MALADEPURAZIONE, IN CALABRIA CI SONO
ANCORA MOLTI CENTRI PRIVI DI IMPIANTI

di GIOVANNI MACCARRONECome è possibile che ogni anno si ripresenti lo stesso identico problema nella stragrande maggioranza della nostra regione?

Negli ultimi giorni ci stiamo ponendo questa domanda con una certa insistenza. Il tutto parte dai diversi maxi blitz dei Carabinieri che quasi ogni anno avvengono in Calabria sulla gestione dei depuratori e dalle recenti notizie sul mare sporco in parecchie zone costiere della nostra regione.

Tutti i cittadini calabresi sono indignati, infastiditi, esasperati (e chi più ne ha più ne metta). A questo proposito, qualche giorno fa è anche intervenuto l’ex pm Luigi De Magistris, il quale nel commentare il mare sporco in Calabria, ha tenuto ad evidenziare: “In 20 anni non è cambiato nulla, avevamo provato a fare pulizia”.

Per dirla tutta, sono passati più di 20 anni. Risale, infatti, al 21 maggio 1991 la Direttiva 91/271/Cee del Consiglio, concernente il trattamento delle acque reflue urbane (Gu L 135 del 30.5.1991, pag. 40-52). Nel 1998, per chiarire alcune norme che avevano portato a interpretazioni divergenti nei paesi dell’Ue, la Commissione ha adottato la direttiva 98/15/Ce, entrata in vigore il 27 marzo 1998.

Dall’analisi dei paesi aderenti alla Cee (ora Ue), già nel 1991 è emersa la necessità di un intervento costante e incisivo sulle acque reflue urbane, anche perché la presenza di acque reflue urbane trattate in modo inadeguato o non trattate rappresenta un grave pericolo per la salute umana.

Le acque che non vengono trattate vengono riversate nei fiumi, quindi in mare La diffusione di materiale fecale nell’ambiente (acque di balneazione e acque potabili) possono causare nell’uomo infezioni da E. Coli che provocano diarrea e dolori addominali e possono causare malattie anche molto gravi come enteriti, colite emorragica, infezioni urinarie, meningite e setticemia.

In Italia la direttiva sopra citata (che, in generale, opera in sinergia con altri atti legislativi dell’Ue e contribuisce fortemente al conseguimento degli obiettivi della direttiva quadro Acque, della direttiva Acque di balneazione e della direttiva Acqua potabile), in un primo momento, è stata attuata con il DLgs n, 152 del 11 maggio 1999 (“Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/Cee concernente il trattamento delle acque reflue urbane…11”, pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n.101/L, del 29/5/99, e ripubblicato nella Gazzetta Ufficiale1 n. 146/L del 30/7/99 con aggiunta di relative note)

Il 18 agosto 2000 è stato poi emanato il decreto legislativo n. 258 recante “Disposizioni correttive e integrative del D.L.gs. 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998 n.128” pubblicato sulla G.U. Supp. Ord. n. 153\L del 18\9\20.

Successivamente, tutta la normativa nazionale di riferimento per lo scarico delle acque, è stata unificata ed inglobata nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n.152 (Testo Unico Ambiente) che disciplina totalmente la materia in tutti i suoi aspetti (principi generali e competenze, obiettivi di qualità, tutela dei corpi idrici e disciplina degli scarichi, strumento di tutela, sanzioni).  Segnaliamo anche il D.M. 185/2003, che definisce i criteri tecnici per il dimensionamento, la costruzione, l’esercizio, la manutenzione e il controllo degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, e il D.M. 186/2003 che determina le metodologie per l’effettuazione delle analisi delle acque reflue, a cui dobbiamo aggiungere – per dovere di informazione – il regolamento (Ce) n. 1882/2003, il quale stabilisce norme comuni per il monitoraggio e il controllo delle acque reflue, e il Regolamento (Ue) 2020/741 del 25 maggio 2020 (che trova applicazione a decorrere dal 26 giugno 2023) recante prescrizioni minime per il riutilizzo delle acque reflue per usi agricoli.

Insomma, come è agevole intuire, in base a tutta questa normativa di riferimento che presiede alla gestione delle acque reflue (e parliamo di tutte quelle che oltre ad essere urbane, possono anche presentarsi solo come acque reflue industriali, e/o di soli servizi e/o anche solo domestiche, ecc), dovremmo stare in una consistente botte di ferro.

Purtroppo non è proprio così. In Italia un terzo degli scarichi urbani e industriali va a finire direttamente nei fiumi o nel mare senza alcuna depurazione: in totale si contano 927 agglomerati di acque reflue non conformi sparsi su tutto il territorio nazionale per un carico generato totale di 29,8 milioni di abitanti equivalenti (sempre per dovere di informazione si evidenzia che l’unità di misura standard per l’inquinamento è l’abitante equivalente” (a.e.). Essa descrive l’inquinamento medio prodotto da una persona/giorno).

Per effetto della mancata o errata attuazione della normativa europea nell’ordinamento nazionale, nei confronti dell’Italia sono state aperte da parte della Commissione europea ben quattro (4) procedure di infrazione (Infrazione 2004/2034 per 75 agglomerati sopra i 15.000 abitanti equivalenti che scaricano in aree non sensibili, infrazione 2009/2034 per 16 agglomerati maggiori di 10.000 abitanti equivalenti, che scaricano in aree sensibili, Infrazione 2014/2059 per agglomerati con popolazione maggiore a 2.000 abitanti equivalenti e infrazione 2017/2181 per 237 agglomerati con oltre 2.000 abitanti equivalenti che non dispongono di adeguati sistemi di raccolta e trattamento delle acque di scarico urbane)

Nonostante i numerosi solleciti, l’Italia è stata però condannata dalla Corte europea di giustizia per non avere completato le fogne e i depuratori di parecchie città, soprattutto in Calabria, dove in larga parte il servizio è gestito direttamente dai Comuni (al riguardo consigliamo di leggere le due sentenze della Corte di Giustizia europea, emesse nel luglio 2022 e nel maggio 2018 e quella  emessa nell’aprile 2014, mentre per la terza infrazione bisogna attendere, dato che la sentenza è ancora in fase istruttoria). 

Attualmente l’Italia è condannata al pagamento di sanzioni pecuniarie pari a euro 257.800.000 nel settore delle discariche abusive, a euro 281.840.000 per quanto riguarda la gestione dei rifiuti in Campania, ad euro 142.911.809 nell’ambito delle acque reflue. 

“E io pago!”, per usare la celebre battuta del barone Antonio Peletti (interpretato da Totò) nel celebre film “47 morto che parla”.

Qualcuno potrebbe dire che qui non c’è (niente) da scherzare e, per la verità, avrebbe pure ragione. Sta di fatto che, per fortuna, il nostro legislatore ha pensato bene di prendere le cose sul serio e dal 2017 in Italia è stato istituito un Commissario unico per la depurazione delle acque (al momento guidata dal Prof. Fabio Fatuzzo e dai due Sub Commissari, dott. Antonio Daffinà e l’avvocato Salvatore Cordaro, nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 7 agosto 2023, di concerto tra il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e il Ministro per gli Affari Europei, il sud, le politiche di coesione e il Pnrr), che si occupa di tutti gli interventi necessari per far uscire le varie zone del Paese dai contenziosi Ue, in sostituzione dei precedenti Commissari nominati con l’art. 7 del D.L. n. 133/2014 (c.d. decreto sblocca Italia). Dal 2019, con il decreto Clima, le competenze si sono estese anche alle procedure 2014/2059 e 2017/2181, per cui sono stati previsti in totale 606 interventi in 13 regioni italiane.

C’è da domandarsi, tuttavia, se è funzionale tale soluzione alla risoluzione della problematica generale relativa agli impianti di trattamento e smaltimento delle acque reflue. Nutro (e non da solo) più di un dubbio in proposito

Innanzitutto, se il legislatore avesse voluto essere coerente fino in fondo, nel rispettare l’impegno preso con l’Unione Europea, non avrebbe dovuto prevedere la figura del Commissario unico solo per la risoluzione delle problematiche emerse dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di cui sopra (e a questo proposito segnaliamo che l’Ispra, a partire dal 2007, raccoglie ed elabora tutte le informazioni trasmesse dalle Regioni e dalle Province Autonome di Trento e di Bolzano, in Sintai – Sistema Informativo per la Tutela delle Acque in Italia – sono disponibili i report di sintesi, inoltrati alla Commissione dell’Unione Europea. L’ultimo report disponibile, trasmesso nel 2020, è relativo ai dati con la situazione al 2018).

Invece, come ben evidenziato nella proposta di revisione della direttiva sulle acque reflue urbane (di recente adottata dal Parlamento Europeo), “gli Stati membri dovranno istituire, entro e non oltre il 1º gennaio 2025, una struttura di coordinamento tra le autorità competenti per la salute pubblica e il trattamento delle acque reflue urbane. Tale struttura stabilirà i parametri da monitorare e con quale frequenza e il metodo da applicare”.

In seconda battuta: emerge la necessità di un intervento costante nel monitoraggio degli impianti di trattamento e smaltimento delle acque reflue al fine di verificare che le diverse figure che operano nella gestione degli impianti di depurazione, pubblici e privati (le figure che operano nell’ambito della gestione dei depuratori sono: 1. il titolare dello scarico ex art.124 D. Lgs. n. 152/2006; 2. il gestore del depuratore; 3. il manutentore del depuratore; 4. il produttore dei rifiuti del depuratore, su cui si innesta la recente Sentenza Tar Calabria (CZ) Sez. I n. 2231 del 9 dicembre 2022), si siano effettivamente adoperati nel seguire i diversi trattamenti impiegando tecnologie adeguate e personale specializzato, effettuando analisi preventive che classifichino gli scarichi e i rifiuti e le lavorazioni ad essi correlate.

Ricordiamo, a tal fine, che l’art, 132 del Tua, al comma 1, prevede quanto segue: «Nel caso di mancata effettuazione dei controlli previsti dalla parte terza del presente decreto, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare diffida la regione a provvedere entro il termine massimo di centottanta giorni ovvero entro il minor termine imposto dalle esigenze di tutela ambientale. In caso di persistente inadempienza provvede, in via sostitutiva, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa delibera del Consiglio dei Ministri, con oneri a carico dell’Ente inadempiente».

Al comma 2, invece, stabilisce che «Nell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui al comma 1, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nomina un commissario “ad acta” che pone in essere gli atti necessari agli adempimenti previsti dalla normativa vigente a carico delle regioni al fine dell’organizzazione del sistema dei controlli».

La direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane è stata adottata proprio allo scopo di proteggere l’ambiente dalle ripercussioni negative provocate dagli scarichi di acque reflue da fonti urbane e settori specifici. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che le acque reflue provenienti da tutti gli agglomerati con oltre 2 000 abitanti siano raccolte e trattate secondo le norme minime dell’Ue.

In caso di mancato rispetto della direttiva comunitaria e delle conseguenti legislazione attuativa all’interno del nostro Stato in materia di reti fognarie urbane, depurazione delle acque reflue, adeguatezza degli impianti di trattamento dovrebbe, quindi, inesorabilmente scattare l’intervento sostitutivo di cui sopra oppure la nomina del commissario “ad acta”.

Si può tranquillamente giungere all’adeguata protezione dell’ambiente solo applicando e facendo applicare la normativa sommariamente ricordata a chi di dovere senza varianti di alcun genere.

La qual cosa non credo sia stato fatto finora. Anzi, credo che sia stato fatto proprio il contrario (unica eccezione è rappresentato dall’insistente e quotidiano intervento della Guardia Costiera calabrese, a cui va un doveroso riconoscimento per le frequenti operazioni di tutela dell’ambiente che ogni anno consentono di rilevare i vari illeciti penali e amministrativi a danno di depuratori di acque reflue asserviti ai comuni ricadenti nella propria giurisdizione. A tal proposito, mi piacerebbe che il Capo dello Stato conferisse all’intero corpo un encomio collettivo per tutto il lavoro svolto in questi anni in Calabria). 

Per cui ci siamo trovati tutta l’estate frequentemente con il mare di colore verde, chiazze marroni, depuratori dismessi che continuano a ricevere reflui, liquami fognari provenienti da scarichi abusivi o condutture rotte, ecc. (eppure il Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel decreto 5 maggio 2011 ha tenuto a precisare che “sussiste a carico del  Sindaco il fumus dei  reati di danneggiamento e di omissioni di atti d’ufficio nel caso in cui  in assenza di autorizzazione ex art. 124 d.lvo 152\06 attiva uno scarico di reflui fognari provenienti da insediamento urbano con immissione in corso d’acqua superficiale e le cui acque risultano inquinanti per presenza di sostanze che superino i parametri di legge,  perché trattasi di condotta idonea a danneggiare il fiume ricettore e perché viene  omessa l’attivazione dei poteri che il RD 1265\34 Tu Leggi sanitarie attribuisce al Sindaco”).

La qual cosa è anche determinato dal fatto che esistono in Calabria un numero, ancora troppo rilevante, dei centri urbani – piccoli, medi e grandi… – privi di impianti centrali di depurazione fognaria o dotati di impianti parziali (cioè insufficienti a servire tutte le acque reflue urbane prodotte) ovvero a servizio di “sistemi di condotte”, cui non sono ancora allacciati (tutti o parte) degli “agglomerati” interessati.

In generale, poi, gli impianti sono collocati in aree che presentano problematiche di tipo geomorfologico (aree golenali di fiumi, in prossimità della costa o di torrenti, su terreni in pendenza, onde appare ancora urgentissimo, oltre che necessario, provvedere, quanto prima, alla realizzazione di nuove strutture o al miglioramento di quelli già esistenti (che è poi l’Obiettivo dell’Investimento Pnrr 4.4: fognatura e depurazione. per il cui raggiungimento sono destinati interamente al Sud 600 milioni di euro. Ulteriori investimenti saranno ricompresi nell’ambito delle politiche di coesione 2021-2027). 

Infine, segnaliamo che, sebbene la Cedu (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo firmata a Roma il 4 novembre 1950 e entrata in vigore in Italia con legge di ratifica del 4 novembre 1955, n. 848.), non preveda espressamente il diritto a un ambiente salubre, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha deciso diverse cause nelle quali era in questione la qualità dell’ambiente che circondava una persona, e ha ritenuto che condizioni ambientali pericolose o destabilizzanti potevano incidere negativamente sul benessere di una persona (si veda la recente sentenza del 9 aprile 2024, nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and Others c. Switzerland, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) ha dato ragione all’associazione elvetica. In questa sentenza, la Corte europea citata, con 16 voti favorevoli contro uno, ha affermato che, la mancata adozione delle misure idonee a impedire il surriscaldamento globale e gli effetti negativi dei cambiamenti climatici, costituisce violazione degli articoli 6 ed 8 della Cedu, che riguardano il diritto ad un equo processo e il diritto al rispetto della vita privata e familiare).

Quindi, d’ora in poi, nonostante l’immissione di acque reflue non depurate in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria non sia, di per sé, un diritto tutelato dall’articolo 8 Cedu, «la presenza persistente e duratura di acque reflue non depurate» può avere conseguenze avverse per la salute e la dignità umana, minando di fatto la sostanza della vita privata. Pertanto, qualora siano soddisfatte tali stringenti condizioni, può sorgere, a seconda delle specifiche circostanze della causa, un obbligo positivo dello Stato.

Noi, comunque, nonostante tutto quanto sopra, continuiamo a sperare che le cose prima o poi vadano per il verso giusto

In che tempi si perverrà alla soluzione dei problemi legati alla mala depurazione non possiamo dirlo. È certo, però, che “solo chi sogna può volare” (citazione tratta dal libro di James Matthew Barrie su Wendy e Peter Pan nei giardini di Kensington).

Per cui, continuiamo a sognare. Speriamo bene. (gm)

IN CALABRIA LE POLITICHE GIOVANILI SONO
UN LUSSO: NON ESISTE UNA LEGISLAZIONE

di GUIDO LEONEIn una società interessata da fenomeni quali la permanenza dell’abbandono scolastico, la microcriminalità giovanile, le nuove forme di tossicodipendenza, le aggregazioni in gruppi portatori di valori asociali, l’avanzata della cultura dell’omologazione che coinvolgono fasce sempre più ampie della popolazione giovanile e non più esclusivamente soggetti tradizionalmente considerati come ‘marginali’, diviene importante prendere coscienza che si deve progettare insieme con e per i giovani gli interventi aggregativi ed educativi che mirano ad un modello di cittadinanza attiva dei giovani. Questo con la consapevolezza che quella di investire sull’aggregazione giovanile non legata ai consumi è una scelta precipuamente politica (che non si paga da sé).

Negli anni ’90 in particolare si sono sviluppati, grazie soprattutto a finanziamenti pubblici di diverso tipo (la L.285/97, le leggi sulla prevenzione delle tossicodipendenze, solo per citarne alcune)una pluralità di progetti legati all’aggregazione giovanile intesa come primo livello del protagonismo sociale dei giovani e come forma di prevenzione primaria specifica. Non c’è dubbio che questi interventi, promossi e realizzati dalla scuola, dagli enti locali, dalle Asl e dal Terzo Settore hanno evidenziato un cambio culturale, un nuovo approccio ai bisogni e alle aspettative della condizione giovanile. Il rischio dell’autoreferenzialità è stato costante.

Ma purtroppo non si è radicato un modo nuovo di agire degli Enti Locali. Le politiche giovanili hanno sempre avuto ed hanno, ancor più oggi,  risorse precarie o limitate, faticano a rappresentare e dare voce ad un protagonismo giovanile che cresce dentro una società ansiosa, una generazione adulta ed anziana protettiva nei confronti dei giovani.

Insomma, una politica giovanile inadeguata rispetto alla complessità, ai cambiamenti avvenuti, ai nuovi poteri e alle competenze che si stanno definendo.

Certo si può  parlare di democrazia come nuovi scenari e nuovi poteri. Dove le arene pubbliche si misurano con gli ambiti di identificazione territoriale, dove il comune è al primo posto e dove l’Europa per i giovani rappresenta un riferimento forte; con la insufficiente soddisfazione per l’attuale funzionamento della democrazia; con la convinzione che la democrazia è comunque la migliore forma di governo possibile anche se i giovani pensano più di altri che abbia bisogno di correttivi; con il dibattito sul decisionismo rappresentato dai presidenzialismi ai vari livelli; con un giudizio sospeso sulla corruzione del sistema; con i contenuti della democrazia che vedono prevalere il diritto alla salute, alla legalità, al lavoro, alle libertà, all’istruzione, ecc. mentre la partecipazione resta relegata al fondo delle parole che danno significato al termine.

Ma i nuovi scenari sono rappresentati anche dalla crisi dei partiti dove, fino a qualche decennio fa, si formava alla partecipazione, si educava alla politica, si tenevano le relazioni strutturate con la società. È uno scenario che vede la disaffezione verso la politica e la caduta libera della partecipazione attiva dei giovani ai partiti politici, mentre assumono ruoli emergenti, ma anche di riferimento, istituzioni varie, dagli uomini di scienza alle forze dell’ordine, dalla chiesa al sindaco.

Ed è una democrazia, anche, dove si rileggono opinioni e valori. E anche con sorprendenti novità nelle riflessioni dei nostri giovani. Parlare dialetto è considerato un fattore di identità locale; non è importante diminuire le tasse quanto utilizzare meglio i soldi versati dai contribuenti. Cambia il giudizio di approvazione e non approvazione sui comportamenti sociali:la prima qualità da trasmettere ai figli è il senso di responsabilità, l’indipendenza tra le ultime; l’uomo politico deve essere onesto, competente, coerente, efficiente.

Ma ci sono altri aspetti di questi nuovi scenari. Un impianto ancora familistico, con un famiglia sempre più fragile ma vero capitale sociale del nostro territorio , vede i giovani fruitori di percorsi protettivi lunghi. Un mondo economico che riflette sul capitale sociale prodotto ma che offre ai giovani lavori caratterizzati sempre più da nuove forme di flessibilità e precarietà. Una società dove la sicurezza sociale diventa valore. Torna la piazza antagonista ma finisce con l’essere una esperienza comunitaria di prossimità fisica, condivisione di emozioni, ma che non genera progetto ,non produce identità, rispetto agli anni forti della contestazione.

Anche se segnala nuove culture emergenti (pace, legalità, sviluppo sostenibile, giustizia, Nord/Sud, nodi ecologici, diritti civili). Mentre resta ai margini della maggioranza l’esperienza dei centri sociali, dei gruppi antagonisti per scelta di campo. Su tutto, i media, la televisione, finiscono con l’essere l’unico strumento di partecipazione – monodirezionale – e di informazione politica.

Da questi ed altri elementi sono alimentati i modelli di governance del territorio. Ma come favorire la partecipazione giovanile nella nostra realtà locale?

La risposta passa attraverso la capacità soprattutto della  amministrazione comunale. Il Comune è l’Ente pubblico più vicino ai propri cittadini, è in grado di conoscere meglio e di rappresentare le istanze della propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo.

In assenza di una normativa nazionale specifica per la fascia giovanile, che definisca gli obiettivi delle politiche pubbliche per i giovani, ci si trova di fronte a un quadro complesso, per cui vi sono politiche molto diverse da regione a regione, ma soprattutto non vi è un quadro normativo dentro il quale definire i compiti e le funzioni degli enti locali. Alcune regioni hanno emanato delle leggi apposite. La Calabria è una delle pochissime regioni in Italia a non avere una legislazione in materia di politiche giovanili.

Voglio sperare che la Giunta regionale calabrese assuma presto iniziative legislative in proposito. Gli aspetti negativi sono rappresentati dalla scarsa e disordinata diffusione delle politiche per i giovani nei comuni. Nella nostra provincia la maggior parte degli enti non ha un assessorato di riferimento. 

È considerato un lusso, un optional in presenza della grave crisi finanziaria peraltro. E laddove esiste da un punto di vista delle competenze amministrative e delle deleghe politiche non vi è chiarezza riguardo la collocazione delle politiche per i giovani, non esiste una loro area politico-amministrativa specifica e definita, ma queste politiche sono distribuite in area di competenza molto diverse tra loro: cultura, istruzione, servizi socio-assistenziali e sanitari, lavoro, sport e tempo libero, producendo un effetto di frammentazione degli obiettivi, degli indirizzi. Per non parlare della cronica scarsità delle risorse. Tutto ciò affonda le migliori intenzioni. (gl)

[Guido Leone è già Ispettore tecnico Usr Calabria]

GIUBILEO, UN’OCCASIONE PER LA CALABRIA
BRAND PER VALORIZZARE IL TERRITORIO

di FRANCESCO NAPOLI – Il Giubileo 2025 è un evento religioso di portata mondiale che, secondo le ultime stime, porterà a Roma, la città eterna, il cuore della Chiesa cattolica, circa 30 milioni di pellegrini Un’occasione per l’intero sistema Paese e anche la Calabria non può farsi trovare impreparata. L’avviso della regione Calabria va nella direzione di quanto detto fine giugno.

Ad oggi mancano dati esatti sulla stagione turistica in corso, ma è certo che dopo il boom del 2023 l’industria delle vacanze comincia a mostrare i primi segni di frenata. Si spera nelle prenotazioni last minute e nella scelta di periodi diversi. Sono venuti meno soprattutto i turisti italiani, in parte perché colpiti dalla onda lunga della inflazione. Soffre la classe media che riduce la permanenza in vacanza.
Diventa dunque fondamentale lavorare per la valorizzazione di tanti siti turistici così come la creazione di nuove destinazioni. Il recupero, la tutela, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e lo sviluppo turistico, per una regione come la Calabria, sono temi strettamente connessi, in quanto essa dispone di un ingente patrimonio culturale e ambientale. Molti i punti di forza (come ad es. i siti archeologici di antiche civiltà mediterranee della Magna Grecia) che possono dar luogo ad itinerari turistici di rilevanza eccezionale per il turismo internazionale e del bacino del Mediterraneo.
È ormai evidente che oggi non si parla più solo genericamente di turismo ma di “Turismi”, ovvero di tante forme di turismo che aiutano a destagionalizzare l’offerta. Come Confapi Calabria stiamo lavorando, proprio in vista del 2025, ad un progetto di turismo religioso e culturale che passi dalle tante location calabresi per lo più sconosciute ma di grande valore culturale: un vero e proprio Brand Calabria per il Giubileo che è ormai alle porte: dalla Porta Santa alle porte delle città, a cominciare dalle nostre località. Il turismo è un settore ad alta intensità di lavoro, in cui la qualità dell’offerta è fortemente legata alla qualità del servizio e alla professionalità degli operatori, in tutta la filiera dell’accoglienza.

Il recupero di competitività è associato a un ampliamento del prodotto e all’espansione della quantità e della qualità dell’occupazione nel turismo e nelle filiere collegate. I siti archeologici ed i monumenti, sono la risorsa culturale di maggiore rilevanza della Calabria e rappresentano, a livello internazionale, certamente qualcosa di eccezionale. La Calabria ha sette parchi archeologici, che si trovano nelle zone di: Sibari, Capo Colonna, Scolacium, Locri, Vibo Valentia, Lamezia Terme, Monasterace.

La nostra proposta è quella di una terapia d’urto che passi anche da iniziative informative riguardanti le bellezze della Regione Calabria, in quanto in Italia, in Europa e negli altri continenti, manca un’ informazione adeguata su di essi, sia in rete che in altri media. Pochi paesi al mondo possono vantare un insieme di siti archeologici come la Calabria. E, quindi, ciò che occorre, è innanzitutto un’ azione decisa di informazione in rete e l’attuazione di eventi di risonanza internazionale, atti ad attirare l’attenzione su di essi a livello italiano, europeo, mondiale. (fn)

[Francesco Napoli è presidente di Confapi Calabria]

L’AMPIA SOTTOSCRIZIONE AL SUD CONTRO
AUTONOMIA È IL SEGNO DEL CAMBIAMENTO

di PIETRO MASSIMO BUSETTAInvece che il Ponte sullo stretto di Messina vogliamo l’acqua. In questo agosto con un solleone che rende difficile anche la respirazione, mentre la temperatura anche di notte non scende al di sotto dei 26° e le piogge diventano un miraggio, i luoghi comuni imperversano sui social. 

E visto che la carenza idrica ormai è diventata drammatica, non c’è miglior slogan che lanciare un nuovo luogo comune e contrapporre l’esigenza idrica alla madre di tutte le infrastrutture. 

Il tema è sempre lo stesso invece che… Di volta in volta cambia il secondo soggetto. Invece che il ponte, l’acqua; invece che il ponte, la sanità; invece che il ponte, le opere di difesa ambientale; invece che il ponte le fognature. Potrei continuare con una sfilza infinita di invece che. 

Sembra che i meridionali si siano convinti di non avere gli stessi diritti degli altri italiani. Che invece avrebbero diritto a recuperare le realtà alluvionate dell’Emilia-Romagna, ma contemporaneamente anche a completare il percorso della Tav per collegare Torino a Lione. Devono poter contare sull’aiuto del Governo Centrale in caso di calamità naturali, ma contemporaneamente non rinunciare alle tante opere che si stanno portando avanti, né tantomeno a organizzare eventi sportivi come le Olimpiadi invernali di Milano- Cortina, che costano alla fiscalità generale importi certamente non piccoli di risorse. 

Tale approccio è frutto di una atavica condizione di subalternità, prima nei confronti dei Baroni e della Chiesa, poi nei confronti di uno Stato che era stato visto come nemico ed invasore, e infine di una politica che fa passare il soddisfacimento dei diritti come l’elargizione di favori. 

Per cui non si hanno diritti da soddisfare contemporaneamente ma elargizioni che vanno richieste con una certa gradualità per evitare che il padrone possa infastidirsi. In fin dei conti è la stessa logica che prevede che si dibatta in modo serio sui Lep, Livelli Essenziali delle Prestazioni, senza manifestare indignazione per uno Stato che prevede che in alcune parti possano esserci non livelli uniformi rispetto a quelli esistenti in altre parti del Paese, ma solo quelli essenziali. 

È la logica che sottende tutta la legge sulla Autonomia Differenziata, che Roberto Calderoli dichiara essere a favore del Sud, perché finalmente si è messo per iscritto che in alcuni settori anche il Mezzogiorno ha diritto ad avere i livelli essenziali, cioè minimi. 

È un’affermazione grave perché vuol dire che fino adesso nemmeno quelli si sono avuti. Ci si potrebbe chiedere dove è stato lo Stato Centrale che ha permesso che ci fossero due realtà, così distanti tra di loro, in uno stesso Paese. Dove sono state le Istituzioni di garanzia. Dove i Partiti nazionali, dove i Sindacati e perfino la Chiesa. 

Altro che “Questione Settentrionale” strombazzata ai quattro venti da  opinionisti spesso al libro paga di interessi precisi. Questa è la realtà con la quale dobbiamo confrontarci, certamente non con i tecnicismi e i finti dati reali che il Ministro per gli Affari Regionali, nella sua campagna d’autunno anticipata ad agosto, vuole, con gli Uffici e i Centri Studi al suo servizio, diffondere perché continui la vulgata di un Sud che ha avuto risorse infinite che sono state sprecate, che ha avuto una classe dirigente inesistente, cosa in parte vera, ma funzionale agli interessi di un Nord bulimico. 

Tale incapacità di difendere i propri interessi e i propri elettori si è vista anche nelle votazioni per l’Autonomia Differenziata, per cui moltissimi rappresentanti meridionali al Parlamento, pur di non perdere la possibilità di continuare a fare politica, si sono sparati ai piedi. 

In fin dei conti bisogna accreditare la vulgata che il Sud deve soltanto  guardare a se stesso se è nelle condizioni per cui 100.000 persone ogni anno devono scappare via per avere un progetto di futuro, con un costo per le casse regionali di riferimento di oltre 20 miliardi annui. Che deve guardare alla sua incapacità se nelle case di alcuni Comuni del Sud l’acqua arriva soltanto una volta alla settimana e si è costretti ad avere sui tetti i recipienti di accumulo, per poter fruire di un servizio minimale per ogni Paese appena sviluppato. 

Che deve fare “mea culpa” se per risolvere un problema di sanità importante deve trasferirsi, spesso con la famiglia, e spendere decine di migliaia di euri per poter avere la speranza di essere curato adeguatamente. D’altra parte se a qualcuno instilli la convinzione che la colpa della sua condizione sta solo nella sua incapacità, è evidente che non avendo un nemico da attaccare si rifugerà nell’inazione, nella frustrazione e spesso nel desiderio di passare dalla parte vincente.

Per cui è normale che la maggior parte dei tifosi delle società calcistiche settentrionali siano nelle aree meridionali e che spesso anche nei paesi più sperduti vi sia un Club Juventus o Milan. O che dopo pochi mesi di residenza a Milano, vi siano interlocuzioni nel linguaggio assolutamente estranei rispetto alle origini dei soggetti. Atteggiamento tipico dei colonizzati che tentano in tutti i modi di non farsi riconoscere cadendo poi nel grottesco. 

C’era un Dipartimento per le Politiche di Coesione, istituito da Carlo Azeglio Ciampi, che calcolava in un modo neutro il pro capite in ciascuna parte del Paese e che ha rilevato che vi era una differenza tra il Sud e il Nord, in costanza di spesa pro-capite uguale, come peraltro prevede la nostra Costituzione, di 60 miliardi annui. Troppo neutra la posizione per farlo continuare a lavorare. È infatti è stato chiuso. Meglio avere i dati dalla Cgia di Mestre o dall’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani di Carlo Cottarelli

Perché la base della vulgata deve essere quella raccontata prima: molti soldi dati, incapacità di gestirli, responsabilità degli stessi meridionali. 

Ma la sottoscrizione ampia per un referendum che prevede l’abolizione dell’Autonomia Differenziata, l’orgoglio che viene dalla città di Napoli, che malgrado sia stata massacrata nell’immagine per anni, riesce ad esprimere un’identità mai cancellata, ci fa capire che la musica è cambiata. Ed è questo che rende alcune forze territoriali del Nord, come la Lega, estremamente nervose e pronte ad attaccare, sperando che quella testa che si vuole sollevare dalla sabbia ritorni nel suo alveo naturale. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

C’È UN BUCO NELLE RISCOSSIONI COMUNALI
AI SINDACI QUASI ZERO DA IMU TARI E IRPEF

di PABLO PETRASSO – Accertamenti pochi e riscossioni ancora meno, soprattutto al Sud. I Comuni non riescono a incassare e il buco è miliardario tra Imu, Tari e addizionale Irpef: una voragine che, secondo l’ultima “Relazione finanziaria sugli enti locali” della Corte dei Conti, vale 158 euro per abitante nel 2021 e 159 nel 2022. Si tratta di 9 miliardi all’anno: una quota consistente si concentra nel Mezzogiorno e il tema non è slegato dall’Autonomia differenziata.

Il gap delle mancate entrate, infatti, al momento non viene compensato se non in parte dai trasferimenti statali. La situazione è destinata a precipitare quando la riforma Calderoli entrerà a pieno regime e ogni ente dovrà contare quasi esclusivamente sulle proprie risorse perché aumenteranno i tributi che ogni territorio terrà per sé, sottraendoli a esigenze di solidarietà nazionale. Potrebbe essere un disastro, perché chi riscuote meno è obbligato a “congelare” parte della spesa, in previsione del fatto che non riuscirà a incassarla. Una condizione che potrebbe paralizzare molti enti locali, soprattutto del Meridione.

Per quattro regioni – Lazio, Campania, Calabria e Sicilia – il divario tra i tributi accertati e quelli riscossi è superiore a 200 euro pro capite. Per la Calabria, in particolare, il gap va dai 221 euro del 2021 ai 239 del 2022.

E la situazione è ancora più grave se si guarda alle tariffe, acqua inclusa, per i comuni con le gestioni “in economia” e ancora per rette degli asili nido e delle mense scolastiche, per i proventi dell’occupazione di suolo pubblico e per gli affitti degli immobili di proprietà dei Comuni. La media nazionale arriva circa al 65% dell’accertato ma il dato calabrese è il più basso d’Italia: la quota di riscossione per i Comuni tra il 2021 e il 2022 si ferma a una quota tra il 31 e il 35%. In Campania si arriva al 40-47%, nel Lazio al 50-57%.  Si generano così consistenti residui attivi: cifre che gli enti locali mettono in bilancio ma che forse non riusciranno mai a riscuotere. Se ora lo Stato arriva, almeno in parte, in aiuto, l’Autonomia differenziata darà il via a una sorta di “ognuno per sé” che finirà per incidere sui conti dei Comuni del Sud.

L’analisi della Corte dei Conti si allarga anche al tax gap dell’Imu. Si tratta della differenza tra il gettito teorico e quello effettivo della tassa sugli immobili: l’evasione, in questo caso, è stimata in circa 5,1 miliardi di euro, pari al 21,4% dell’Imu teorico.

Divario significativo che, secondo i giudici contabili, «potrebbe essere ridotto anche attraverso il recupero di ambiti di evasione». Il dato peggiore riguarda proprio la Calabria, la regione in cui l’evasione risulta più elevata. A livello regionale, l’indicatore del tax gap (cioè la parte dell’imposta che non si riesce a riscuotere) dell’Imu varia dal 40% del gettito teorico in Calabria al 10,9% in Emilia-Romagna e presenta valori più elevati nelle Regioni meridionali. Particolarmente significativo è anche il tax gap registrato in Campania (34,3% del gettito teorico), in Sicilia (33,3%) e in Basilicata (31,2%). Valori più bassi si osservano, invece, in Valle d’Aosta (11,5%), in Liguria (13,5%) e nelle Marche (14,3%).

Anche sul piano della capacità fiscale il Paese è spaccato in due. Nel biennio 2021-2022 i Comuni delle Regioni del Nord e di alcune del Centro (tra cui, in particolare, il Lazio e la Toscana) presentano una capacità fiscale adeguata; tutte le Regioni del Sud e le Isole, oltre a Umbria e Marche, mostrano invece entrate correnti di natura tributaria, al netto dei fondi perequativi, in termini pro-capite, inferiori alla media nazionale (pari a 567 euro nel 2021 e a 591 euro nel 2022).

La parte compensata dallo Stato riesce a mitigare solo in parte i divari: per la Corte dei Conti «è interessante notare che, dopo gli interventi perequativi, i livelli di capacità fiscale dei Comuni del Centro-Sud si avvicinano ai livelli di media nazionale senza tuttavia raggiungerli in pieno». Con l’Autonomia differenzia la perequazione scomparirà: un altro pezzo di solidarietà nazionale svanito che provocherà la paralisi degli enti locali al Sud. (pp)

[Courtesy LaCNews24]

CHE CALDISSIMA ESTATE, SEN. CALDEROLI!
MA DOVREBBE SCEGLIERSI UN UNICO RUOLO

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Bisognerebbe che qualcuno suggerisse a Roberto Calderoli di scegliersi un ruolo. Quello di arbitro, di centravanti di attacco, di Presidente dell’Istat, di difensore degli interessi del Sud, ma uno.

E invece l’Autore del porcellum, vuole  ricoprire tutte le posizioni. Adesso anche quella di Giudice Costituzionale. Ufficialmente ha quella di Ministro della Repubblica, uomo al di sopra delle parti che lavora per il bene del Paese.

In realtà ricopre quella di Ministro della costituenda macroregione del Nord, che tenta di attuare il principio, inesistente, di un residuo fiscale, che dovrebbe essere mantenuto nelle Regioni in cui si formerebbe, stabilendo una regola strana e cioè  che si dovrebbero avere diritti diversi a seconda di dove si nasce.

In realtà la Costituzione stabilisce che ogni cittadino ha il dovere di pagare le imposte in base al reddito prodotto e di avere servizi analoghi in qualunque parte del Paese, ma la risposta immediata è che ne è parte anche la modifica del Titolo V e l’Autonomia Differenziata. E questo è vero. Ma certamente non il tipo di normativa che hanno approvato, “di notte e di fretta”, come dice Roberto Occhiuto, Governatore della Calabria di Forza Italia, al quale certo non si può  attribuire una opposizione  preconcetta e ideologica.

Si è autoproclamato, Calderoli, anche difensore degli interessi dei cittadini del Sud, costretti, a suo dire, a subire una classe dirigente che li vessa e spreca le risorse, ovviamente del Nord.

Ora vuole essere anche Presidente dell’Istat, sedicente  unico a conoscere i dati veri e di ricercatore del Dipartimento delle Politiche di Coesione per contraddire ciò che lo stesso Dipartimento ha evidenziato, e cioè che ogni anno, se la spesa pro-capite fosse uguale tra le varie parti del Paese, il Mezzogiorno dovrebbe ricevere 60 miliardi in più, e infine anche quella di Giudice della Corte Costituzionale visto che vorrebbe stabilire se il referendum abrogativo è ammissibile o meno.

Cosi con tutti questi cappelli, che cambia a seconda le esigenze, cerca di negare l’evidenza. Vecchio approccio che conosciamo bene. Con argomenti all’apparenza sofisticati tesi a dimostrare che in realtà il Sud ha avuto molti soldi, che li spreca, che è gestito da incapaci e che se i servizi sono minori, anzi spesso inesistenti come l’Alta Velocità Ferroviaria, la colpa è solo dei meridionali.

Se poi si sostiene che vi è stata  una volontà di abbandono totale,  di tagliare lo Stivale e farlo affondare da solo, sguscia su tecnicismi vari per dimostrare che il sole gira attorno alla terra, che l’agnello che sta sotto gli sta sporcando l’acqua, e che lo ha offeso quando ancora non era nato.

Negli ormai frequentissimi interventi su tutti i Quotidiani nazionali, novello azzeccagarbugli dei ricordi manzoniani, trova sempre il modo di sostenere l’insostenibile e cioè che le risorse che vengono date al Sud sono molto consistenti e sovrabbondanti. Il concetto di spesa storica accettato da tutti non lo sfiora nemmeno.

Ormai è chiaro che è iniziata la campagna d’autunno anche se si è in piena estate. L’Ultima accusa è che politici e gli intellettuali meridionali, oltre che i Quotidiani del Sud, che peraltro sono  pochi e non molto diffusi, non raccontino la verità, anzi la mistifichino, e che stanno facendo una operazione di disinformazione: «Un po’ li capisco. Ogni mattina guardo la rassegna stampa e quando leggo le ‘balle’ che scrivono sull’Autonomia i giornali del Sud , mi vien da pensare che se io fossi un cittadino che vive in Meridione andrei di corsa a firmare per il referendum», afferma.

Potrebbe continuare il nostro Ministro affermando che non è vero che il tempo pieno a scuola al Sud è inesistente, che i viaggi della speranza per una sanità efficiente sono una illusione, che l’alta velocità arriva fino ad Augusta, e che non è vero che in molte province della Sicilia l’acqua arriva, non a giorni,  ma a settimane alterne.

Calderoli si dice pronto a fare “un’operazione trasparenza”: “«D’ora in avanti – annuncia – tirerò fuori i numeri ufficiali che dicono come vengono spese le risorse dello Stato dalle Regioni. Perché il punto è tutto lì».

La cosa strana è che in realtà non vi è una grande mobilitazione del Sud. Se l’operazione avvenisse al contrario sarebbero cadute le mura di Gerico. Si è vero sono state raccolte 500.000 mila firme on line e ci si avvicina alle 200.000 nei banchetti.

Tale risultato viene considerato un grande successo, e certamente lo è, tanto che sta spaventando un po’ i partiti al  Governo del Paese, e che Forza Italia ha preso le distanze dalla legge, ma rispetto alla protervia e all’atteggiamento tracotante del Ministro mi sembra ben poca cosa e che la reazione sia contenuta.

Nessuna richiesta di dimissioni, nessuna invasione di campo, come accade quando l’arbitro fa stupidaggini, per un Ministro che gioca per una squadra quando dovrebbe essere l’arbitro, nessun invito a smetterla perché con le tante affermazioni si ha la sensazione che creda che i meridionali abbiano  ancora l’anello al naso. Rimane al suo posto invitando nelle commissioni tecniche professionalità che contemporaneamente lavorano per il ministro e per la Regione Veneto.

La certezza comunque che i meridionali non siano capaci di vere reazioni si manifesta in ogni passaggio e vi è un diffusa convinzione che in ogni caso basta poco per zittirli.

D’altra parte quale voce hanno nel dibattito nazionale, se la maggior parte dei quotidiani è di fede nordista, se molti media, compresa la Rai pubblica, difendono  gli interessi economici forti, che prevalentemente hanno radici in una parte del Paese.              

Il 14 agosto  del 1861 nelle città di Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento, si diede vita ad una rappresaglia militare che registrò un numero imprecisato di morti, un centinaio secondo la storiografia ufficiale, secondo altre stime invece circa 400 o 900, forse oltre mille.  Un vero e proprio massacro attuato  per rivendicare l’attacco dell’11 agosto dello stesso anno in cui furono uccisi da briganti e contadini del posto 45 militari dell’esercito unitario, arrivati in città per ristabilire l’ordine pubblico e porre fine alle ribellioni popolari.  Bene non bisogna dimenticare che l’unità del Paese  ha avuto prezzi altissimi. Bisogna quindi evitare  che il livello dello scontro tra Nord e Sud si  alzi sempre di più. E che possano alzarsi le voci per una separazione rispetto ad una parte che viene ritenuta colonizzatrice, mentre l’altra si sente colonia.

Per questo bisogna impedire a un Ministro della Repubblica di prendere posizione così sfacciatamente di parte.

Perché come Catilina sta approfittando della nostra pazienza. (pmb)

(Courtesy Il Quotidiano del Sud / L’Altravoce dell’Italia)

PER LA RIQUALIFICAZIONE DI AREE URBANE
NECESSARIO CONFRONTO STATO-REGIONI

di ERCOLE INCALZA – Recentemente ho indicato le aree al cui interno era presente una serie di interventi che, entro un arco temporale di medio e lungo periodo, sono in grado di far passare la partecipazione delle otto Regioni del Mezzogiorno, nella formazione del Prodotto Interno Lordo del Paese, da un valore pari a circa il 21% ad oltre il 32%.

A tale proposito mi ero soffermato su alcune opere che coinvolgevano tre Regioni come la Campania, la Puglia e la Basilicata ed avevo ribadito la opportunità che il confronto tra organo centrale ed organo locale non avvenisse più in modo disarticolato ma, vista la rilevanza e la dimensione strategica delle opere avvenisse attraverso un confronto tra Stato e le otto Regioni del Sud. Oggi continuo nella elencazione di altre opere che da sole testimoniano la dimensione completamente diversa da una logica “localistica”

Riporto, come la volta scorsa, il quadro delle aree: Riqualificazione funzionale della offerta dei trasporti nelle grandi aree metropolitane del Mezzogiorno (le esigenze finanziarie sono pari a circa 7.000 milioni di euro di cui disponibili 2.800 milioni di euro): Realizzazione organica del sistema ferroviario ad alta velocità/alta capacità nell’intero sistema Mezzogiorno attraverso l’adeguamento funzionale di alcuni assi come quello “adriatico” ed il completamento dell’asse Napoli – Bari e la realizzazione degli assi Salerno – Reggio Calabria, Palermo – Messina – Catania e Taranto – Battipaglia (le esigenze finanziarie sono pari a circa 29.650 milioni di euro di cui disponibili 12.260 milioni di euro); Realizzazione di assi viari essenziali e strategici come quello relativo al collegamento tra Taranto e Reggio Calabria lungo il tratto jonico o l’adeguamento funzionale del collegamento tra Cagliari e Nuoro (le esigenze finanziarie sono pari a circa 10.100 milioni di euro di cui disponibili 3.110 milioni di euro; Realizzazione di interventi mirati alla ottimizzazione della offerta logistica di alcuni HUB del Mezzogiorno attraverso sia la creazione di retroportualità funzionale del porto di Gioia Tauro, del porto di Napoli, sia la ristrutturazione dei porti transhipment di Cagliari; Augusta e Taranto (le esigenze finanziarie sono pari a circa 2.400 milioni di euro di cui disponibili 100 milioni di euro); Realizzazione del sistema integrato relativo al collegamento stabile sullo Stretto di Messina (le esigenze finanziarie sono pari a circa 14.000 milioni di euro di cui disponibili 12.800 milioni di euro).

Ebbene, questa volta prendo in esame due assi: uno ferroviario ed uno viario; in particolare: Asse ferroviario ad alta velocità Salerno – Reggio Calabria – attraversamento dello Stretto di Messina – Palermo e Catania; Asse viario Taranto – Sibari – Crotone – Catanzaro – Reggio Calabria (106 Jonica).

Sono due corridoi, uno ferroviario ed uno stradale, che danno continuità funzionale a cinque distinte Regioni (Campania, Calabria, Sicilia, Puglia e Basilicata) e che non solo annullano le attuali distanze tra realtà urbane e produttive dell’intero territorio meridionale ma consentono una reinvenzione funzionale di ambiti che, supportati da collegamenti stradali e ferroviari non adeguati, si sono sempre più allontanati dai mercati chiave della produzione e del mercato.

Il corridoio ferroviario ad alta velocità come si evince dalla Tavola di seguito riportata ha un costo (comprensivo anche del collegamento stabile sullo Stretto) di 37 miliardi di euro e di tale importo sono già garantite assegnazioni per 21 miliardi di euro; questi due dati, automaticamente, ci portano verso una considerazione che ritengo storica: mai nel Mezzogiorno si era identificata un’opera con un valore di investimento così elevata e con una disponibilità finanziaria superiore al 50%. A tale proposito, anche per motivare quella che definisco una rilevanza storica ricordo che in tutto il Mezzogiorno nell’ultimo decennio, sì dal 2014 al 2024, si sono impegnati interventi per opere strategiche pari ad un importo di 7,6 miliardi di euro e spesi appena 4,2 miliardi di euro.

Ma a questo dato, che da solo fa anche capire quanto sia rilevante il coinvolgimento delle attività imprenditoriali e occupazionali, ne aggiungo altri più importanti: questo cordone ombelicale oltre ad offrire due gradi di libertà ad un’isola come la Sicilia oggi priva di un collegamento fluido e sistematico con l’intero impianto comunitario attraverso un asse stradale e ferroviario, assicura anche un rinnovo inimmaginabile delle abitudini residenziali e dei rapporti commerciali tra Napoli, Salerno, il Sistema centrale della Calabria (attraverso due fermate della alta velocità simili a quella di Reggio Emilia in grado di aggregare una domanda di utenti di realtà urbane delle Province di Cosenza, Vibo e Catanzaro) ed il sistema delle tre aree metropolitane siciliane (Messina, Palermo, Catania). Un cordone ombelicale che finalmente incrementa le potenzialità di questo vasto territorio del Sud ed esalta i ruoli e le funzioni anche di cinque aeroporti come quelli di Lamezia, Reggio Calabria, Catania, Comiso e Palermo.

L’altro corridoio, come anticipato prima, è quello relativo all’asse viario Taranto – Sibari – Crotone –  Catanzaro – Reggio Calabria (106 Jonica); per questo asse il quadro delle esigenze e delle coperture è riportato di seguito e sulla base di sollecitazioni del Presidente della Regione Occhiuto si pensa che la quota delle disponibilità sarà implementata; questo asse in realtà persegue da anni (oltre quaranta) tre obiettivi: Ridimensionare la incidentalità che negli ultimi anni ha raggiunto una soglia drammatica (16 morti in un anno); Ridare ruolo e funzione alle realtà produttive del sistema Jonico lucano e calabrese, (un sistema con una forte presenza di attività legate al settore agro alimentare); Offrire finalmente un asse viario adeguato ad una delle realtà turistiche più attraenti del Paese.

Mi fermo qui perché penso sia chiara la dimensione e la ricaduta di una simile intuizione programmatica, però anche in questo caso, come detto all’inizio, mi chiedo se il Governo debba interloquire, nella attuazione concreta di un simile action plan, con i singoli Presidenti delle Regioni Campania, Calabria, Sicilia, Lucania e Puglia; penso invece che il Governo debba interloquire con le otto Regioni del Sud perché questo arricchimento di alcune tessere del Sud rappresenta il primo vero atto misurabile di rilancio dell’intero mosaico Mezzogiorno. (ei)

SANITÀ PRIVATA, IN CALABRIA È ALLARME
CONTI SALATISSIMI E POCHE PRESTAZIONI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quasi 50mila euro per operare un tumore al seno in Calabria, circa 400 euro per un check up cardiologico nella stessa regione, 1.500 euro al giorno per un ricovero a bassa complessità e quasi 30mila euro per una degenza di due settimane ad alta complessità nel medesimo territorio. Sarebbero questi gli effetti che si avrebbero se in Calabria la sanità fosse privata. Numeri che «fanno rabbrividire» e che sono emersi da un recente studio della Uil e condotta dal segretario confederale Santo Biondo, «finalizzato a mettere in evidenza gli effetti che subirebbero i bilanci delle famiglie, nell’ipotesi in cui per curarsi, in presenza di un progressivo smantellamento della sanità pubblica, si fosse costretti a rivolgersi alla sola sanità privata pura».

Per lo studio sono state prese in considerazione la Lombardia, il Lazio e la Calabria, calcolando i costi medi di alcune prestazioni sanitarie più comuni, sulla base dei tariffari di alcune strutture sanitarie private, ubicate nei territori osservati.

«In sintesi – si legge – si può evincere che una persona che necessitasse di un ricovero per bassa complessità assistenziale, in assenza del Ssn, dovrebbe sostenere una spesa giornaliera che varia da un minimo di 422 euro fino a un massimo di 1.178 euro in Lombardia, da un minimo di 435 euro a un massimo di 1.278 nel Lazio e da un minimo di 552 euro a un massimo di 1.480 euro in Calabria. Se il ricovero fosse ad alta complessità assistenziale, la somma aumenterebbe e, al giorno si andrebbe da un minimo di 630 fino a 1.470 euro in Lombardia da un minimo di 530 a un massimo di 1.800 euro nel Lazio e da un minimo di 570 a 1.800 euro in Calabria.

Nel caso di un check up cardiologico, invece, tenendo conto che le tariffe sono variabili a seconda di età, sesso ed esami previsti, il costo in regime privato varia da un minimo di 220 a un massimo di 295 euro per donna e uomo in Lombardia, da un minimo di 234 a un massimo di 275 euro per una donna, e da 235 a 275 euro per un uomo nel Lazio, da un minimo di 373 a 400 euro per una donna, e da un minimo di 343 a un massimo di 397 euro per un uomo in Calabria.

Per un intervento chirurgico, come l’asportazione del tumore alla mammella, il più delle volte seguita dalla radioterapia, se si dovesse ricorrere come unica soluzione al servizio privato, si dovrebbe sostenere una spesa che può arrivare sino a un massimo di 29.400 in Lombardia, di 32.400 nel Lazio e di 48.400 euro in Calabria. Infine, per la chirurgia pediatrica, per risolvere un’occlusione intestinale del neonato o per affrontare casi più gravi come quelli correlati a una spina bifida, il costo, oltre la parcella dovuto al chirurgo, varia da 4.300 a 9.000 euro in Lombardia, da 6.100 a 9.000 euro nel Lazio, e da 6.400 a 11.000 euro in Calabria.

Un quadro desolante che indica come il Sistema sanitario nazionale sia vicino al collasso, ma non solo: per la Uil, infatti, «il Governo per strizzare l’occhio alla sanità privata, volta le spalle alla sanità pubblica. Tutti i provvedimenti dell’Esecutivo Meloni in materia di sanità, a partire dalle leggi di bilancio per finire al recente decreto “abbatti liste”, vanno nella direzione di un rafforzamento della sanità privata a discapito di quella pubblica. Direzione che aggrava sempre più “il malessere economico” di molte famiglie italiane, le quali sono costrette a modulare il proprio bisogno di cura, in funzione delle proprie disponibilità reddituali».

Cosa fare, allora? Per il sindacato si deve investire sui due assi fondamentali del Servizio sanitario nazionale: personale e territorio, ,ma non solo:«occorre: fermare la legge Calderoli, impropriamente definitivo regionalismo differenziato; attestare il rapporto Pil/spesa sanitaria sui livelli della media europea; combattere gli sprechi delle Regioni evidenziati, ormai da diversi anni, dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti» e «occorre – viene ribadito – far maturare nelle persone una maggiore consapevolezza sull’importanza di avere un sistema sanitario pubblico e universale. E, per raggiungere questo obiettivo, abbiamo scelto di utilizzare l’oggettività e l’evidenza dei numeri».

Dall’analisi comparativa tra le Regioni osservate, infatti, emerge come al diminuire dell’offerta sanitaria privata, rispetto alla domanda di cura, crescano le tariffe. Il che potrebbe configurare un regime di monopolio con poche cliniche private che definiscono condizioni di “cartello”, i cui effetti ricadono sui cittadini in termini di prestazioni più salate. Questo spiega perché i costi di alcune prestazioni in Calabria risultano più alte delle stesse attenzionate in Lombardia e nel Lazio. Al Sud, infatti, con la scarsa presenza sul territorio di cliniche private e in assenza di dotazione di personale sanitario, si verifica ciò che viene definito un aumento di “payment for performance”, ossia un aumento del costo della prestazione.

«Pertanto, con il nostro approfondimento – si legge nella nota – abbiamo voluto sottolineare, che tra le tante sue funzioni il nostro Ssn, svolge anche quella di “tranquillizzante” sociale. Il suo carattere pubblico e universale, infatti, garantisce alle persone, che si trovano ad affrontare un problema di salute, una forma di protezione a prescindere dalla loro condizione economica e reddituale. Nel nostro Paese dal 1978 ad oggi, la salute rappresenta un diritto costituzionale, riconosciuto a tutti i cittadini, grazie alla presenza del Servizio sanitario nazionale».

«Ciò non è scontato e pertanto, per noi non è banale ribadirlo – viene evidenziato –. Come tutti i diritti, anche quello legato alle cure del cittadino di fronte alla malattia, è un diritto che per essere mantenuto va sorvegliato socialmente, rivendicato continuamente e difeso collettivamente. Nella nostra Costituzione, il diritto alla salute è riconosciuto alla persona in quanto tale e il suo esercizio non può essere condizionato al lavoro che si svolge oppure alle disponibilità economiche. La salute del singolo è un bene della collettività. Per tale ragione, il cittadino partecipa al finanziamento del nostro sistema salute in proporzione alle proprie possibilità e lo stesso ne usufruisce, al verificarsi di un suo bisogno di cura: questa è l’universalità garantita.

«Per quanto concerne poi, il rapporto tra sanità pubblica e quella privata – viene evidenziato nello studio – occorre fare la seguente riflessione. Nell’ ipotesi in cui le famiglie per curarsi avessero come scelta obbligata la sanità privata, in un contesto in cui vi è una costante perdita di potere d’ acquisto di salari e delle pensioni, la rinuncia alle cure per alcune categorie di lavoratori e pensionati sarebbe una via obbligata. Pertanto, il progressivo arretramento della sanità pubblica è, con evidenza, un colpo mortale per i bilanci delle famiglie e un ridimensionamento del diritto alla salute».

«Occorre, perciò– dare applicazione al decreto attuativo n. 305 31/12/2022, il quale in continuità con quanto disposto dalla normativa contenuta nella Legge Concorrenza 2021 (legge 118/2022), definisce le nuove regole del gioco, che all’interno del sistema salute del nostro paese, dovranno sovrintendere al rapporto pubblico/privato. Le nuove regole, improntate al principio della trasparenza pubblica e della leale concorrenza tra le parti, stabiliscono nel sistema degli accreditamenti regionali, criteri omogenei e standardizzati su tutto il territorio nazionale. In riferimento a ciò, la legge sulla concorrenza rimane inattuata per volontà legislativa dell’ultimo decreto mille proroghe varato dal governo, il quale concede alle Regioni la possibilità di derogare, fino al 31 dicembre prossimo, all’applicazione della stessa legge».

«Le Regioni, pertanto, in modo interessato – conclude lo studio – sul tema accreditamento della sanità privata, continuano ad andare in ordine sparso. Il che vuol dire perseguire interessi che non sono dei cittadini, dato che dai primi approfondimenti, è riscontrabile che molte strutture private ad oggi accreditate, non dispongono dei reali requisiti relativi ai volumi (definiti dal Dm 70/2015), all’adesione al Cup e all’alimentazione del fascicolo sanitario». (ams)

IL VERO PERICOLO DELL’AUTONOMIA È CHE
TRASFORMI L’ITALIA IN NUOVA ARGENTINA

di DAMIANO SILIPOLa legge sull’autonomia differenziata è stata definitivamente approvata, ma quasi certamente passerà al vaglio del referendum. 

Capire quali sono le conseguenze, con analisi scevre da pregiudizi politici, diventa quindi fondamentale per indurre i cittadini del Nord come quelli del Sud a votare e a fare scelte consapevoli.

La legge prevede il trasferimento della gestione dallo Stato alle regioni di 23 materie, su richiesta di queste ultime. Si tratta di materie fondamentali per lo sviluppo e la garanzia dei diritti essenziali di cittadinanza, come scuola, sanità,  energia, infrastrutture, trasporti, ecc. Una volta concordato il trasferimento delle competenze richieste, lo Stato deve trasferire alla regione le risorse finanziarie e il personale dipendente dal ministero competente. Da quel momento, la regione può legiferare nelle materie devolute in piena autonomia, stabilendo anche salari e stipendi dei suoi dipendenti.

È facile prevedere che le regioni ricche useranno l’autonomia per incrementare l’offerta di servizi ed attrarre personale laddove c’è più carenza, come nella sanità, offrendo stipendi doppi o tripli rispetto a quelli delle regioni povere, come già oggi avviene con le regioni a Statuto speciale, a cui questa legge si ispira. 

I fautori della legge sostengono che, comunque, verranno garantiti i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) su tutto il territorio nazionale. Per capire se l’autonomia differenziata è compatibile con la realizzazione dei Lep, basta osservare che già oggi lo Stato, con una capacità fiscale ben superiore a quella che avrebbe dopo la realizzazione dell’autonomia, non è in grado di garantire i Lep nel solo settore della sanità (cioè i Lea), a causa dei vincoli di bilancio imposti dall’enorme debito pubblico dell’Italia. Comunque, la Banca d’Italia ha stimato che per realizzare i Lep su tutto il territorio nazionale occorrono 100 miliardi aggiuntivi all’anno. Se a questi si aggiungono altri 100 e più miliardi di debito derivanti dalla realizzazione del Pnrr, si può comprendere come l’autonomia differenziata creerà una miscela esplosiva fatta di maggiore spesa pubblica, a cui lo Stato italiano non sarà in grado di farvi fronte, perché intanto con l’autonomia differenziata ha trasferito gran parte della capacità fiscale alle regioni ricche. Altro che spingere le regioni del Sud a svegliarsi e non vivere di assistenzialismo!

Il vero pericolo dell’autonomia differenziata è quello di trasformare l’Italia in un paese come l’Argentina, e questo non può non preoccupare i cittadini del Nord come quelli del Sud. Consapevole di questo pericolo, la stessa maggioranza all’ultimo minuto ha introdotto un emendamento (articolo 8 della legge) che stabilisce che ogni anno verrà ridefinita la percentuale di tasse che rimane nella regione che ha ottenuto l’autonomia. Come dire: quello che ti abbiamo dato oggi te lo possiamo togliere domani, se lo Stato non sarà in grado di ripagare il debito pubblico. Con la differenza che comunque lo Stato non sarà più in grado di far fronte a crisi finanziarie repentine, come quella che nel 2011 ha costretto Berlusconi alle dimissioni. Un altro esempio di porcata alla Calderoli!

Senza contare che ci sono delle ragioni economiche di efficienza ed equità che giustificano una gestione centralizzata di alcune materie. In teoria, con l’autonomia differenziata ogni regione potrebbe avere un sistema energetico, di trasporti o scolastico differente. Inoltre, solo una gestione centralizzata della sanità, che tenderebbe ad uniformare gli standard dei servizi sanitari pubblici offerti su tutto il territorio nazionale, consentirebbe di garantire il diritto alla salute di tutti i cittadini. Infine, con l’autonoma differenziata ogni regione deve dotarsi di una propria politica ambientale per far fronte ad un problema globale come quello del cambiamento climatico. In altri termini, le problematiche in settori come energia, ricerca e ambiente richiederebbero di essere affrontate a livello sovranazionale, mentre in Italia vengono devolute alle regioni. Comunque, è immaginabile prevedere quali saranno le conseguenze per le imprese che vorranno operare in regioni diverse da quelle di origine, dovendo fare i conti con 20 diverse legislazioni e burocrazie regionali.

In definitiva, l’autonomia differenziata, nata per soddisfare l’egoismo delle regioni ricche, rischia di portare l’Italia al default, perché toglie allo Stato italiano il potere di far fronte a shock esogeni, sempre più frequenti sui mercati finanziari, e riduce le opportunità di crescita del paese, perché la desertificazione del Mezzogiorno a cui porterà l’autonomia differenziata non sarà solo a vantaggio delle regioni ricche, poiché gran parte delle giovani generazioni si trasferiranno all’estero, dove avranno occasioni di vita e di lavoro anche migliori di quelli offerti dal Nord del paese. (ds)

[Courtesy LaCNews24]

PER LE INFRASTRUTTURE MANCANO AZIONI
PER PROGETTI DI MEDIO E LUNGO PERIODO

Infrastrutturedi ERCOLE INCALZA – Fra due anni ci sarà la scadenza delle scelte inserite nel Pnrr e, ormai, almeno per il comparto infrastrutture, in questa fase si sta solo cercando di dare concreta attuazione a programmi ed azioni già contemplate. Lo stato di avanzamento, come annunciato formalmente appena una settimana fa, è pari al 28%. Quindi è inutile continuare ad inseguire un possibile completamento dell’intero Piano e invece penso sia arrivato il momento per dare vita ad una nuova impostazione programmatica. Una impostazione che però tenga conto di una serie di elementi nuovi che ci impongono una attenta impostazione metodologica. Infatti non possiamo sottovalutare i seguenti nuovi atti:

La Ragioneria Generale dello Stato ha diramato una circolare alle Amministrazioni centrali dello Stato (tra cui Ferrovie dello Stato, Anas, ecc.) e agli Uffici centrali del bilancio di tutti i Ministeri in cui si precisa: «È necessario un approccio improntato alla sostenibilità economica in un’ottica di medio – lungo periodo, prestando attenzione anche agli anni successivi al triennio di previsione».

Il rispetto dei parametri comunitari alla luce sia del nuovo Piano di Stabilità che della esigenza di riportare il rapporto tra debito e Pil verso un sostanziale ridimensionamento; in tal modo si riportano in ambito fisiologico i margini per l’extradeficit e ciò impone un controllo più capillare e sistematico della spesa sul medio e lungo termine.

La richiesta formale del Ministero dell’Economia e delle Finanze a tutte le Amministrazioni centrali di «determinare gli stanziamenti da inscrivere in bilancio sia in termini di competenza che di cassa tenendo conto in maniera puntuale dell’esercizio finanziario in cui la obbligazione verrà a scadenza sulla base della pianificazione della spesa».

Entro il corrente anno disporremo di una riforma del Parlamento europeo, una riforma già definita e che sarà varata solo a valle dell’insediamento dei nuovi parlamentari. Una riforma che dà un ruolo determinante al Parlamento e ne consente anche la produzione di nuove norme e di nuove direttive.

I primi tre punti sono, a mio avviso carichi davvero di un forte spirito riformista, da parecchio tempo, insieme al professor Paolo Costa, attraverso anche un’apposita ricerca effettuata dal Centro di ricerca Astrid diretto da Franco Bassanini, abbiamo denunciato l’assenza di azioni programmatiche di medio e lungo periodo. In fondo lo stesso Pnrr si caratterizzava come un atto programmatico di breve periodo e per le proposte infrastrutturali contenute al suo interno non poteva assolutamente considerarsi uno strumento di ampio respiro. Quindi non possiamo assolutamente sottovalutare un vero cambiamento che riusciamo a leggere dopo dieci anni di stasi programmatica. Nella circolare del Ministerio dell’Economia e delle Finanze penso che il passaggio più significativo sia proprio il richiamo a «tenere conto in maniera puntuale dell’esercizio finanziario in cui la obbligazione verrà a scadenza sulla base della pianificazione della spesa».

Sembra strano ma questa circolare reinventa integralmente l’impianto della stessa Legge di Stabilità e questo cambiamento lo leggeremo sicuramente, in modo più articolato e motivato, nella prossima Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Nadef).

Ed allora di fronte a questo cambiamento più volte invocato e motivato soprattutto negli ultimi mesi come detto prima, ritengo utile cominciare ad elencare le aree programmatiche che, proprio nel rispetto della circolare del Ministero, dovranno essere adeguatamente caratterizzate da una identificazione finanziaria non generica ma insilata nelle possibili annualità entro cui effettuare, davvero, la spesa. In fondo la stessa Ragioneria Generale dello Stato non chiede, a mio avviso, Piani e Programmi generici ed estranei da un riferimento misurabile di reale accesso alle risorse.

Per ora indico delle aree che, in modo trasversale, dovranno poi trovare concreta attuazione in specifici filoni strategici; in particolare ritengo prioritarie le seguenti aree: La rilettura integrale della offerta logistica, in particolare di tutti gli Hub (porti, interporti, aeroporti e aree del mercato). Allo stato il Paese vive di una articolazione di tali Hubcompletamente sbilanciata: il Mezzogiorno ed in parte anche il Centro del Paese sono privi di adeguati impianti. Inoltre la digitalizzazione dei singoli HUB e la interazione degli stessi con i vari operatori logistici sta diventando concreta solo in questi ultimi mesi dopo praticamente quasi quattro anni di stasi, ricordo in proposito che il Regolamento Ue 2020/1056 sulle informazioni elettroniche sul traporto merci (electronic Freight Transport Information– eFTI) è disponibile da 4 (quattro) anni e che la direttiva Nis2 (Network and Information Security) impone l’implementazione di controlli di sicurezza olistici e rigorosi per ridurre i rischi e prevenire danni di cybersicurezza a sistema e dati, entro la fine del 2024.

Quindi dopo praticamente quattro anni di approfondita meditazione oggi non abbiamo più alibi per partire e offrire un impianto gestionale di medio e lungo periodo, ripeto di medio e lungo periodo, che consentirà, grazie anche alla Ram – Logistica Infrastrutture e Trasporti S.p.A., alla domanda di trasporto, alla miriade di piccole e medie imprese, di trovare una rete di informazioni ed una assistenza capillare. Sembra strano ma questo intervento sicuramente ridimensionerà quel danno che nel 2022 ha subito il mondo della produzione del nostro Paese, un danno superiore a93 miliardi di euro (dati Istituto di Ricerca Divulga della Coldiretti)

Riforma della offerta portuale ed interportuale; da tempo segnalo l’urgenza di una riforma organica dell’intero comparto, cioè sia della portualità che della interportualità e della interazione funzionale tra le due tipologie. In realtà occorre intanto definire cosa siano davvero gli assetti interportuali, il riferimento normativo è nella Legge 240 del 1990, cioè trattasi di un provvedimento di 34 anni fa che non poteva tener conto di tutto quello che, in tutti questi anni è successo in un mondo in cui la digitalizzazione è diventata la base vitale. Analogo discorso va fatto per la portualità in cui la riforma di base è nella Legge 84 del 1994 (cioè un provvedimento di trenta anni fa). Ho più volte lamentato, dopo venti mesi di vita dell’attuale Governo, l’assenza di proposte di riforme e, addirittura, ho anche ribadito che se non si è ancora pronti a produrre una riforma organica delle due realtà logistiche (porti ed interporti) si produca quanto meno una norma singola da inserire in qualche provvedimento già in corso di esame del Parlamento in cui si definisca e si autorizzi la “autonomia finanziaria” dei soggetti preposti nella gestione di tali Hub.

Mi fermo qui e nelle mie prossime note elencherò quali debbano essere gli oggetti, le caratteristiche e le possibili procedure attuative delle altre aree portanti di un nuovo quadro strategico di medio e lungo periodo. (ei)