia e a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”. Si può essere avvocati in varie forme purché non si tradisca mai l’alta funzione per la quale abbiamo prestato giuramento. Promuovere e difendere la dignità della persona umana, e i suoi diritti inalienabili, vuol dire farsi carico e farsi voce di tutti i poveri, gli esclusi, gli emarginati, gli abbandonati – i veri e propri “ultimi” delle periferie recluse, che però sono i destinatari privilegiati dell’annuncio evangelico. Difficile o adatto per una donna? Una donna è adatta tanto quanto un uomo. Non è una questione di genere, quanto la capacità umana di saper andare oltre, superare le proprie chiusure egoiche e l’indifferenza».
Ricapitoliamo. 39 anni, Giovanna Francesca Russo è oggi Garante per i diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Reggio Calabria, ma è anche Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani – Comitato città Metropolitana di Reggio Calabria, ed è Mediatore Penale e Penale Minorile, Mediatore Scolastico con perfezionamento in gestione delle devianze e delle situazioni a rischio, nonché nella gestione dei conflitti e procedure di de-escalation. Ma è anche Vicepresidente Nazionale dell’Associazione Italiana dei Mediatori Penali e Minorili. Nell’alveo di una collaborazione istituzionale finalizzata alla massima diffusione della tutela dei diritti delle persone private della libertà personale ha svolto attività di concerto con il Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Reggio Calabria nell’ambito della quale sono stati organizzati seminari formativi che la stessa ha rivolto ai militari dipendenti. Poco tempo fa ha anche ricevuto un riconoscimento per la qualità del suo operato dalla Vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno. Un curriculum davvero invidiabile sotto questo profilo.
– Avvocato, le rifaccio la domanda: ma che ci fa una come lei con tutta questa sua esperienza professionale nel chiuso di un carcere come quello di Reggio Calabria, dove credo che il profumo della criminalità organizzata non sia solo una favola per i rotocalchi d’estate?
«Ci sto per combattere qualsiasi forma di sopraffazione mafiosa che soffoca la funzione del trattamento, nega il diritto al reinserimento, che viola il dettato costituzionale, che tradisce la funzione della pena e vanifica i diritti umani. L’incontro, il primo di una serie “Giustizia dentro e fuori le mura” partendo dalla lettura de “il Grifone”, di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, dove hanno dialogato con la città il Procuratore Capo di Napoli Dott. Nicola Gratteri, il Procuratore Capo di Reggio Calabria Dott. Giovanni Bombardieri, il Procuratore Aggiunto di Catania Sebastiano Ardita voleva e vuole essere l’avvio di un percorso per parlare con la collettività sul tema e di come sia necessario oggi più che mai investire seriamente in cultura della legalità tra i giovani e con i giovani dentro e fuori le mura. La criminalità organizzata è un cancro e raccontare come stanno le cose è il primo coraggioso passo per non subirle. Lo dobbiamo ai nostri giovani».
Dietro questo piglio caratteriale tutto meravigliosamente femminile c’è in realtà una vita di studio vero, di analisi, di ricerca, di approfondimento, di viaggi e di esperienze le più variegate nel mondo del volontariato e della chiesa moderna che oggi fanno di questa donna, un esempio di costruzione per una giustizia giusta.
– Avvocato, ma non teme il rischio che un giorno uno dei “suoi” detenuti le chieda di portare fuori dal carcere una lettera o un messaggio diretto magari alla famiglia? Non teme che una sua risposta negativa potrebbe comportare un rischio per lei e per la sua famiglia?
«Alla domanda provocatoria che mi fa le rispondo su come ho reagito, e su come si è lavorato in questi anni. Un Garante tutela diritti e non singole richieste personali o, peggio, posizioni giuridiche. Per la difesa ci sono gli avvocati. La garanzia dei diritti è una questione molto seria. Il rischio delle “richieste” improprie è un fatto ovvio per chi conosce il carcere e la pedagogia della devianza. L’importante è come si risponde. Quando imposti la tua comunicazione sulla certezza del diritto, sulla osservanza delle regole per tutti nessuno escluso, sulla trasparenza operativa, il messaggio dentro arriva forte e chiaro. Se temo in rischi? I rischi sono sempre dietro l’angolo. L’importante è come reagiamo noi, senza mai flettere di un millimetro. Reggio è stato il primo Ufficio del Garante dei diritti dei delle persone private della libertà personale, che ha siglato in Calabria con la Procura di Reggio Calabria un protocollo anche a tutela dei diritti e delle garanzie delle persone private della libertà personale. È di pochi giorni fa il rinnovo del Protocollo con il quale si è registrato l’allargamento all’amministrazione penitenziaria reggina, a firma del Direttore reggente, la Dottoressa Roberta Velletri, e avvenuta con tanto di autorizzazione da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».
Dentro questa risposta c’è per intero il carattere e la fermezza di questa donna reggina, che – -pensate – è ricercatrice universitaria alla Mediterranea di Reggio Calabria presso il Dipartimento Di.Gi.Es. con un progetto dottorale in corso, in co-tutela con la Francia ICT di Tolosa, nel quale sta studiando sul tema della funzione della pena incardinato nella cattedra di Filosofia del Diritto di cui è titolare l’Ordinario Prof. Daniele Cananzi. Così come è componente del Consiglio Direttivo del Centro Europeo di Studi Penitenziari, collabora da diversi anni con l’ISESP “Istituto Superiore Europeo di Studi Politici” CDE, Centro di documentazione Europea accreditato alla Commissione Europea nell’ambito di ricerca e studi politici e sulla cultura politica. Sul suo curriculum postato dal Comune di Reggio Calabria si precisa che siamo in presenza di una Giurista esperta in diritti umani e sviluppo umano integrale e della persona, che ha collaborato con l’Osservatorio sul Federalismo fiscale e collabora con il Laboratorio di Filosofia Politica e Giuridica presso la Cattedra di Filosofia del Diritto Estetica del diritto ed ermeneutica giuridica del Di.Gi.Es.
– Avvocato, ma non sarebbe stato più facile per lei, e forse anche più comodo dedicarsi all’insegnamento universitario che comunque coltiva mi pare con grande entusiasmo?
«Il progetto di ricerca che sto conducendo da anni è frutto di analisi scientifica e metodologia guidate dal mio maestro che dirige lo studio sul quale mi sto specializzando: un ripensamento della funzione della pena nell’ambito della filosofia del Diritto a partire da Foucault per approdare e valutare se possibile lavorare sulla giustizia degli affetti di cui tanto ha scritto uno dei massimi teologi Italiani: Monsignor Pierangelo Sequeri. Sa, nella cattedra della quale faccio parte, la serietà della ricerca universitaria è la più alta forma di compartecipazione responsabile che l’accademia deve donare alla società civile, ai giovani in particolare. È un servizio reso al diritto e alla costruzione di una giustizia giusta. L’entusiasmo per la ricerca, di cui Lei parla, è massimo anche perché sono consapevole che l’opportunità offerta dalla Mediterranea non può essere sprecata. Fare ricerca scientifica da un osservatorio: il Garante, che legge la crisi del sistema penitenziario e apre in chiave giuridico-filosofica a nuove prospettive. Per risponderle, non è comodo, ma necessario bilanciare la passione per la ricerca al rigore del ruolo. Il percorso universitario di studio, nel suo progetto di ricerca originale, non nasce slegato dalla funzione».
Giovanna Russo nasce a Reggio Calabria il 16 marzo 1985, dove oggi vive e lavora. Dopo la maturità scientifica conseguita presso il Liceo Scientifico “Alessandro Volta” di Reggio Calabria, consegue la Laurea di Dottore in Giurisprudenza presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Frequenta per anni la scuola politica monsignor Lanza e partecipa alla formazione della scuola politica del CVX, con i gesuiti, di Calascio nel 2011. Si specializza poi presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali, e subito dopo consegue il Master Universitario di Secondo Livello in «Management Politico. Esperti in Cultura Politica e Studi Europei e del Mediterraneo», presso il Dipartimento DiGieS dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria con lode e pubblicazione della tesi. Percorso che le ha consentito di acquisire competenze tecniche e manageriali necessarie e fondamentali per lo svolgimento delle professioni interne al sistema sociopolitico e all’amministrazione pubblica a tutti i livelli, Nazionale ed Europeo, nonché di affinare funzioni dirigenziali già ricoperte presso enti privati. Consegue poi un secondo Master di II livello per le Dirigenze superiori “Il dirigente nel settore scolastico. Competenze gestionali ed organizzative”. Quanto basta per immaginare nel suo futuro anche un ruolo apicale ai vertici del sistema giudiziario italiano.
– Avvocato, mi dica la verità: so che non ama rilasciare delle interviste…
«Sì, effettivamente ho posto delle resistenze, non sono abituata a parlare di me. Riconosco che è la prima volta che rispondo a qualche domanda personale».
– Cos’è, ritrosia personale o è lei che si è data una regola di comportamento per via del lavoro delicatissimo che fa?
«Sono una donna, una professionista consapevole che la riservatezza nel mio settore sia fondamentale. Lavoro tanto, studio per passione, parlo il giusto e amo tenere riservatissima la mia vita tanto per una questione di stile quanto di tutela delle persone che amo».
– Le prometto che eviterò di entrare nella sua vita privata…
«Mi chieda pure, oggi faccio un’eccezione, perché c’è il tempo del tacere e si svela quello del parlare. Sempre il giusto e per quanto mi è possibile, rispondo con un sorriso».
– Allora mi spieghi perché lo fa?
«Lo faccio perché, se tieni tutto dentro di te rischi che le risonanze verso l’esterno vengano vanificate da assenza di narrativa. La narrativa della vita, quella a cui il mondo moderno ha smesso di credere per mancanza di coraggio. Lo faccio per dire come stanno le cose, senza flettere di un millimetro e con la schiena dritta. Oggi più che mai bisogna avere la capacità, la moralità, e l’onestà di guardarsi dentro e condividere con altri il proprio modo di operare nel mondo».
– Come arriva ad occuparsi di carcere e di detenuti?
«Arrivo ad occuparmi di carcere e detenuti mentre facevo altro nella vita, ma un fil rouge già teneva tutto insieme. Venivo dall’Avvocatura regionale, ero già avvocato, avevo vissuto un periodo professionale e di formazione in uno degli studi più seri della città accanto a colleghi di altissimo profilo con i quali sono ancora oggi in ottimi rapporti e contemporaneamente mi occupavo di procedure giuridiche e progetti europei di tutela e reinserimento dei soggetti deboli. Aggiungo che il destino forse era già a lavoro per me».
– Cosa intende dire?
«Sin da ragazzina ho vissuto l’associazionismo e gli ambienti cattolici nei quali forte è sempre stata l’attenzione verso i soggetti a cui deve essere data una seconda chance. Il giorno della domanda: mi telefona un’amica e mi dice: “hai visto che al Comune di Reggio Calabria hanno pubblicato il bando per Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, se non lo fai tu, chi deve farlo?”. Le rispondo: “credo sia molto impegnativo perché il sistema è complicato!”. Quattro anni fa non ero la donna che sono oggi. Mi blocca e aggiunge: ma ti rendi conto che le cose devono cambiare? Serve certezza delle regole e sguardi umani. Presi quella telefonata come un segno. Sa, prego molto sulle scelte che sono chiamata a compiere e feci discernimento prima di inviare quella pec. Il 4 agosto 2020 era destino che diventassi la Garante. Una scelta coraggiosa quella del Comune di Reggio: la prima donna in Calabria ad essere nominata Garante in una delle città più difficili e complicate della regione se non d’Italia assieme ad altre realtà del Sud».
– La sua prima esperienza in carcere? “Da avvocato”. Ha qualche ricordo non propriamente felice?
«Si, il primo suicidio in carcere, lo ricordo ancora oggi, era piena estate. Alcune cose te le porti per sempre dentro di te: la chiamata istituzionale con la quale venivo avvisata, lo sgomento tanto delle persone detenute quanto degli uomini dello Stato dinnanzi alla sconfitta della vita e del sopravvento della morte. Un suicidio è sempre una sconfitta, uno strappo per tutti. Il carcere solo chi lo conosce veramente può capirlo, e potrà riordinarlo, sistemarlo».
– Se tornasse indietro rifarebbe questa strada?
«Assolutamente sì, c’è un mondo sul quale lavorare ancora moltissimo per mettere ordine».
– Come vive questa sua condizione istituzionale una volta rientrata a casa?
«Ho imparato a gestire le emozioni, addestrandomi al discernimento quotidiano. Ho metabolizzato quanto la passione sia nulla senza la disciplina e il controllo. In questo mi hanno particolarmente aiutata gli esercizi spirituali ignaziani i primi nel 2011. Ricordo con affetto l’importante periodo estivo vissuto a Calascio accanto a Padre Vincenzo Sibilio, un gesuita tutto d’un pezzo, faccio memoria delle confessioni della sera e soprattutto delle sue fortissime parole che ancora tuonano tra mente e cuore: Amare è servire, Servire è Amare».
– Non deve essere facile tornare la sera a casa dopo un’intera giornata in carcere?
«Quando rientro a casa e chiudo il portone cerco di non portare dentro la sofferenza di quei luoghi. È una sofferenza di tutti, servirebbero pagine per narrarla, servirebbe partire da una politica descrittiva degli sguardi, ma di tutti nessuno escluso. Mi sento responsabile per la tutela dei diritti dei detenuti, ma contemporaneamente sento e scelgo di voler esternare in opere e senza omissioni vicinanza istituzionale al personale di polizia penitenziaria e all’amministrazione tutta perché sono consapevole, conoscendo il mondo carcere, che non si tratta di posizioni contrapposte, ma di ruoli diversi nei quali ciascuno concorre alla garanzia dei diritti».
– Posso scrivere che il suo è un ruolo di immensa mediazione?
«Più che di mediazione parlerei di equilibrio. Un Garante deve leggere con equilibrio e senza contrapposizioni sterili le realtà carcerarie. Siamo in un momento storico difficilissimo, e un Garante attento sa bene che, se la Polizia Penitenziaria soffre e sta male, questa sofferenza inevitabilmente si ripercuote sulla popolazione detenuta contraendone i diritti. Dicevo lascio fuori casa le emozioni, ma porto dentro le mozioni e il lavoro, quello sì. L’Ufficio del Garante è impegnativo, faticoso, di grandi responsabilità, e delicatissimo per le ragioni che ben si possono comprendere. La vita però, so che è fatta di scelte, e io ho scelto da che parte stare: quella di tutelare i diritti di tutti combattendo la criminalità dal di dentro. Mi spiego: Sono ben consapevole che il disordine di questi anni ha determinato caos e che il caos genera spazi e maglie in cui la sopraffazione mafiosa si annida e invade la vita di quelle persone recluse che vorrebbero ritrovare la via della libertà scontando la propria pena secondo i principi costituzionali. Dobbiamo lavorare uniti più che mai».
– La sua famiglia ha condiviso con lei questa scelta?
«La mia famiglia mi ha sempre accompagnata in ogni scelta della vita personale e professionale. Il loro amore, il loro senso del dovere e del rispetto, l’impegno per e con gli altri sono i valori con i quali sono cresciuta e che accompagnano da sempre i miei passi. Sono sicura che non sempre siano sereni, ma scelgono di accompagnarmi con grande attenzione, amore e comprensione anche quando la preoccupazione, mai palesata, soprattutto di mia madre prende il sopravvento. Ricordo ancora il giorno della nomina, quando rientrata a casa mio padre affrontò l’argomento con la solita serenità delle poche parole che usa trasmetterci, mia madre mi pose le domande che tutte le mamme preoccupate rivolgono ai figli».
– Ma lei davvero crede che sua madre non si renda conto della difficoltà del suo lavoro e dei rischi connessi?
«Io sono convinta che per amore, anche quando non condivide soprattutto i ritmi, finga bene per supportarmi e garantirmi libertà nelle scelte. Il cuore di una madre sa! Oggi credo che in parte sia più tranquilla, è consapevole che non sono sola. Oltre all’affetto della mia famiglia di origine, ho una squadra, una famiglia allargata che è una impenetrabile muraglia di rapporti solidi fatta di donne e uomini che lavorano con lealtà per la garanzia della legge e la tutela dei diritti. Quando scegli di tutelare diritti delicatissimi, in ambienti come il carcere fai una scelta di vita ne accetti i pro ed in contro».
– Avrebbe potuto diventare un avvocato di successo, non crede? E invece trascorre molte giornate in carcere.
«Il successo è una conseguenza, non un obiettivo. Dopo averne viste tante, dopo aver ricevuto colpi bassi e non poche subdole prevaricazioni mai a volto scoperto, ma sempre dietro le spalle, pensa che il successo mi riguardi? Io tengo particolarmente al lavoro della mia squadra. Aggiungo, una persona importante un giorno mi disse: Il tuo successo è che tu non fai mai finta di niente. Il far finta di niente sono consapevole che uccida la società. Io sono quello che il Signore ha voluto per me. C’è un canto ecclesiastico al quale sono legata: come Tu mi vuoi».
– È una risposta evangelica mi pare?
“Si, lo è. La fede è uno dei miei tre pilastri. Ho avuto la fortuna nella vita di incontrare guide che mi hanno educata al senso evangelico della gestione delle responsabilità. Quando ti viene affidato un ruolo, sai che il successo non solo è una conseguenza della costanza, ma deve essere con e tra le persone che sono al tuo fianco e che devi valorizzare. Da soli non si va da nessuna parte. Sono vissuta e cresciuta a Salice, periferia a nord della città, a pane e parrocchia. Trascorrevo interi pomeriggi con gli amici del catechismo e i nostri ambienti erano gli spazi parrocchiali. Quell’ambiente è stato determinante per la mia formazione. Sono diventata catechista a soli tredici anni, ricordo ancora quando Don Giuseppe Abramo ci accompagnò dall’allora Arcivescovo Vittorio Mondello il quale esordì: ma hanno bisogno del catechismo o faranno catechismo? Fu un’avventura umana e spirituale che durò ben dieci anni, la più formativa della mia vita, quella che mi aiuta ancora all’equilibrio e alla riflessione. Don Abramo fu il mio primo padre spirituale, sono certa che accompagni ancora oggi i miei passi. Le confesso che andando al cimitero per commemorare i miei nonni un fiore per lui c’è sempre».
– E il suo obiettivo più ambizioso?
«Investire per la costruzione di un reale welfare penitenziario che si fondi su un pensiero primo: ripartire da quella che chiamo la realizzazione di una casa di vetro. Creare così sane e solide relazioni tra persone che concorrono quotidianamente alla realizzazione del bene, della giustizia giusta nel mondo penitenziario. Oggi siamo al collasso. Non a caso giorni fa alla presenza dei Procuratori Gratteri, Bombardieri e Ardita portai l’esempio delle aquile e dei corvi».
– Se posso dirle quello che penso è che lei è una donna di grande carattere…
«La ringrazio per il riconoscimento, sicuramente è anche un pregio che riconosco a molte donne. Ma come tale aggiungo che ogni pro, ha anche i suoi contro. Nella società odierna facciamo fatica, viene spesso additato come difetto soprattutto quando si vuole che le cose non cambino. Io, invece, credo che il futuro sia donna, non sono una femminista, precisiamolo. Sono una donna di carattere che crede nella bellezza della complementarietà dei ruoli uomo-donna».
– Qual è il rischio più reale per chi vive il carcere come lei dall’esterno ma lo vive poi nei fatti anche all’interno?
«Quando conosci il mondo carcere sai che per garantire realmente diritti devi essere disposta a scontrarti contro poteri forti che sul carcere hanno interessi. Una volta un servitore dello Stato mi disse: quando ti occupi di poveri, detenuti, immigrati devi essere disposta agli attacchi dei poteri che su queste persone speculano per interessi personali. La storia ne è testimone. La sovraesposizione la metti in conto, ma scegli comunque da che parte stare: “Ci sono loro, ma ci siamo anche noi”».
– Non capisco, mi aiuti a capire per favore….
«Oggi il mondo carcere è un problema più ampio di quello che percepiamo, e soprattutto la narrativa a volte è troppo feroce, altre arriva in maniera falsata e a risentirne è la società tutta. Il sistema penitenziario esige tanto interventi in urgenza, quanto azioni di programmazione nel medio lungo periodo. Penso al sovraffollamento, ai suicidi, alle strutture, alle criticità dei soggetti psichiatrici e non solo, al tema del trattamento, al reinserimento, al lavoro, ma non trascuro assolutamente i numeri della polizia penitenziaria, le specificità dei ruoli, al necessario supporto che meritano, alla formazione da ripensare in ragione di una pedagogia criminale sempre più mutata».
– Cosa le hanno insegnato i tanti colloqui in carcere con i detenuti?
«Che il settore penitenziario va ripensato. Che dobbiamo essere tanto rigorosi quanto umani. Garantire il trattamento nell’inderogabile osservanza delle regole. Più ambiziosi fuori nel promuovere una giustizia giusta, e meno individualisti al fine di realizzarla concretamente. Lavorare sodo sulla prevenzione, sulla cultura della legalità, sulla possibilità da dare ai giovani di scegliere da che parte stare. Investire sulle politiche del lavoro e rendere lo Stato e la legge più appetibile del potere mafioso. Dobbiamo investire con credibilità nei confronti delle giovani generazioni. Serve però un’assunzione di coscienza di gente perbene, che riesca a tenere fuori gli ambienti grigi. Sarà difficile, ma non impossibile».
– Tantissima roba, mi pare…
«Servirà lavorare con grande abnegazione, con spirito di squadra, con la competenza di chi il carcere lo conosce davvero e soprattutto in sinergia, con trasparenza e lealtà. Sintetizzo. Sono sempre più convinta che la fermezza delle regole e il dialogo responsabile con la popolazione detenuta sia lo strumento efficace, in questo momento più che mai per fermare o quantomeno arginare le importanti criticità che si vivono all’interno. Il detenuto è persona. Il confronto che tendenzialmente per chi conosce il carcere sa che può palesarsi strumentale nelle richieste deve essere gestito nella fermezza dei ruoli, e nell’inderogabile umanità costituzionale. Ribadisco, dal mio ruolo e con il grande rispetto che nutro per l’Amministrazione penitenziaria tutta, in questo preciso momento storico, il dialogo e la programmazione interistituzionale ciascuno dal proprio ruolo serviranno a garantire la sicurezza, l’ordine, i diritti, la speranza, la legalità e il necessario contrasto alla criminalità e alle mafie che ancora oggi da dentro comandano».
– Si porta dietro un ricordo forte di questa sua esperienza?
«Mi porto dentro il dolore dell’umanità reclusa. Gli occhi di chi non è stato fortunato nel nascere in una famiglia sana. La frattura di chi vorrebbe uscire dalla rete della criminalità ma per paura non ci riesce, il rischio di chi esce peggio di come è entrato. Mi porto dentro gli attacchi ricevuti ogni volta che si è lavorato a tutela dei diritti, toccando settori quali la sanità, per esempio. Ci sono interessi poco limpidi sul carcere, e dobbiamo avere il coraggio di scardinarli. Ho per fortuna anche ricordi belli di attestazione di lealtà, rispetto, solidità dei rapporti umani, indipendenza dei ruoli e solidarietà nel fare squadra contro il male, mi riferisco ad esempio alla Magistratura di Sorveglianza, alla Presidente Daniela Tortorella a cui va tutta la mia stima personale e professionale. Ho iniziato a leggere il non detto del carcere accanto a lei e alla Direttrice Patrizia Delfino. Mi porto dietro di questi anni l’importante ruolo della Polizia penitenziaria tutta, a cui i detenuti sono per legge affidati, delle Comandanti che hanno retto i difficilissimi e gravosi compiti di ordine e sicurezza in questi anni, Giuseppina Crea, Maria Luisa Alessi, Gabriella Mercurio, Giada Graziano, cito loro per rappresentanza, ma tanti sono i volti e i nomi che scorrono nella mia mente. Mi porto dentro la complessità dell’umano».
– Posso chiederle cosa sognava, da bambina, di fare da grande?
«Da bambina sognavo di fare il medico. La cura dell’altro è qualcosa che ti abita dentro sin dalla nascita. Poi invece ho studiato per diventare avvocato e da avvocato non credo di aver tradito il mio sogno originario, seppur declinato in una forma diversa di cura».
– In che senso avvocato?
«È l’aver cura dei diritti e delle tutele fuori e dentro le mure per una giustizia più giusta. Aggiungo che l’educazione, il contesto, le relazioni abbiano inciso molto. Credo che si nasca con dei “talenti” nel senso cristiano del termine e che essi vadano messi a frutto per il prossimo. Penso che serva una nuova dimensione di pensare e concepire il diritto. Dobbiamo realizzare un umanesimo giuridico che si impone alle porte delle nostre coscienze. Serve ripartire dalla Deontologia del Fondamento».
– Le materie che più l’appassionavano a scuola?
«Tendenzialmente tutte, sono una curiosa. Mi piace molto leggere, e mi piace analizzare e verificare ciò che apprendo tanto nello studio quanto nella vita. Se dovessi fare una cernita, le direi matematica, religione, italiano, storia e filosofia. Scrivere è stata sempre la mia passione, è un modo di trasmettere sui fogli bianchi della vita una narrazione che resti per sempre. Ricordo ancora quando vinsi nel ’95 il primo premio letterario alla memoria del Prof. Richichi quale martire della libertà, per un componimento sul tema appunto della Libertà. Vede che era forse tutto scritto?».
– Che futuro immagina per la sua vita professionale? Ancora carcere?
«Lei ha parlato prima di risposta evangelica. Credo sia tutto scritto, e il caso non esiste. Sicuramente l’auspicio è continuare a dedicarmi al settore penitenziario per cui ho studiato tanto e mi sono specializzata, sono consaORI DEIciascuno chi può e chi deve è chiamato a fare la sua parte».
– Che famiglia ha alle spalle? Intendo dire sorelle? Fratelli?
«Ho una famiglia solida. Ho la fortuna di essere nata in una famiglia sana che mi ha trasmesso valori forti, ma soprattutto mi ha dato l’opportunità di realizzarmi. Mia madre e mio padre mi hanno educata al senso del dovere e del rispetto degli altri. Sono valori che oggigiorno vengono puntualmente traditi in nome del raggiungimento di qualche fine egoistico. Di tutte le domande questa, mi creda, è la più difficile. Tendo a non parlare mai di loro, è il mio senso di protezione che scatta immediato. Da mio padre ho ereditato il rumore degli sguardi, è un uomo molto buono ma fermo. Non parliamo molto, non è mai stato necessario. Mia madre è il mio riferimento di donna. Una forza e una tenacia determinanti per la mia crescita. Una donna profondamente cristiana, un’insegnante, una mamma in ogni circostanza, mi ha trasmesso il fortissimo senso del dovere e dell’impegno. Non è stata una madre permissiva, ci siamo sempre dovuti guadagnare tutto io e i miei fratelli. Un giocattolo andava meritato, prima dovevi portare buoni voti a casa e ha sempre tenuto moltissimo alla condotta a scuola e nella vita. Siamo tre figli e i miei fratelli sono le mie ali. Siamo molto uniti. Mio fratello è la roccia nella quale faccio molto affidamento, un uomo di poche parole, ma giuste: una sua solita frase è ricordati di affrontare le difficoltà con il sorriso e persevera. Mia sorella è la più piccola di casa, la bellezza del rapporto tra sorelle te lo godi nella fase adulta. Una complice, una confidente, una consigliera fidata. Ha una spiccata sensibilità ben celata da risolutezza e rigore. Entrambe siamo impegnate nel mondo della giustizia. Mio fratello è sposato, a discapito di credenze popolari, ho un ottimo rapporto con la mamma dei miei nipoti. Loro, infine, ma mai per ultimi sono il sorriso quando rientro a casa, il ristoro da ogni fatica, la domanda a ogni sacrificio: non per cosa, ma per chi?».
– E i nonni?
«I nonni sono stati determinanti nella mia crescita. Ho accennato dell’importanza della trasmissione dei valori forti. Una non l’ho mai conosciuta ed è la nonna da cui ho ereditato il primo nome per volontà di mia madre che la perse troppo giovane. Gli altri tre ho avuto la fortuna di godermeli fino all’età adulta. Mi mancano, ma li ricordo con il sorriso sempre. So di essere stata fortunata perché mi hanno trasmesso valori che contano e che spesso purtroppo non ritrovo più, o raramente. Dovessi raccontarle una frase che spesso mi viene in mente della nonna che mi cresciuta: ricordati quando esci da casa mani e capelli sempre in ordine. La penso e sorrido era il suo senso di compostezza e di dignità, oggi banalizzeremmo sull’apparenza».
– Avvocato, come e dove trova lo spazio per una sua vita privata?
«Su questo sono poco diligente nel senso che ho poco spazio per me. Da quattro anni non riesco a dedicarmi molto tempo. Garantire i diritti è tra i valori più alti del nostro Stato, io ho sentito di volermi dedicare nelle modalità e con i tempi necessari, lo rifarei. Questo inevitabilmente mi ha portata a sottrarre tempo alla mia vita privata. Un richiamo che rivolgo a me stessa. Per contro, il mio senso del dovere prevale su tutto e non mi pesa affatto quello che faccio o le scelte che ho preso. Sarà che sono cresciuta con il forte esempio di papà che mi ha educata al lavoro, al silenzio a fare bene il bene, alla serietà nel fare le cose. Oggi sono una donna che non si pone il problema della vita privata se questa era la sua domanda. Ciò che è pensato per noi troverà il modo di raggiungerci».
Sorride e con simpatia mi risponde come Giorgia al festival di Sanremo: “non ti conviene, ho un carattere difficile”.
– Mi dice qual è l’ultimo libro che ha letto e che non parla di detenuti?
«Mi fa sorridere questa domanda. Appaio forse una donna monotematica? Le confesso che divoro qualsiasi libro. Negli ultimi anni ho dato maggiore spazio a quelli delle grandi tradizioni spirituali. L’ultimo libro che ho letto è Dare cuore a ciò che conta. Il Buddha e la meditazione di consapevolezza. Anzi mi consenta di condividerle una frase: “METTÀ, LA GENTILEZZA AMOREVOLE”. C’è una grande domanda che attraversa le nostre esistenze, che ne svviamo consapevoli o meno: qual è lo scopo della nostra vita? Io penso sia quello di realizzare la felicità. […] Dal più profondo del nostro essere noi desideriamo essere felici. […] Una buona condizione materiale non è sufficiente. Nessun oggetto, per quanto bello e prezioso, ci appaga completamente. Abbiamo bisogno di qualcosa di più profondo, che mi piace definire affetto umano. […] Così, quando prendiamo in esame le nostre origini e la nostra natura, scopriamo che nessuno nasce libero dal bisogno di amore. In ultima analisi, il motivo per cui l’amore e la compassione portano la felicità più grande risiede semplicemente nel fatto che la nostra natura li preferisce a ogni altra cosa”».
– E l’ultimo concerto di musica che è andata a sentire?
«Fuori città confesso sia passato troppo tempo effettivamente. Sono stata al concerto dei Coldplay a Milano, San Siro luglio 2017; a Reggio l’ultimissimo quello tenuto dalla orchestra del Conservatorio Cilea in occasione dei festeggiamenti per il 210° anniversario della fondazione dell’Arma nella riqualificata piazzetta dell’Integrazione dei Popoli ad Arghillà. Voglio in questa occasione però ricordare, perché ho particolarmente gradito la scelta delle musiche e la direzione di Beatrice Venezi, del concerto di Natale dell’Università Mediterranea. Mi ha chiesto l’ultimo ma non il primo. Glielo racconto io: il primo concerto avevo 4 mesi, 14 luglio 1985 Claudio Baglioni a Reggio Calabria comodamente dal passeggino. È e rimane il mio cantante italiano preferito. Il prossimo concerto Ultimo: vorrei andarci con mia sorella, ne parlavamo proprio qualche giorno fa».
– E l’ultima scampagnata con vecchi amici e amiche del cuore?
«Scampagnata molti anni fa, credo nel 2011, con gli amici di sempre quelli con i quali sono cresciuta. Abbiamo tutti preso poi direzioni diverse, ma sappiamo di esserci sempre, gli uni per gli altri. Sono pur sempre quella bambina cresciuta a pane e parrocchia, e non lo dimentico perché è a quella bambina che tengo fede ogni giorno. Non frequento molte persone, esco poco. Il tempo però per le amiche cerco però di trovarlo sempre, anche se anche loro sono molto impegnate».
– Posso dirle grazie, Avvocato?
«Per che cosa, scusi?»
– Per le cose che mi ha raccontato, e soprattutto per il modo come me le ha raccontate. Grazie davvero.