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L'OPINIONE / Filippo Veltri: Giornalisti, chi fa la storia

L’OPINIONE / Filippo Veltri: Giornalisti, chi fa la storia

di FILIPPO VELTRI – Un paio di mesi fa ci ha lasciati un giornalista ma non di quelli notissimi, che anche i bambini cioè sanno nome e cognome (alla Montanelli o alla Scalfari per intendersi).

Questo giornalista si chiamava Riccardo Ehrman ma, al contrario di quei due succitati e di pochi (o tanti) altri, lui ha fatto la storia e la sua vicenda umana e professionale credo vada raccontata e divulgata per far capire cosa significa essere dei bravi giornalisti, cioe’ dei veri raccontatori della storia, della cronaca che diventa storia. Soprattutto in un momento in cui tanti, troppi, parlano e straparlano contro i giornalisti, senza sapere, magari solo per desiderio di vendetta.

Tra l’altro Ehrman ha anche dentro – come vedremo alla fine di questo scritto –  un pezzo importante di storia della Calabria.

Dunque: quella sera di fine ottobre-inizi di novembre del 1989 – tutto sembrava tranquillo, almeno in quel quartiere di BerlinoRiccardo Ehrman viveva in un falansterio realsocialista sulla Karl-Liebknecht-Strasse, la grande arteria che proseguiva, verso Alexanderplatz, il bel viale Unter den Linden, ma che non era per niente bello. Era buio perché le luci del centro storico arrivavano appena e faceva freddo. Riccardo lavorava per l’ Agenzia Ansa e quella sera aveva invitato a cena (“non una cena di lavoro: vieni ad assaggiare la cucina di mia moglie”) Paolo Soldini, che era il corrispondente dell’ Unità, organo dell’allora PCI.

Lasciamo la parola proprio a Soldini che ha scritto un meraviglioso ritratto su Strisciarossa: «…io, come un cretino, mi ero perso. Avevo dimenticato metà delle indicazioni che lui mi aveva dato per raggiungere il suo appartamento: il tale blocco, al tale piano, il corridoio che va a destra (o a sinistra?). Niente, non avevo preso appunti e quel poco che ricordavo non mi aiutava. I telefonini, allora, esistevano solo sui giornali (quelli dell’altra Germania non di questa) come un’invenzione che forse, un giorno, avrebbe sfondato. Telefoni pubblici non ce n’erano, per i corridoi chilometrici su cui si aprivano gli usci degli appartamenti non c’era anima viva e ogni tre minuti, come usa nei paesi del nord e massimamente nella risparmiosa DDR, la luce si spegneva e bisognava raggiungere a tentoni il prossimo interruttore. Sinceramente non ricordo come feci a trovare l’appartamento, ma una volta entrato in casa tutto cambiò».

«C’era un bel caldo, bei quadri alle pareti, molti oggetti portati da molti viaggi, libri. Riccardo era gentilissimo e un po’ cerimonioso, la moglie più di lui. Mangiammo – mi pare di ricordare – cibi spagnoli perché Riccardo e Margherita si sentivano spagnoli quasi quanto italiani e amavano Madrid molto più di Berlino. Non è vero che non si parlò di politica: Ehrman mi spiegò che succedeva nella Spagna postfranchista, mi fece una vera e propria lezione di cultura politica applicata spiegandomi come e perché i media spagnoli godessero di ottima salute e fossero pieni di bravi giovani giornalisti. Vedi, è la generazione che è cresciuta negli ultimi anni della dittatura: sapevano che presto sarebbe finita e allora studiavano, si preparavano, avevano una mèta. Poi, ovviamente, passammo alle cose tedesche. Dal giorno della visita a Berlino di Gorbaciov era successo di tutto: Honecker si era dimesso e il governo di Willy Stoph vacillava, a Berlino e a Lipsia c’erano manifestazioni sempre più grosse…Ma il Muro era ancora là e nessuno, neppure noi, potevamo pensare quello che nel giro di qualche giorno sarebbe stato aperto».

Nessuno lo pensava neppure la sera del 9 novembre. 

«Tutti – prosegue il racconto di Soldini – oggi avranno visto le immagini sfocate della conferenza in cui il portavoce del Comitato Centrale della SED Günter Schabowski, probabilmente senza rendersene conto disse che il muro non era più il Muro perché dall’indomani qualunque cittadino dell’Est avrebbe potuto attraversarlo. Riccardo era arrivato tardi al Pressezentrum perché non aveva trovato un parcheggio per la macchina. Così, poiché tutte le sedie erano occupate, si era appollaiato su un angolo della pedana su cui era il tavolo di Schabowski. Per fare le sue domande doveva voltare la testa e piegare il busto».

Disse così: “sono Riccardo Ehrmann, corrispondente dell’agenzia di stampa italiana Ansa. Non crede, signor Schabowski, che dovreste fare l’autocritica per aver dato nei giorni scorsi disposizioni sugli espatri dalla DDR che sono state criticate da tutti?”. E Schabowski: “No, signor Ehrman, non dobbiamo fare l’autocritica, ma, a proposito degli espatri, ho qui le nuove disposizioni”.

Tirò fuori dalla tasca un foglietto e lo lesse, dando chiara l’impressione, che lo stesse leggendo per la prima volta: i cittadini della Repubblica democratica tedesca che vogliono andare all’ovest potranno farlo senza che sia necessario un visto per uscire e un visto per rientrare. Ehrman fece la domanda storica: “quando entrerà in vigore questo nuovo regolamento?”. Momento di sconcerto. Schabowski pare cercare disperatamente una risposta che nel foglietto non c’è e poi azzarda: “Per quanto ne so io da subito”. Ab sofort in tedesco: due paroline che hanno cambiato il mondo. 

Un paio d’ore più tardi la Dpa, l’agenzia di stampa della Repubblica federale batte un take in cui si racconta che il corrispondente dell’agenzia italiana Ansa è stato riconosciuto al posto di frontiera della stazione della S-Bahn a Friedrichstrasse e portato in trionfo. Scrive Soldini: “provo a immaginare la scena, e provo ancor oggi perché – che io sappia – riprese di quel trionfo non ci sono. O almeno io non le ho viste. Come avrà reagito, che faccia avrà fatto mentre lo issavano sulle braccia quel collega così misurato, così distinto?’’.

  L’epico racconto di Paolo Soldini cosi’ si chiude: «Da quella sera Ehrman era l’eroe dei media, al centro dell’attenzione. Ma la cosa sembrava disturbarlo non più di tanto e lui continuava il suo lavoro. Bene, come lo aveva sempre fatto. Aveva entrature importanti nella nomenklatura in rottamazione e piazzò un paio di scoop clamorosi sui retroscena di quella disastrosa – per il regime – serata del 9 novembre. Fra l’altro sulle manovre che si erano svolte al ministero dell’Interno, dove, raccontò lui, c’era chi sosteneva che il famoso foglietto di Schabowski era stato scritto ad arte da un funzionario che aveva ben calcolato i suoi effetti. Poi lasciò Berlino per Nuova Delhi e infine, come aveva sempre desiderato, nella “sua” Madrid, dove è rimasto fino alla morte, sul finire del 2021, a 93 anni, dopo aver diretto l’ufficio di corrispondenza in Spagna».

Ehrman era un fiorentino di origini ebraico-polacche che a dodici anni i fascisti avevano rinchiuso nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, proprio da noi, nel campo che abbiamo fatto diventare un simbolo a suo modo grazie all’impegno di Spartaco Capogreco. Era pronto per essere consegnato ai nazisti se non fossero arrivati gli americani.

Questo è stato, dunque, un vero giornalista. Alla faccia – consentitemi un moto finale di orgoglio – dei tanti (o pochi) che oggi si sentono Scalfari o Montanelli! (fv)