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A Napoli presentato il libro del calabrese Domingo Notaro

A Napoli presentato il libro del calabrese Domingo Notaro

Lo scorso 22 ottobre, a Napoli, all’istituto di Studi Filosofici, è stato presentato il libro di poesie “Mi buenos aier que rìo” del calabrese Domingo Notaro.

Il libro, edito da La Scuola di Pitagora, sono state scritte in italiano e spagnolo nell’arco di due anni tra Buenos Aires e  Roma. 

Vi hanno preso parte oltre all’Autore; Antonio Filippetti, scrittore, critico, saggista e giornalista;  L. Rino Caputo, storico e critico della Poesia, già Ordinario di Letteratura Italiana, Università degli Studi di Roma  “Tor Vergata”; Mariarosaria Colucciello, Professore Associato di Lingua, Cultura e Istituzioni dei Paesi di Lingua  Spagnola, Università degli Studi di Salerno; Massimo Arcangeli, linguista, sociologo della comunicazione,  Professore Ordinario di Linguistica Italiana, Università degli Studi di Cagliari. 

Le poesie sono state lette dall’attore Antonio Scalici. 

Domingo Notaro, pittore, scultore e poeta, nato a Palermiti (CZ) e cresciuto a Buenos Aires, nel suo recente  viaggio in Argentina è profondamente colpito dallo scarso numero di persone che visitano il Museo y Sitio de  memoria della Ex-Esma a Buenos Aires. La Escuela de Mecánica de la Armada era una delle caserme più  importanti del sistema militare argentino che durante tutti gli anni della dittatura, dal 1976 fino al 1983, funzionò come centro clandestino di tortura di stato. Qui sono stati torturati e uccisi migliaia di cittadini  considerati oppositori politici, perfino sottratti i figli delle prigioniere stuprate e cancellata ogni traccia delle vittime. 

Agli alberi di Buenos Aires, silenti testimoni della storia, il Poeta in questo libro affida la memoria. 

Il libro riporta in copertina la grande opera “Guerra / Rivoluzione” che Domingo Notaro dipinse nel 1973,  interpretando con ampio anticipo i segnali della tragedia che avrebbe eliminato oltre 30.000 giovani, ovvero  due generazioni di ragazze e ragazzi: i desaparecidos.  

L’autore è grato alle Madri (e alle Abuelas, le nonne) di Plaza de Mayo che ogni giovedì pomeriggio continuano  a manifestare chiedendo notizie di figli e nipoti ancora non ritrovati. 

Rino Caputo, nella sua prefazione al libro, evidenzia che «al primo sguardo il flusso della scrittura di Domingo  Notaro può farci pensare per un istante al bel calligramma ovvero alla parola che si fa disegno, ma già in  passato egli stesso acclarò questa ipotesi […] L’Autore, invece, apre la virtualità del linguaggio poetico dal  profondo a ulteriori affacci estendendolo fino al corpo vivo e sempre drammaticamente lacerato del mondo, dall’Argentina all’Europa e all’Italia, perché la sua storia esistenziale ha lambito sempre rischiosamente il confine tra vita e morte. Perciò gli ‘alberi’ di Buenos Aires, testimoni silenti delle atrocità della dittatura militare  argentina, in anni solo apparentemente lontani, guardano il ‘rio’ (l’immenso Río de la Plata), abissale  negazione di due generazioni di giovani vite, e portano fino a noi il dolore e la memoria, la memoria del dolore,  il dolore della memoria».

«E, tuttavia, oltre ogni perdita e oltre ogni sconfitta – continua la prefazione – ancora una volta è la Fenice  l’immagine definitiva di Notaro, che fa risorgere la Vita nell’Arte. Come ha detto Marco Bechis, che traumi e  tormenti ha condiviso con Domingo Notaro nella sua intensa esperienza umana e intellettuale, le poesie di  questo libro “sembrano danzare sulla pagina bianca come entità aliene che visitano la terra, per fecondarla, o  forse per aiutarla a sopravvivere a noi umani». 

Nel suo intervento a Napoli, Rino Caputo ha evidenziato che «Domingo Notaro, come avrebbero detto i nostri antichi Ut pictura poësis, è l’artista completo, poeta e pittore. Non si sa dove finisce la pittura nella poesia e  la poesia nella pittura; basti pensare a questo suo libro che è fatto con la tecnica che ai primi del ‘900 i grandi  artisti, pensiamo ad Apollinaire, ci hanno insegnato, i calligrammi, ma i calligrammi lo facevano anche i poeti  dell’ellenismo alessandrino, dunque in Domingo Notaro vi è la somma di questa tradizione, ma non è un puro  esercizio di stile quello di Domingo Notaro, perché questo libro gronda tragedia, è lo sguardo del poeta-pittore  rivolto certo a un suo momento autobiografico ma è la biografia di molti, è quella dei desaparecidos argentini, dei suoi coetanei che venivano presi e gettati nel Río de la Plata».

«Ecco, Domingo – ha continuato – che ha schivato per poco  questa tragedia, non l’ha mai dimenticata e pur negli esiti artistici e poetici letterari di grande livello ecco qui  che ce la riconsegna come monito nel presente a che nel futuro tutto ciò non si ripeta. L’arte ha questa  funzione, segnare un punto di riferimento per la nostra umanità».

«Ho letto per tempo il libro, ho accompagnato la sua gestazione, e la mia prefazione più che una guida è un  deposito delle mie impressioni che potessero aiutare l’incontro del lettore con questo testo. Ma vorrei partire  da una prima considerazione che è poi il rigo iniziale della mia prefazione: “La poesia di Notaro non appartiene  a gruppi, generazioni o scuole».  

«Certo Domingo Notaro si è confrontato con la sua generazione ma anche con altre generazioni e modalità  varie, con la tradizione come con l’avanguardia, e lo ha fatto essendo contemporaneamente poeta e pittore,  quindi artista creativo dell’arte visiva e della parola. Non vi è dubbio che Domingo Notaro sia artista dentro  questo universo della poesia. È un testo che risente di una scelta di stile da parte dell’autore il quale decide  che la forma del calligramma, soprattutto la forma del deposito visivo della testualità verbale, ha importanza». 

«Quindi – ha continuato Caputo – il significato della poesia non sta soltanto nel soggetto ma anche nella forma, ovvero la forma è essa stessa contenuto. Domingo è uomo pieno del ‘900 non solo per quanto riguarda il rapporto tra lezione  dell’avanguardia nell’arte ma anche a livello di poesia si è confrontato con la grande poesia internazionale,  europea, italiana. E mi pare importante sottolineare la scelta che ha fatto Domingo di esprimersi nelle due  lingue».

«È già stato detto, ma lo voglio dire ancora più esplicitamente – ha continuato – l’opera di Domingo Notaro riconduce a  un percorso che, consapevole o no l’autore, lo mette dentro una tradizione illustre e cioè quella di combinare una sintesi tra due elementi che un poeta ha sempre di fronte: piacere e divertirsi, sia loro che gli altri, oppure  semplicemente giovare. È il tema dell’impegno, che in Domingo emerge anche attraverso un’operazione di  sottrazione, di essenzialità, di asciuttezza, nonostante la fantasmagoria della pagina anche a livello visivo.  Tutto questo è messo al servizio di un’esigenza profonda: dare voce a quanto ancora oggi gronda dolore,  sofferenza, e che contrasta con la visione umanistica del mondo di cui la poesia si è sempre incaricata di esprimere». 

«Un libro formalmente elegantissimo – ha concluso Caputo – e non solo per la veste editoriale e grafica, ma in particolare per l’istanza  che permette proprio grazie a questa raffinatezza di far emergere la consapevolezza che per il poeta contano  le parole per dire anche il dolore e anche la sofferenza. Ma non basta sentire la sofferenza e il dolore e volerli  esprimere, vi è appunto bisogno della poesia, la memoria che si fa presenza perché nel futuro non vi sia la  necessità di vivere altre tragedie». 

Mariarosaria Colucciello, nella sua testimonianza, scrive «Sangue, fiato e saliva sono colori e parole per  Domingo; i suoi sentimenti sono oggettivati in tele e poesie che espongono la sua ipseità più intima del  disorientamento del presente. Ogni pennellata o intervallo lessicale appartiene già a ieri, mentre la tela e la  poesia diventano il futuro imprevisto di un domani che si tinge di colori e di voci inesplorate del futuro». 

Nel suo intervento a Napoli, Mariarosaria Colucciello ha ricordato che «L’argentina degli anni ’70 ’80, è la base  contestuale dei calligrammi del Maestro Domingo Notaro che vive attraverso quest’opera, che può essere  considerata di autotraduzione – infatti il Maestro Domingo Notaro è calabrese, è nato a Palermiti, ma ha  vissuto a lungo anche a Buenos Aires».

«Attraverso questi capolavori di autotraduzione (ovvero quando lo stesso  autore traduce un testo di partenza in un testo di arrivo) – ha proseguito – produce un’opera d’arte che racconta i tremendi anni  della dittatura argentina, iniziata nel 1976 e terminata nel 1983, con circa 30.000 desaparecidos. Tra questi  desaparecidos vi erano tantissimi italiani, così come tra i perpetratori vi erano tanti italiani. E in questi  calligrammi gli alberi sono i protagonisti: araucarie, pioppi tremuli, magnolie sono i protagonisti silenziosi ma  vivi di una tragedia che attanaglia la popolazione argentina ma sempre con la speranza che tale tragedia possa  terminare, come poi sarebbe successo qualche anno dopo». 

«Ho parlato prima di autotraduzione. Ora, passare da una lingua all’altra implica sempre necessariamente un rischio. Cosa accade in un autore quando decide di abbandonare la propria lingua e decide di scrivere in una  lingua differente dalla propria, che cosa si perde in questo passaggio e che cosa si acquista? Non si tratta di  avere più o meno dimestichezza nella lingua quanto essere all’interno di quella lingua, imparare a interpretare  il mondo alla luce di una nuova esperienza….Sono giunta alla conclusione che questo processo richiede sempre una rinascita, non una resa fedele del testo all’originale ma una sua nuova rinascita».

«I 28 calligrammi che compongono questo maestoso e prismatico mosaico di parole – ha detto ancora –nel quale si rifrange e si  frantuma appunto una città, Buenos Aires, che fa sfondo al titolo e all’opera stessa, insieme al fiume Río de la  Plata, confine tra l’Argentina e l’Uruguay, e che non è soltanto un limen geografico e fisico ma è al contempo  una linea spaziale che diventa insieme testimoniale e temporale, quando prorompono i protagonisti di questa  raccolta: gli alberi di Buenos Aires che ricordano a chi passa la storia di una città e di un Paese lacerati dalla  dittatura militare degli anni ’70-’80». 

«Ancora oggi le Madri e le Nonne dei desaparecidos continuano a chiedere di conoscere la sorte dei loro figli  e nipoti. È questa l’Argentina che Domingo racconta attraverso Araucarie, Pioppi tremuli, Magnolie, Ombú che  si susseguono senza mai sovrapporsi, prendendo forma in calligrammi – ha detto ancora Colucciello – che sono icone intagliate sulla pagina,  opponendo il chiarore dei versi alle lacune e al mutismo imposto dalla dittatura. Alberi, spettatori muti del  rumore che circonda queste anime vegetali che lasciano cadere schegge di rami e foglie secche su una città  che attende il cambiamento. E i colori e le parole di Domingo sono sempre comunque quelli del domani, solo  colori e parole della speranza, impregnati delle colline del suo paese natale, Palermiti, e della terra che l’ha  ospitato, Buenos Aires, presenti consciamente e inconsciamente dalla prima all’ultima delle sue opere d’arte  sottese appunto nelle pieghe di questi 28 calligrammi incantevoli composizioni senza virgole, senza parentesi,  senza punti fermi. L’Arte non ha epilogo ma solo validità per chi ha il coraggio di vederla». 

Massimo Arcangeli nel suo intervento ha evidenziato che la poesia di Domingo Notaro «… è una poesia che  scorre, che si vede e non si guarda, perché è fatta proprio di slanci e lampi, che ti scorre sotto gli occhi e ti fa  capire quale è proprio forse la sua componente più forte, cioè l’idea che non è importante o necessario  raggiungere una méta ma nemmeno viaggiare, piuttosto resistere al tentativo di muoversi incessantemente  verso un luogo per godere in quel momento, in quello spazio, tutto quel caos che praticamente diventa  relativamente ordinato….. Quello che questa poesia ti trasmette è che ti devi prima svestire dei panni, che  siano critici o accademici, per poterla apprezzare, perché è una poesia che è in origine, ma anche in arrivo,  ingenua nel senso profondo del termine». 

Secondo Massimo Arcangeli, «Domingo resiste al linguaggio dell’odio sostituendo una parola con  un’altra, perché lui non è resiliente, non restituisce, ma resiste, in senso storico perché si porta dietro quanto  quel paese e quella storia ha in qualche modo cementato nel suo essere poeta, pittore, scultore, …però resiste bene anche perché fa di questa sua resistenza un modo per arginare ciò che in molti casi talvolta  subiamo lasciandoci andare a una reazione, qualunque essa sia, mentre in Notaro l’emozione si fa proprio  resistenza, che è una bellissima immagine perché chi resiste non dimora, non sosta, perché chi resiste è fermo  anche nel mantenere quella posizione che se non fosse così ferma potrebbe diventare una reazione  scomposta […] La poesia di Domingo Notaro sfugge da ogni luogo possibile. È una poesia controcorrente  che accompagna, non asseconda, il cambiamento con il supporto della lingua… È una poesia che agisce per  sottrazione, cosa difficilissima, perché noi assorbiamo, accumuliamo…. La poesia di Domingo cerca di restituire  qualcosa del disordine… È una poesia che implode anziché esplodere. È una poesia fatta più di vuoti che di  pieni… È una poesia che sfugge a ogni polarizzazione. Domingo è un poeta che ci aiuta più a vedere che a  guardare». 

Marco Bechis, regista, scrittore e sceneggiatore, che ha vissuto adolescente a Buenos Aires due decenni dopoNotaro, quando “le dittature si alternavano alle fragili democrazie”, nella sua testimonianza fa ciò emergere: «Da allora si sente, come me, diviso tragicamente tra l’Italia e l’Argentina, a districare trame convergenti di  divergenti orditi, senza più baricentro, con il bisogno impellente di speculare affaccio tra un continente e  l’altro» […] Una poesia «…sov-versi-va, quasi fluenti note a margine di pensieri e testi più articolati che  Domingo non vuole svelare ma solo accennare. Come se volesse lasciare al lettore uno spazio e indurlo  all’attenzione dell’immagine. Immaginare oltre la pagina, perdersi nel polisemico labirinto della parola che  sembra disegnare misteriose figure. Le sue poesie sembrano danzare sulla pagina bianca come entità aliene  che visitano la terra, per fecondarla, o forse per aiutarla a sopravvivere a noi umani»

Alla presentazione ha preso parte anche Giulia Ferrara Pignatelli Strongoli, nell’intervista ha ricordato che  l’attuale sede dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici era un tempo anche il suo palazzo in quanto apparteneva  alla nonna Giulia Serra di Cassano, la madre di sua madre.  

«Non ho molti ricordi della mia fanciullezza in questo palazzo perché non vivevo a Napoli, vivevo in Calabria,  con la sorella di mia madre che ho molto amato. A Napoli ci sono arrivata diciamo quando frequentavo la prima media. L’ultima volta che sono stata qui è stato per la presentazione di un libro su mia madre,  che risale credo a diciotto anni fa, poi non ero più tornata, ed è ora una profonda emozione essere qui. E sono  felice di essere oggi qui per Domingo Notaro, carissimo amico e grandissimo artista». (rrm)