L’OPINIONE / Raffaele Malito: Lo spettro del Jobs Act

di RAFFAELE MALITOC’è uno spettro che si aggira nel frastagliato mondo della sinistra radical-massimalista- pseudo-sindacale e populista d’Italia: non il comunismo contro cui Carlo Marx immaginava si fossero alleate le potenze della vecchia Europa per contrastarne l’ascesa, ma-  sicuramente meno escatologico, per quanto riguarda i destini finali dell’uomo e dell’universo- la battaglia, cioè,  contro lo spettro  del Jobs Act  da  abolire con l’autoreferendum, promosso dal futuribile governo CLS (Conte-Landini-Schlein).

Questo tema entra a pieno titolo nei paradossi della politica italiana: Come fanno a stare insieme  i protagonisti di questa incredibile e forsennata stagione politica  un partito come il PD che ha elaborato, proposto, approvato, nei due rami del Parlamento, il Jobs Act (250 i deputati a favore, solo tre contrari, due astenuti, quaranta gli assenti con Gianni Cuperlo, che si dimise da presidente Dem, 105 senatori) e Landini che fa il suo mestiere di impedire qualsiasi progetto riformista, che non è, e non dovrebbe essere, quello del Pd, a meno che il leader della Cgil  non coltivi l’idea di una discesa in campo e, Conte, il capo dei Cinque Stelle che  insegue i problemi sociali solo con l’assistenza e la crescita senza limiti dei sussidi statali. Sul Jobs act ha detto parole definitive la Corte Costituzionale per quanto riguarda  i licenziamenti discriminatori  e la tutela economica del lavoratore che abbia perso l’occupazione.                                                                                                              

La domanda che si pone è: il Jobs Act è una riforma del lavoro  pensata da una sinistra riformista  o è complice, consapevole o inconsapevole del padronato e del capitale che sfrutta il lavoro? Essa è stata pensata e studiata da studiosi e intellettuali di sinistra: un diritto al lavoro che prometteva l’inamovibilità dalla assunzione alla pensione era pensabile nell’economia manifatturiera del novecento ma non era più in grado di mantenere le sue promesse in un’epoca di maggiore volatilità  e globalizzazione dell’economia, ma anche del ciclo di vita dei prodotti e dell’impresa. In un sistema produttivo in cui  alla catena di montaggio  si sostituiva  l’economia della conoscenza e della digitalizzazione, il cambiamento dei sistemi di lavoro. In un saggio molto apprezzato e di successo, “Sinistra!”, Aldo Schiavone affronta i grandi cambiamenti     determinati dalla trasformazione della logica capitalistica: siamo immersi- scrive Schiavone nella terza, grande rivoluzione strutturale del mondo contemporaneo.

Dopo quella agricola e quella industriale, che generarono le città, la produzione, le classi  e le ideologie , oggi la gigantesca trasformazione tecnologica ha mutato i paradigmi sociali in profondità. La logica capitalistica moderna- scrive Schiavone- che ha ridotto la quantità di lavoro manuale necessario per produrre merci per lo più “immateriali”, ha anche ridimensionato la classe operaia: dal cuore delle produzioni più importanti, grazie sempre alla nuova tecnica operaia: dal cuore delle produzioni più importanti, grazie  sempre alla nuova tecnica  ha costruito un diverso rapporto con i nuovi lavori, nello stesso modo in cui l’avvento del  capitale industriale aveva fatto sparire i contadini  dalla scena della grande storia; la classe operaia ha perduto drammaticamente centralità e valore, sociale ed economico, una maniera storica di lavorare e di instaurare, attraverso il lavoro, rapporti sociali, allo stesso tempo costitutiva della modernità e del suo modo di pensare, e che aveva finito con l’includere, nel riflesso della sua presenza, anche chi non la praticava.                                                                     

Una devastazione sociale, culturale ed economica che negli anni  ottanta-novanta ha conosciuto anche la Calabria con la chiusura e il fallimento di ogni prospettiva di sviluppo industriale: fine della classe operaia,  nella cittadella industriale di Crotone, con la chiusura  degli storici insediamenti della Pertusola Sud, della Montedison, della Cellulosa Calabra; il fallimento del calzaturificio di Castrovillari;la chiusura dello stabilimento tessile della Marlane di Praia a Mare;  la  fine di ogni sogno industriale e operaio in provincia di Reggio con il nucleo di produzione tessile a S.Gregorio, la Liquichimica e le Officine di grandi riparazioni ferroviarie a Saline Joniche, il V Centro siderurgico a Gioia Tauro mai nato che ha, però, lasciato con tutte le enormi potenzialità di sviluppo nazionale e internazionale il grande porto, il più grande, per il transhipment, del Mediterraneo.

È stata, anche per la nostra regione, la fine di un’era industriale e di una nuova possibile fase economica ma anche di una classe sociale che aspirava ad essere importante. Così i lavori moderni sono – ritornando alle osservazioni di Schiavone – granulari, individualizzati, competitivi, caratterizzati da legami deboli e fluidi quando non del tutto inesistenti: che separano e distinguono, non uniscono e non creano linguaggi e trame sociali comuni. Il fenomeno della grande astensione dal voto oltre che un allarme per la tenuta della democrazia, ne è la prova più evidente e clamorosa.   

Ma l’universo delle decisioni si è, comunque, spostato su scala continentale e globale.                                                                                                Altro che – viene da dire – il concetto di nazione e di confini, tanto caro alla destra. Questo il pensiero di un intellettuale  e studioso che guarda al futuro da sinistra, una sinistra al passo dei tempi che viviamo. Quanto sono lontani dal  proporsi  di affrontare questi giganteschi cambiamenti i protagonisti della battaglia contro il Jobs Act e  della sua abolizione con il referendum? Nel  merito vale la pena ricordare alcuni punti  ispiratori della legge che ha prodotto oltre un milione di nuovi occupati e che ha posto fine alla barbarie cui erano sottoposte le donne con le dimissioni, firmate in bianco, dal lavoro nel caso di attesa di un figlio.

Il principio a cui si ispira è quello della flexcurity che mette insieme la flessibilità dei contratti di lavoro a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato evitando che, per le imprese, un contratto a tempo indeterminato sia un legame sempiterno anche  quando le condizioni di mercato di sbocco non lo permettono  garantendo la sicurezza, per il reddito del lavoratore che si dimette o viene licenziato,  con i sussidi di disoccupazione di carattere universale finanziati dalla tassazione, appositamente incrementati dal Jobs Act. Insomma, protezione  dei lavoratori per se stessi e  non per i posti lavoro che  risultassero insostenibili da aziende e settori industriali che non creano valore. 

L’economista Sergio Ricossa  osserva  che la contabilità è la base dell’economia politica: un’impresa non crea valore, anzi lo distrugge, se i suoi ricavi sono stabilmente e largamente inferiori ai  suoi costi. Come fa un’azienda o un settore a sopravvivere se se distrugge valore? Schlein, Landini, altri dirigenti Pd pentiti, sulla via di Damasco, e Conte, se si distrae dalla cieca difesa del reddito di cittadinanza, dovrebbero spiegare – si guardano dal farlo- che soltanto sussidi continui da parte dello Stato possono permettere di colmare, anno per anno, lo squilibrio distruttivo tra costi e ricavi. Siamo allo statalismo di cultura politica cinese o di paese autoritario senza logica di mercato.                                                                            

Lo spettro del Jobs Act si aggira, dunque, soprattutto, nelle stanze del Nazareno e mette in grande imbarazzo tutti, o quasi, quei dirigenti di primissimo piano, ex ministri, ossessionati, perennemente, dal renzismo,  che, avendo perso la memoria, hanno dimenticato l’enfasi con la quale ne celebrarono l’approvazione e adesso devono sostenere  e combattere per un referendum contro se stessi, per di più solo ipotizzato, che a guardare  il calendario, sembra difficile da realizzarsi. E, su questa vicenda, sembra riproporsi un ennesimo paradosso, con uno scambio  delle parti in commedia e della materia su cui impegnarsi, tra Il Pd e i Cinque Stelle: Jobs act, reddito di cittadinanza e salario minimo. Indossati panni  nuovi e diversi per colore e qualità dei tessuti, sostengono e dicono cose diverse sulle quali erano e sono impegnati: chi (il Pd) ha detto sì al Jobs act, oggi dice no; chi  ( M5S) diceva no, oggi dice sì. Chi (il Pd) avversava il reddito di cittadinanza oggi lo rivendica come positivo; non diversamente la posizione su un altro grande tema, il salario minimo sul quale Conte, Schlein e Landini  vorrebbero costruire il campo, non si sa, quanto largo  e probabile.

La questione è semplice e dirimente: il Pd del nuovo corso Schlein è pienamente protesa a costruire un partito di sinistra-sinistra che non comunica  con l’area riformista e corre con il radical-populista Conte per un’alleanza, destinata a fare la fine del laburista inglese Corbyn, scomparso dalla scena politica. Una sintonia che si manifesta e si estende sul no all’aumento, al 2%, della spesa militare, sulle titubanze e riserve pseudo-pacifiste sulla guerra in Ucraina.

La prossima settimana si torna al Nazareno e Schlein trova un partito che le chiede di riunire la direzione nazionale per definire, in particolare, le scelte sul Jobs act, sulla contestata adesione acritica alle iniziative della Cgil: nel Pd sono  sempre di più quelli che  chiedono di non andare a rimorchio della Cgil e del suo leader che pare loro come il papa straniero che l’asse tra Schlein e Conte potrebbe benedire per assecondarne le velleità politiche.

Dopo l’incontro con Meloni sul salario minimo, infatti, Conte, Schlein e Landini hanno parlato la stessa lingua, confermata  da quella, diversa, usata da Calenda. È la conferma di un’intesa perfetta della sinistra radical-massimalista, populista e pseudo-sindacale dalla quale l’area politica riformista,  liberaldemocratica e un grande sindacato come la Cisl hanno preso le distanze. (rm)