IL MERIDIONE BATTERIA DELL’EUROPA: UN
AFFARE PER IL PAESE MA DANNEGGIA IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl Mezzogiorno batteria dell’Europa. Sembra una conquista: finalmente con la chiusura dei rifornimenti da parte della Federazione Russa il Mezzogiorno diventa centrale. E allora impianti eolici, solari, passaggio di reti elettriche di collegamento con il Nord Africa, attraversamento di reti di collegamento dalla Sicilia alle Alpi, arrivo di navi gasiere per trasformare l’energia  liquida con rigassificatori posizionati sulle coste.  

Qualcuno si è reso conto però per prima che l’affare non è per le realtà che sono interessate a diventare la cosiddetta Batteria e invece che  si tratta di un secondo sfruttamento, dopo quello avvenuto con il posizionamento delle tante raffinerie e delle fabbriche di industria pesante che hanno rovinato la costa di Gela, Milazzo, Augusta, Taranto, Bagnoli e la salute delle popolazioni residenti nelle aree. 

E infatti la Sardegna ha già sospeso le autorizzazioni per impianti solari e eolici che oltre a sottrarre suolo alle culture di eccellenza, che possono localizzarsi in Sardegna, modificano lo skyline dei territori, peggiorandolo notevolmente. 

Altre regioni come la Sicilia esultano per la mole di investimenti fatti dalle aziende che si occupano di tali impianti, dimenticando che è un’operazione da apporre nel conto economico tutta dalla parte del dare. 

Il rigassificatore che si vuole costruire a Porto Empedocle, a pochi chilometri dalla Valle del Templi e dalla casa di Pirandello in realtà porterebbe a regime un numero di posti di lavoro inferiore a quelli di un solo grande albergo, anche se lavoro di livello elevato, ma di contro costituirebbe una grossa servitù per il porto che invece potrebbe essere molto meglio utilizzato per accogliere le grandi navi crociere e costituire l’Hub per il collegamento lento e veloce con le isole Pelagie, Pantelleria, ma anche il Nord della Tunisia. 

 Tale premessa non ha il significato di affermare che il territorio meridionale non può essere utilizzato per produrre energia pulita per tutto il Paese, che ne potrebbe avere sempre più esigenza, in attesa probabilmente di ritornare all’energia nucleare, ribaltando una decisione autolesionista che ha portato il costo dell’energia per le nostre imprese tra quello più alto dei paesi occidentali, costituendo una penalizzazione notevole per le nostre esportazioni, che hanno molta più difficoltà a competere. 

Se tutto questo avviene in un’ottica programmata di attenzione al territorio, considerato che la vocazione turistica delle aree ha bisogno anche di preservare e proteggere un ambiente fragile, come peraltro stanno facendo in Toscana, dove le valli e le colline, caratterizzate dai cipressi che “a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar” di carducciana memoria, diventano elemento  costitutivo e protetto del paesaggio può essere un fatto positivo. 

Se oggi con l’handicap del caro energia abbiamo superato anche il Giappone nella dimensione economica delle esportazioni, pensate a cosa riusciremo a fare se avessimo anche una energia a basso costo. Infatti i brillanti risultati del farmaceutico a Napoli e dell’alimentare nel Meridione portano il Paese a 373 miliardi esportati nei primi sette mesi del 2024, quarti al mondo prima di Giappone (368), Corea del Nord (361), Francia (352), Canada (302) e Gran Bretagna (266).   

Ma se il futuro è quello di essere fornitori di energia per il Paese e per l’Europa e contemporaneamente salassati da una perdita di capitale umano, spesso giovane, che ci porta a un costo per le casse regionali di una perdita di 20 miliardi l’anno, allora il Mezzogiorno deve dire, come ha fatto la Presidente della regione Sardegna, Alessandra Todde, “noi non ci stiamo”.  

E non dovremmo gioire alla notizia che Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase) ha autorizzato l’infrastruttura elettrica Bolano-Annunziata, un collegamento elettrico sottomarino in corrente alternata a 380 kV di Terna, che unirà la Sicilia e la Calabria. Perché la realizzazione dell’opera non diventa strategica per la rete siciliana ma  per l’intero sistema elettrico nazionale. E che la società, che ha come primo socio Cdp reti (29,851%), abbia previsto un investimento di 128 milioni di euro non ci deve fare esultare. L’infrastruttura – fa sapere la società – incrementerà fino a 2.000 MW la capacità di interconnessione tra la Sicilia e il Continente a beneficio dello sviluppo e dell’integrazione delle fonti rinnovabili previsto nel Sud Italia.  Bella notizia per il Paese solo costo per la Sicilia.

 O notizie come quella riportata “Prende sempre più corpo il ponte energetico che unirà Europa e Africa, passando per la Sicilia, attraverso l’elettrodotto «Elmed». E proprio ieri è stato compiuto un ulteriore passo in avanti, con il protocollo d’intesa siglato a Palermo tra il presidente della Regione, Renato Schifani, e Giuseppina Di Foggia, amministratore delegato e direttore generale di Terna, che realizzerà l’opera con Steg, gestore della rete elettrica tunisina”, non devono essere salutate con tanto entusiasmo.      

Mentre i ristori promessi sanno di mancette che serviranno per la successiva festa del paese che potrà servire al sindaco di turno per aumentare il suo consenso. 

«Inoltre la Regione siciliana e Terna hanno condiviso per la nuova infrastruttura, cofinanziata dalla Commissione Europea tramite il programma Connecting Europe Facility, un accordo per l’attuazione di opere di riqualificazione territoriale ambientale. Nello specifico, Terna erogherà un contributo di un milione di euro per opere di compensazione ambientale che la Regione integrerà con altri 4 milioni provenienti dal Fondo di sviluppo e coesione. In totale 5 milioni di euro che saranno utilizzati per l’anastilosi, ovvero la ricomposizione parziale mediante l’utilizzo dei pezzi originali, delle imponenti colonne Sud del tempio G nel Parco archeologico di Selinunte. In più saranno erogati ulteriori contributi ai due Comuni interessati: 600 mila euro a Castelvetrano, e 2 milioni a Partanna». 

Siamo a miserie contrabbandate come regali importanti, a specchietti che vengono venduti come brillanti, per i poveri meridionali ancora con l’anello al naso. 

Nulla di impianti di aziende manifatturiere importanti da  localizzare in territori dove lavora una persona su quattro invece che una su due, che si stanno spopolando perché i giovani vanno già a studiare nelle università settentrionali, sicuri che in questo modo troveranno un lavoro.

Niente di tutto questo. Soltanto specchietti contrabbandati per brillanti. E la politica locale, spinta dagli interessi nazionali, fa il controcanto, contrabbandando il prezzo che paga per un vantaggio che riceve. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

AV, IL TRACCIATO TIRRENICO COSTA DI PIÙ
E AUMENTA LA “DIVISIONE” TRA TERRITORI

di ROBERTO DI MARIA – Le vicende legate alla scelta del tracciato per la linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria ad AV pongono all’attenzione dell’opinione pubblica interrogativi inquietanti sul ruolo della tecnica in scelte fondamentali per lo sviluppo dei territori e dell’intero Paese. Senza dimenticare che il tracciato da scegliere, ricadendo nella Rete Ten-T, riveste importanza su scala continentale.

Già la scelta del tracciato per la tratta più settentrionale, da Battipaglia-a Praia a Mare, aveva suscitato le proteste, non certo ingiustificate, degli abitanti del Cilento, che da almeno 150 anni ospita il principale corridoio di collegamento tra l’estremo Sud d’Italia, Sicilia inclusa, e l’Europa. Come sappiamo, ha prevalso l’itinerario che percorre il Vallo di Diano, e già si lavora, anche se le polemiche non sono ancora del tutto sopite, su uno dei tre lotti che lo compongono.

Continua, invece a tenere banco la scelta del tracciato che da Praia condurrà a Reggio Calabria, dividendo chi preferirebbe un percorso “a monte”, lungo la valle del Crati fino a Cosenza per poi riscendere sulla costa, verso Lamezia Terme, e chi vuole percorrere la costa tirrenica, in prossimità della vecchia linea. Soluzione, quest’ultima, che sembra prevalere, e che, peraltro, non taglia completamente fuori la città di Cosenza: prevede infatti il completo rifacimento e raddoppio della linea che la collega a Paola, attraverso la lunga galleria Santomarco, rendendo accessibile la futura linea costiera AV in pochi minuti.

A costo di essere impopolari, bisogna ammettere che è difficile, con ragionamenti squisitamente tecnici, preferire il tracciato “cosentino”, più lungo di ben 40 km e che implica maggiori costi e tempi di percorrenza. Oltre a incontrare rilevanti problemi geomorfologici quali il doppio attraversamento della catena costiera calabrese che si frappone tra la valle del Crati e il Tirreno.

Perché questo percorso fosse stato preferito ai tempi della ministra De Micheli e fino a un anno fa è un mistero. È impossibile, infatti, che non fossero già noti i gravi inconvenienti geomorfologici messi in evidenza, dal Sottosegretario Ferrante lo scorso anno, quando venne ufficializzata la preferenza per il corridoio costiero; d’altronde ogni scelta porta inevitabilmente con sé inconvenienti, anche dolorosi.

Come è altrettanto vero che ognuno dei due percorsi è sostenuto dai cittadini e dai politici che ne trarrebbero giovamento in quanto rispondente ad interessi concreti comprensibilissimi. Preoccupa non poco, però, che tale diversa visione divenga causa di contrapposizioni partitiche a livello nazionale, in quanto sottintende una subordinazione del modello di sviluppo complessivo a particolarismi che mal si conciliano con lo sviluppo equilibrato di un Paese. Se è vero che la tecnica non può sostituirsi alla politica, è altrettanto vero che la seconda non può ignorare la prima, correndo il rischio non solo di sprecare le risorse dei cittadini ma, soprattutto, di imporre soluzioni impraticabili

In questa polemica può essere d’aiuto la visione emersa dal Libro Bianco dei Trasporti europei del 2011, nel quale si spiegava come i grandi Assi di collegamento (Core Network) dovessero “accorciare” il più possibile le distanze tra i territori, riservando alle connessioni successiva (Comprehensive Network)  il compito di “avvicinare” i centri che non ricadono sull’Asse. Non per niente la prima andrebbe completata entro il 2030 e la seconda entro il 2050. Indicazioni che derivano da scelte improvvisate ma da approfonditi studi di Economia dei Trasporti, stante anche il fatto che i singoli collegamenti secondari “secondari” costano molto meno dei grandi Assi e vengono alimentati da questi ultimi.

In altre parole, allungare il percorso dell’AV Sa-Rc e renderlo molto più costoso per passare da Cosenza favorisce certamente i cosentini ma tradisce la visione europea. Le linee guida suggerite dall’Ue sono chiare, derogare è certamente nella facoltà dei governi ma finisce per tradire i criteri ispiratori.

L’importante è, però, non perdere tempo ed evitare di prolungare ancora per chissà quanti anni l’agonia di territori che non possono più permettersi di aspettare i ritardi della politica. (rdm)

[Roberto Di Maria è dottore di ricerca in Infrastrutture dei Trasporti e amministratore di “Sicilia in Progress”]

UN PONTE CHE DIVIDE ANZICHÉ AVVICINARE
NON C’È ACCORDO SU NULLA, COME SEMPRE

di BRUNO TUCCISi farà mai il ponte del “mai”, quello per intenderci che dovrebbe unire la Calabria alla Sicilia? “Sarà un’opera grandiosa, forse unica al mondo”, sostengono i fautori del sì. “Ci sono problemi ben più urgenti”, rispondono coloro che sono assolutamente contrari alla costruzione. Sono come due tifoserie delle curve di uno stadio di calcio. Polemiche roventi, discussioni a non finire, interventi di tecnici, ingegneri o architetti e la solita politica che non può mancare.

Da Villa San Giovanni alla Sicilia si dovrebbe arrivare in una manciata di minuti evitando così la noia di una traversata, il pericolo del mare agitato, le lunghe file d’estate nel periodo delle vacanze. Già, ma allora chi è che dice  sì o no e si oppone con determinazione a questo ponte di cui si parla da oltre cinquant’anni?

Ripetono i contrari: «Vi siete mai chiesti quali sono le infrastrutture in queste due regioni?». Quando sente ripetere un simile ritornello Matteo Salvini esce dai gangheri e replica a tono senza peli sulla lingua. Per lui, il padrino dell’opera, lo strenuo difensore della costruzione non ci sono dubbi: «Aiuteremo la disoccupazione, il commercio aumenterà, nel mondo si parlerà spesso del nostro paese per aver proposto e finito quest’opera».

Intanto, però, è stato stabilito un nuovo rinvio dei lavori. Braccio di ferro sul territorio che dovrebbe essere espropriato, incertezze su alcuni interventi collaterali che non possono essere rimandati. Allora, quanto si dovrà aspettare ancora? Chi lo sa? Probabilmente all’infinito per alcuni. Per altri, più ottimisti, prima di Natale. 

Ma le parole volano via con il vento, sono i fatti ad essere determinanti. Per ora, dunque i dubbi e le perplessità rimangono e non si possono nascondere. La sinistra strepita, ritiene che è assurdo pensare ad un’opera che non è prioritaria ed elencano   le necessità di cui il Mezzogiorno soffre da Napoli in giù. Alcuni esponenti politici calabresi e siciliani si accodano alla protesta della gente che ricorda ciò che manca con urgenza alla Calabria ed alla Sicilia. Per raggiungere l’isola in treno non c’è una strada ferrata che si rispetti. L’alta velocità è un sogno di là da venire nonostante le promesse. La statale jonica, famosa per essere fonte di disastri continui, spesso mortali, è ancora in alcuni tratti quella degli anni sessanta. Per arrivare da Taranto a Reggio ci vogliono otto o nove ore quando ti va bene. Meglio non parlarne se hai in mente di prendere un treno. 

In Sicilia, la situazione peggiora. L’autostrada principale porta da Palermo a Catania, ma è un miracolo se non trovi lunghi tratti di lavori in corso. Per il resto è buio fitto, come lo è se vuoi servirti della strada ferrata. «Perché con i soldi che dovremmo spendere per il ponte, non si viene incontro a queste impellenti  esigenze della popolazione?», ritengono i sostenitori del no. «Si vuole rimanere indietro di anni», rispondono coloro che sono a favore del ponte.

«Venga giù Matteo Salvini a toccare con mano se abbiamo ragione a torto», dicono chi non vuole più sentir parlare dell’opera “Mai”, ripetono con un asfissiante ritornello. La situazione si aggrava e diventa ossessiva se si apre una discussione sulla salute. Mancanza di ospedali, di medici, di infermieri, strutture vecchie ed obsolete, tanto è vero che i viaggi della speranza per andarsi a curare al Nord aumentano a vista d’occhio come la fuga dei giovani cha hanno pochissime possibilità di trovare un lavoro.

Ecco perché il ponte sullo stretto divide ancora una volta l’Italia. Non c’è un accordo su nulla. È impossibile per il momento trovare un’intesa. Così si rinvia l’inizio dei lavori, un ritornello che si ripete da mesi. In tal modo i milioni di euro rimangono nel cassetto con la buona pace dei sì e dei no. Ne discuteranno ancora i nostri figli e i nostri nipoti? Probabilmente. (bt)

PROVINCIA JONICA, IL DOPPIO CAPOLUOGO
POTREBBE CHIUDERE STORICHE VERTENZE

di DOMENICO MAZZA –  Fino a qualche decennio fa, nella creazione di nuovi ambiti provinciali generati per scissione da precostituiti Enti, si dotavano i Capoluoghi delle neonate Province di tutta una serie di servizi legati alla capillarizzazione periferica del sistema centrale dello Stato. Nel corso degli ultimi anni, a seguito dei processi di spending review e della graduale aziendalizzazione degli apparati pubblici, lo Stato ha razionalizzato i processi di spesa e di devolution. I servizi, pertanto, sono stati assegnati seguendo non già la logica degli ambiti provinciali, ma sulla base di rigorosi criteri legati all’ampiezza dei territori e alla loro demografia. Il vecchio termine di Provincia, col tempo, ha ceduto il passo al più dirompente concetto d’Area Vasta. Ad oggi, in molti credono che le Province siano state soppresse. Esiste la convinzione, infatti, che il passaggio da un sistema elettorale diretto ad uno di secondo livello abbia generato la dismissione dell’Ente. Non è così! Anzi, è vero il contrario.

Il buio in cui brancola l’Establishment jonico

Dopo anni di profondo letargo sul tema, la Politica jonica ha, nella coda d’estate, riacceso i riflettori sul tema. Tuttavia, leggendo quanto riportato nei dispacci di stampa, si scorgono grossolani errori percettivi e valutativi circa il nuovo impianto geo-politico che si vorrebbe scorporare all’attuale contesto cosentino. Tale condizione, non aiuta i neofiti della materia amministrativa a raccapezzarsi sulle aspettative che potrebbero derivare dalla costituzione di un Ente di secondo livello. Ancora oggi, a distanza di oltre 10 anni dalla legge 56/14 (Delrio), taluni, pensando forse ad un caso di sinonimia, confondono il concetto di Provincia con quello di Area Vasta. Nonostante l’ultimo termine sia entrato nel vocabolario amministrativo da circa un ventennio, si fa fatica a classificare le sottili differenze con il primo. Il più delle volte, infatti, si finisce con esprimere concetti che mal delineano le diversità di una nomenclatura per nulla scontata.

Senza la creazione di ambiti ottimali non c’è devolution da parte dello Stato

La Provincia è un Ente di secondo livello, a limitata capacità amministrativa, intermedio tra Comune e Regione. Conseguentemente la riforma Delrio, ha mantenuto deleghe specifiche in materia di viabilità ed edilizia scolastica. In alcuni casi, il perimetro di una Provincia può corrispondere a quello di un’Area Vasta. Tale condizione si verifica quando territorio e demografia dell’ambiente provinciale esprimono 2500km² e almeno 350mila ab. A seguito, poi, delle modifiche apportate nell’ultimo decennio al Tuel (Testo Unico degli Enti locali), in caso di istituzione di nuove Province, lo Stato non è tenuto a dotare di decentramento amministrativo periferico il Capoluogo del nuovo Ente.

L’Area Vasta, invece, è una classificazione geo-politica che non gode di Rappresentatività diretta. Accentra, in identificate Località d’ambito e comprensoriali, sulla base di rigorosi parametri demografici, tutte una serie di competenze dapprima assegnate ad ogni Capoluogo di Provincia. Il metro d’Area Vasta è il sistema oggi utilizzato per stabilire l’erogazione dei servizi ad un territorio o ad agglomerati territoriali contermini. Rappresenta, altresì, il metodo di capillarizzazione delle funzioni di prossimità lungo il territorio nazionale. Classifica, quindi, il sistema di decentramento effettivo dei servizi statali.

L’ambiente provinciale, dunque, corrisponde a quello di un’Area Vasta solo quando si suffragano specifici requisiti demografici e territoriali. In tutti gli altri casi, le Aree Vaste assommano più ambiti provinciali con accentramento dei servizi in sede al Capoluogo più rappresentativo degli agglomerati provinciali costituenti il perimetro vasto.

Questa breve classificazione per chiarire un assunto: il principio utilizzato nella erogazione dei servizi centrali, da oltre un decennio, non è più quello dell’ambito provinciale, bensì il dedicato range demografico d’Area Vasta.

Non esiste elevazione amministrativa quando mancano i numeri

Creare ambiti provinciali senza contestualmente inverare i parametri d’Area Vasta, significa non determinare alcuna modifica nella ramificazione periferica dei servizi statali. Vieppiù, l’operazione si dimostra inidonea a scalfire i cristallizzati equilibri politici in capo ai preesistenti contesti.

Con la riforma degli Enti intermedi, in attesa di licenza da parte del Governo, saranno reintrodotti i criteri di suffragio universale nelle elezioni provinciali. Tuttavia, il Disegno di Legge non apre alla istituzione di nuovi Enti. Quand’anche fosse possibile, è bene rimarcare che l’idea di una nuova Provincia, senza che questa abbia i requisiti per poter aspirare ad un inquadramento di tipo vasto, sarebbe assolutamente inutile ai fini di un’agognata autonomia politico-istituzionale del nuovo perimetro amministrativo.

D’altronde, pensare di ritagliare un nuovo Ente, mantenendosi nel solo alveo della Provincia di Cosenza, ci mette davanti ad una serie di problematiche. Prima fra tutte, permettere ai due ridisegnati Enti di godere della forza numerica e territoriale su richiamata. Fermo restando i circa 700mila abitanti della Provincia di Cosenza, si dovrebbero immaginare due ambiti di circa 350mila abitanti cadauno. Alla conta dei numeri, l’idea Sibaritide-Pollino, nella migliore delle ipotesi, potrebbe spingersi fino a 250mila persone. Già questo dato, oltre i limiti derivanti dalla mancata omogeneità territoriale tra un ambiente riviesco e un’area valliva, dovrebbe farci desistere dal proseguire in azioni sconsiderate. A meno che, con manie di malriposto protagonismo, non si voglia arrivare a bussare alle porte di Rende. Raggiungere la soglia dei 350mila abitanti, partendo dalla linea di costa sibarita, significherebbe spingersi fino alle sponde del Campagnano. Tuttavia, dubito che la prosopopea ammaliatrice jonica possa convincere le Amministrazioni della cinta bruzia a sentirsi parte di un contesto estraneo alle proprie peculiarità.

Contrariamente, l’idea di un nuovo perimetro provinciale che parta da un Ente già precostituito, ma infruttuoso a sé stante (Crotone), allargando la sfera di competenza a tutto il contesto dello Jonio cosentino, godrebbe dei requisiti richiesti per inverare appieno la condizione di ambito ottimale. Il doppio Capoluogo, esperimento già promosso dall’attuale Governo con la elevazione di Cesena e Carrara, consentirebbe di impostare il nuovo ambito su base policentrica. Nessun Ente aggiuntivo, quindi, ma la riorganizzazione funzionale delle definizioni perimetrali attuali. L’omogeneità territoriale presente tra la Sibaritide e il Crotonese, inoltre, consentirebbe di avviare processi di rivendicazione comuni. Si potrebbero chiudere, definitivamente, storiche vertenze aperte: dalla costituzione di un’Azienda Ospedaliera (che non è una semplice Asp), alle medesime battaglie di mobilità e trasporti, alla salvaguardia del comune patrimonio archeologico per finire alla maggior tutela dello specchio d’acqua del golfo di Taranto. Quest’ultimo, oggi più che mai, oggetto di sempre più accentuate speculazioni romane.

Significherebbe declinare, con l’autorevolezza di un reale ambito vasto e con l’ausilio dei numeri, la prospettiva dell’Arco Jonico, ristabilendo una condizione d’equilibrio geo-politico con i tre Capoluoghi storici della Regione.  (dm)

CONTRO L’EMIGRAZIONE GIOVANILE SI DEVE
PUNTARE A COLMARE IL DIVARIO NORD-SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVale 134 miliardi il capitale umano uscito con i giovani italiani emigrati: dalla Lombardia 23 miliardi, dalla Sicilia 15 e dal Veneto 12, e la quota dei laureati che vanno via diventa sempre più consistente. Così in una nota, firmata Lorenzo Di Lenna, ricercatore junior e Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est, viene calcolato il costo del deflusso di giovani dal nostro Paese.

Nei tredici anni 2011-23 il valore del capitale umano che se ne è andato dall’Italia, e riguardante i giovani 18-34 emigrati, è pari a 133,9 miliardi, con la Lombardia a primeggiare per perdita (22,8 miliardi), seguita dalla Sicilia (14,5), dal Veneto (12,5) e dalla Campania (11,7). 

In realtà il dato assoluto in questo caso non ha alcun senso. Se invece esso viene rapportato alla popolazione residente in ciascuna regione ci si accorge facilmente che la classifica è diversa e vede il valore dei giovani meridionali che abbandonano quello più elevato. E questo calcolo riguarda soltanto il movimento rispetto ai trasferimenti in altre nazioni d’Europa e del mondo. Non tiene conto invece dei trasferimenti all’interno del nostro stesso Paese. Possiamo aggiungere allora che ogni anno le regioni del Sud “regalano” a quelle del Nord una cifra vicina ai 20 miliardi di euro, considerato che ogni ragazzo che viene formato fino alla scuola media superiore ha un costo che viene calcolato in circa 200.000 € e che ogni anno si trasferiscono dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese 100.000 giovani, la maggior parte dei quali sono laureati e che quindi hanno un costo maggiore dei 200.000 € che sono stati riportati prima. 

Lanciare un grido d’allarme per evidenziare che il nostro non è un Paese attrattivo è corretto. Spesso le remunerazioni sono molto basse, vedasi cosa accade con i medici, che trovano convenienti le condizioni complessive offerte altrove. I diritti a cui si può accedere sono più ampi all’estero, si pensi al welfare di cui godono le giovani mamme o spesso ad una sanità che da noi non è all’altezza delle aspettative, soprattutto nel Mezzogiorno.

Insomma non solo un lavoro meglio retribuito, ma anche un welfare più consistente sono le motivazioni alla base della scelta di chi preferisce abbandonare l’Italia e trova conveniente spostarsi. Ma una distinzione tra coloro che abbandonano il Mezzogiorno e quelli che abbandonano il Centro Nord va fatta.

Infatti non si tratta dello stesso tipo di trasferimento. Nel Nord si assiste ad un processo, che peraltro può essere anche virtuoso, perché consente ai giovani italiani di acquisire skill che magari in Italia avrebbero più difficoltà a conseguire. 

Si chiama mobilità ed è un processo in genere bidirezionale, da un paese all’altro, ed arricchisce entrambi i territori. Il giovane inglese viene a lavorare in Italia e il suo collega italiano va a Londra. Nel loro percorso di vita ci potrà essere un ritorno nelle loro aree di origine, perché non sarà difficile per l’ingegnere che si è specializzato in un’azienda londinese trovare la possibilità di essere accolto in una altrettanto bell’azienda brianzola, nella quale potrà continuare il lavoro che svolgeva nella prima. 

Caratteristiche diverse ha l’abbandono dei territori meridionali: in tal caso si parla di emigrazione, che è quel fenomeno che riguarda i paesi poveri, che li depaupera delle migliori energie, che non hanno alcuna possibilità di trovare collocazione nel sistema imprenditoriale esistente. 

In quel caso si tratta di una perdita netta perché senza ritorno: essendovi un sistema manifatturiero imprenditoriale molto carente, le professionalità che vanno via difficilmente potranno trovare collocazione in un eventuale loro, desiderato, ritorno, che avverrà probabilmente soltanto nella fase della pensione.

Per cui il danno sarà doppio: la prima volta lo si avrà quando si perde il costo della formazione sostenuto dalla Comunità di appartenenza, la seconda volta al loro ritorno nelle terre di origine, perché queste dovranno farsi carico di fornire le prestazioni sanitarie, che, come è noto, sono molto più frequenti quando si raggiunge una certa età. 

Peraltro il Nord del Paese, in ogni caso si rifà di eventuali perdite di capitale umano formato attraendo i giovani meridionali, spesso con operazioni di comunicazione scientifiche e programmate. Il Sud invece ha performance simili a quelle dei Paesi in via di sviluppo, come Tunisia, Marocco, Libia.

La differenza è che dal Nord Africa o dall’Africa Centrale arrivano con i barconi, dal Sud basta un volo low cost, ma il depauperamento è uguale.    

Certo consentire un tipo di abbandono come quello di cui si è parlato senza che lo Stato di appartenenza possa rifarsi perlomeno in parte dei costi sostenuti per “l’allevamento“ di tali giovani è un percorso che va rivisto. Anche se in una libera Europa, dove merci e persone possono muoversi liberamente, pensare a rimborsi dovuti allo Stato da chi lascia la propria nazione è assolutamente inimmaginabile, come lo è però la cannibalizzazione che viene fatta nei confronti di alcuni paesi, tipo per esempio la Croazia. 

I meccanismi seri che possono alla base evitare tali processi che impoveriscono alcune aree riguardano soltanto lo sviluppo di esse, le eliminazioni dei divari, che poi è quello su cui l’Europa sta cercando di lavorare più alacremente. Ma è anche il percorso più difficile. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’altravoce dell’Italia]

IN CALABRIA EMIGRAZIONE SANITARIA DA
RECORD: ALLA REGIONE COSTA 294 MLN

I pazienti fuggono dal Sud e fanno ricchi gli ospedali del Nord. La dinamica non è nuova ma i numeri sono aggiornati al 2023 e raccontano che l’esodo – già notevole – è addirittura aumentato e la Calabria ha il peggior saldo in Italia tra incassi e spese. È, infatti, la Regione con il saldo peggiore (-294 milioni) perché spende 325 milioni per chi va a curarsi fuori e ne incassa appena 31 per chi arriva da altre regioni. Ha superato (si fa per dire) la Campania, dove il saldo è passivo per 285 milioni (444 spesi per i residenti che si curano altrove e 159 incassati per i pazienti in arrivo). Sul gradino più basso dello scomodo podio c’è la Sicilia con 222 milioni di saldo negativo.

Secondo quanto riportato da Repubblica i dati migliori sono tutti al Nord, meta dei tradizionali viaggi della speranza: la Lombardia ha incassato circa un miliardo e speso 421 milioni per i suoi cittadini che si sono curati fuori regioni. Saldo positivo di 579 milioni, superiore ai 466 dell’Emilia-Romagna (comunque in crescita rispetto ai 407 del 2022) e ai 189 del Veneto (anche in questo caso c’è una crescita rispetto ai 176 milioni dell’anno precedente).

I numeri restituiscono l’immagine di una sanità spaccata e di un divario crescente tra Nord e Sud per la qualità dell’assistenza. L’esodo dei pazienti per fare interventi chirurgici, terapie ed esami è aumentato e ha superato i livelli raggiunti prima del Covid. Le cifre finite nei documenti della Conferenza Stato-Regioni sono impressionanti. Sono ormai oltre mezzo milione le persone che si spostano. E, l’osservazione viene da sé, il sistema sanitario è già (molto) spezzettato prima che l’Autonomia differenziata diventi realtà. Cosa accadrà quanto in futuro le Regioni ricche potranno attrarre anche i migliori professionisti rimasti al Sud allettandoli con stipendi più alti? Meno risorse alle Regioni povere e professionisti in fuga: se il presente – come testimoniano i numeri – è complicato, il futuro potrebbe essere un incubo negli ospedali del Meridione.

Se i progetti “separatisti” del governo preoccupano in prospettiva, in Calabria la tenuta del sistema è già assai fragile. Tra il 2022 e il 2023 il dato sulla mobilità passiva è peggiorato, segno che le strutture sanitarie della regione continuano a essere poco attrattive. L’inversione di tendenza tanto attesa e immaginata dalla politica non si è vista e in generale viene confermato il trend nazionale: chi era già attrattivo lo è diventato ancora di più, chi non lo era continua a precipitare e accumulare debiti.

In un anno, secondo i dati raccolti dall’agenzia sanitaria delle Regioni, l’Agenas, sono stati circa 230 mila i cittadini delle realtà in piano di rientro (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia). Il dato è del 2022. Nel 2023 le cose sono peggiorate e la mobilità sanitaria continua a crescere dopo gli anni più duri della pandemia da Covid: il giro d’affari secondo i dati 2023 approvati ieri dalla Conferenza delle Regioni sfiora i 4,6 miliardi, in crescita rispetto ai 4,3 miliardi del 2022.

LA ZES, LO STRUMENTO PER RILANCIARE
IL SUD CHE STA DIVENTANDO INEFFICACE

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Tra il 2003 e il 2017 le Regioni meridionali, dove risiede il 4 per cento della popolazione europea, hanno attratto solo l’1 per cento dell’afflusso di investimenti diretti in Europa. In termini pro capite, gli investimenti diretti alle Regioni meridionali sono stati poco più di un terzo di quelli giunti alle aree arretrate della Spagna e un quarto di quelli affluiti alla Germania orientale». Così nella relazione di Panetta nell’incontro di Catania dell’altro ieri.

In Italia non si è mai posta troppa attenzione in realtà all’attrazione di investimenti all’esterno dell’area, che sono stati ritenuti, soprattutto dalla sinistra, forme di colonizzazione. E invece in tutta Europa si compete perché gli investimenti cosiddetti “greenfield”, cioè quelli che  portano a costruzioni di stabilimenti, con relativa assunzione di dipendenti, magari con la creazione di centri di ricerca, sono molto ambiti, come si è visto peraltro con la vicenda Intel e la localizzazione degli stabilimenti relativi di tale multinazionale a Dresda. 

Cosa diversa sono gli investimenti finanziari che portano al passaggio di proprietà da una realtà nazionale a una realtà multinazionale e certamente impoveriscono i paesi che ne sono vittima.  Come si è visto nella relazione di Panetta, che peraltro riporta dati risalenti a un lavoro del 2020 della Commissione Europea, ma la situazione non è molto cambiata da allora, di Comotti, R. Crescenzi e S. lammarino, intitolato Foreign direct investment, global value chains and regional economic development in Europe, il ruolo del Mezzogiorno nell’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area è assolutamente risibile. 

Le motivazioni sono piuttosto ampie ma certamente la presenza di criminalità organizzata in tutte le aree meridionali, dalla mafia alla camorra, dalla ‘ndrangheta alla sacra corona unita, spesso scoraggia gli investitori che hanno a disposizione aree più sicure in tutta Europa, a cominciare da quelle tedesche per finire a quelle spagnole. Risulta spesso più conveniente localizzarsi in Polonia o in Ungheria piuttosto che in Campania o in Sicilia. 

L’altro elemento che gioca a sfavore del Mezzogiorno è la sua dotazione infrastrutturale, assolutamente carente come é stato riconosciuto, peraltro, unanimemente da tutta la politica nazionale, tanto che il Ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, sta lavorando alacremente per superare un gap che risale all’Unità D’Italia. 

 Ma vi sono altri due elementi che incidono pesantemente nell’escludere il Mezzogiorno dalle aree prescelte dagli investitori internazionali: il costo del lavoro e la tassazione degli utili di impresa eventuali. Mentre la ciliegina sulla torta, che fa ritenere velleitari coloro che decidono di investire al Sud, è la mole di autorizzazioni, di permessi, di passaggi infiniti che fanno sì che alla fine in molti rinuncino. 

 Con le Zes si volevano risolvere tali problemi e poiché era impensabile farlo in tutto il territorio meridionale si era pensato di limitare i provvedimenti ad alcune aree che, per esempio, potevano diventare “criminal free”, con controlli anche elettronici, certamente costosi, e un utilizzo più rilevante delle forze dell’ordine. 

Anche per quanto atteneva al problema dell’infrastrutturazione, avere delle aree limitate vicino ai porti significava poterle collegare facilmente, magari costruendo quell’ultimo miglio che in genere manca sempre, limitando l’impegno e accelerando i tempi, per esempio lavorando notte e giorno, cosa impossibile da fare, per un’area che rappresenta il 40% del territorio nazionale. 

   Per completare anche il costo del lavoro poteva essere ridotto con l’annullamento del cuneo fiscale, cosa che si sta  portando avanti con costi incredibili, ma se tale provvedimento invece che riguardare una realtà ampia si poteva limitare ai nuovi insediamenti e alle zone prescelte. 

Infine la tassazione diminuirla per tutto il sistema imprenditoriale meridionale costituisce un costo che nel tempo è difficile da sopportare. Limitarla per i primi 10 anni di insediamento e per le aree prescelte poteva essere una soluzione auspicabile. 

Infine” last but not least”, immaginatevi una semplificazione amministrativa che riguardi tutte le pratiche che si presentano provenienti da tutto il territorio meridionale, magari accentrate in un unico ministero, come è previsto con la Zes unica. Per quanto Giosy Romano ha dimostrato di essere una eccellenza l’insuccesso non è prevedibile ma sicuro. 

In realtà purtroppo Raffaele Fitto non ha ben compreso il significato profondo delle Zes, che in ogni parte del mondo, vedi caso, riguardano aree limitate. Ha voluto rifare una nuova Cassa Del Mezzogiorno, senza peraltro averne le risorse, inventandosi una Zes unica, che ha tradito gli obiettivi veri dello strumento, perché in realtà invece che attrarre investimenti all’esterno dell’area ha permesso di scegliere centralmente, come forse è giusto, gli investimenti semi pubblici da incoraggiare. 

Ma  le risorse per quanto importanti a disposizione del Governo sono sempre estremamente limitate e le Zes volevano essere la soluzione per condurre lo sviluppo del Sud attraverso capitali privati internazionali. 

Quello che ha fatto in modo determinato la Germania occidentale nei confronti della ex Ddr. Tanto che, come afferma Panetta, sono un quarto  gli importi che riguardano il  Mezzogiorno, pur avendo la ex Ddr un territorio più limitato ed una popolazione che non arriva a 17 milioni contro i 20 del Meridione. 

E allora sarebbe opportuno che il nuovo ministro, se si eviterà lo spezzatino di cui si parla, distribuendo le deleghe del ministero del Mezzogiorno a tutti gli altri ministeri, faccia  un esercizio di umiltà, cercando di capire, magari visitando le Zes  europee o quelle cinesi, il significato profondo dello strumento, per poter poi fare un passo indietro rispetto ad una decisione assolutamente superficiale, demagogica e  populista, che ha fatto tutti Caballeros. Si è accontentata la struttura produttiva esistente, che vota, e che infatti è felice del cambiamento, alla quale si continuano a dare mancette senza, invece, perseguire il vero obiettivo che é  l’aumento della capacità produttiva complessiva e non l’assistenza di quella esistente, magari consentendo ad attività ormai decotte di continuare a rimanere sul mercato. 

E scaricando sul bilancio dello Stato costi impropri, come il cuneo fiscale generalizzato, inopinatamente introdotto dal Ministro Provenzano,  che serve solo ad aumentare il consenso. Come si vede quando si fanno interventi che tendono a far crescere il consenso a breve, senza puntare agli obiettivi veri, destra e sinistra si ritrovano. 

Che i passi indietro sono sempre complicati è risaputo ma  anche  una soluzione potrebbe essere quella che si individuino le aree come era stato stato fatto anche senza plateali ritorni al passato estremamente complicati politicamente. Ma ritorniamo a far funzionare lo strumento che oggi é diventato inefficace, al di là dei proclami. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’AV IN CALABRIA COSTA PIÙ DEL PONTE
MA IL REALE IMPORTO È UNA INCOGNITA

di MASSIMO CLAUSI – La commissione Via (Valutazione di Impatto Ambientale) del ministero dell’Ambiente ha approvato il primo lotto del raddoppio ad alta velocità della linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria. Il primo tratto (1a), va da Battipaglia a Romagnano, 35 km. i due lotti successivi, 1b e 1c da Romagnano a Praia. I costi di questo lotto sono passati da 7 a 9 miliardi, prima ancora di cominciare i lavori (chissà a lavori finiti…).

È questo, è tutto quello che si sa dell’alta velocità in Calabria che rimane un vero e proprio rebus, nonostante il fiume di parole che si è speso sulla centralità di quest’opera. Opera che qualcuno ha definito “regina” del Pnrr visto che è il progetto più importante anche se nessuno sa con esattezza i costi precisi: le previsioni ufficiali per l’intero collegamento sono vaghe, variando da 22,5 a 29 miliardi, cioè fino al doppio del Ponte sullo Stretto di Messina.

Che l’opera, così come pensata, sia davvero così centrale per il Meridione è anch’essa una incognita. Basti pensare che il risparmio di tempo del primo lotto fra Roma e Reggio Calabria è di soli 30 minuti. D’altronde del progetto intero non risulta essere mai stata fatta un’analisi costi-benefici (Acb), nonostante sia prevista dalla normativa vigente.

Il vero problema è che cosa succederà dopo Praia a Mare, nell’alto tirreno cosentino, nessuno sa dirlo con esattezza, nonostante sia stato espletato il dibattito pubblico per permettere a cittadini, imprese ed associazioni di esprimere pareri sul tracciato. Circa un anno fa in un brevissimo comunicato alla Commissione Trasporti della Camera, un sottosegretario del ministero ha dichiarato che il secondo lotto del progetto, quello centrale destinato a collegare le città calabresi di Cosenza e Catanzaro, non era fattibile per insormontabili problemi di costi e di tempi dovuti alla situazione geologica e alle falde idriche del tracciato.

Si è deciso così di scegliere un tracciato alternativo, parallelo alla vecchia linea storica che passa dalla dorsale tirrenica, tagliando fuori di fatto tutta la zona jonica che giorni fa ha festeggiato i cinque anni del Frecciarossa Sibari-Bolzano nemmeno fossimo nel dopoguerra.

Il Pd sta provando con una serie di interventi sui media a chiedere chiarezza sull’opera. Soprattutto sui finanziamenti che dovrebbero, condizionale quanto mai d’obbligo, rinvenire dal fondo nazionale complementare. L’ex deputata, nonché membra della commissione trasporti della Camera, Enza Bruno Bossio ha parlato di dieci miliardi messi dal Governo Draghi sull’opera cancellati dall’attuale governo Meloni. «Né la Regione, né il Governo nazionale hanno mai dato una spiegazione sul perché per consentire la realizzazione dell’Alta Velocità in Calabria siano stati cancellati dal ministro Salvini circa 10 miliardi di euro che la ministra del Pd, on. Paola De Micheli, ha proposto nel bilancio dello Stato – e che il Parlamento su espressa volontà del presidente Mario Draghi ha confermato».

Sia lei sia la responsabile infrastrutture del Pd, Franca Sposato, hanno chiesto al presidente della giunta regionale Roberto Occhiuto di pretendere chiarezza dal Ministro Salvini al di là della retorica propagandista che nella Lega calabrese ha trovato una gran cassa. Arriveranno i treni in Calabria? (mc)

[Courtesy LaCNews24]

NON È QUESTO L’ANNO DEL PONTE: SLITTA
A UN ANNO E MEZZO L’AVVIO DEI LAVORI

di VINCENZO IMPERITURA – Un pozzo da realizzare ex novo nell’acquedotto Catona per rifornire d’acqua potabile il campo base di Santa Trada e un «impianto di affinamento reflui depurati per il riuso delle acque» da collegare al vecchio depuratore cittadino da cui tirare fuori 30 litri al secondo di acqua da destinare ai cantiere operativi di Cannitello e di Piale. Sono queste le conclusioni raggiunte dalla Stretto di Messina in risposta ai numerosi richiami messi nero su bianco dai tecnici del Mase incaricati di valutare il progetto del collegamento stabile tra Calabria e Sicilia rispetto ai timori sul consumo eccessivo di risorse idriche in un territorio da tempo ormai affamato d’acqua.

Sparita l’ipotesi legata ai dissalatori che, una volta costruiti, sarebbero dovuti rimanere in uso alla città, ed evaporati i progetti di intervenire sulla centrale elettrica sul torrente Favazzina per recuperarne le acque di scarto, la Stretto di Messina ha fissato i paletti e, in due relazioni depositate la settimana scorsa alla Commissione del Ministero dell’Ambiente, ha cristallizzato gli interventi da realizzare. Interventi che, a leggere le tabelle di marcia segnate dalla stessa Sdm, allungheranno inevitabilmente i tempi di costruzione dell’opera, considerato che il rifornimento idrico per la montagna d’acqua necessaria alle opere (soprattutto quelle legate allo scavo delle numerose gallerie che dovranno collegare strade e ferrovia al ponte) deve essere disponibile prima ancora dell’inizio dei lavori.

E così, dopo i proclami del ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini sulla imminente fase di cantierizzazione per le opere connesse al ponte (e l’accelerazione della Stretto di Messina sugli espropri, che tanta paura ha accesso tra i cittadini di entrambe le sponde dello Stretto) le nuove argomentazioni presentate dalla società guidata da Pietro Ciucci mettono in chiaro che le opere che devono essere pronte prima dell’inizio del cantiere vero e proprio richiederanno tempo prima di essere realizzate.

Due i problemi maggiori messi in luce dalla Commissione del Mase, che in una delle numerose criticità segnalate rispetto al progetto del ponte chiedeva alla Stretto di Messina di «aggiornare e dettagliare i quantitativi di risorsa idrica necessari per le attività previste nelle attività di cantiere per la realizzazione di tutti gli interventi progettuali, individuando in dettaglio le fonti di approvvigionamento utilizzabili»: da una parte il rifornimento per il maxi campo base di Santa Trada (che sarà più che raddoppiato rispetto al vecchio campo base utilizzato per i lavori di ammodernamento dell’autostrada) e quello, molto più impegnativo, per rifornire di acqua i macchinari che saranno utilizzati per la costruzione dei piloni e per la realizzazione di chilometri e chilometri di nuove gallerie. Soluzioni che, burocrazia permettendo, potrebbero allungare i tempi di almeno un anno e mezzo.

Scartata l’idea di rifornire di acqua potabile il campo base con l’acqua depurata proveniente dalla piccola centrale idroelettrica sul torrente Favazzina, la Stretto di Messina ha puntato tutto sulla costruzione di un nuovo pozzo da affiancare ai dieci già esistenti che riforniscono la cittadina tirrenica: «In particolare – si legge nella relazione presentata al ministero – lo studio è stato mirato a valutare la possibilità di realizzazione di un nuovo pozzo nell’area di campo pozzi Catona, ipotizzando di emungere 10 litri di acqua al secondo in aggiunta al prelievo attuale». Una soluzione che “dimentica” gli antichi problemi del territorio nel reperimento di acqua, limitandosi ad aggiungere nuove bocche da “sfamare” (nel campo base sono previsti più di 500 operai in pianta stabile) alla già satura rete idrica cittadina e che, da solo, necessiterà di mesi di lavori prima di essere operativo: almeno 9 quelli messi in preventivo «fermo restando la redazione del progetto esecutivo degli interventi». Mesi che serviranno ad ottenere tutte le necessarie autorizzazioni e per l’esecuzione dei lavori stessi.

Più complicato (e con tempi molto più lunghi) l’intervento che la Società di Ciucci intende realizzare per rifornire il maxi cantiere di Cannitello (dove sorgeranno i piloni alti 400 metri) e di Piale, dove andranno posati i cavi di ancoraggio dell’intera struttura. In questo caso non sarà utilizzata acqua potabile ma si dovrebbe intervenire sulle acque reflue del depuratore di Cannitello: «Relativamente al cantiere industriale – scrivono i tecnici della Sdm – la soluzione progettuale proposta prevede la realizzazione di un sistema di trattamento e affinamento per riuso, per le acque trattate dal depuratore di Cannitello». Ed è qui che le cose si complicano. L’impianto per il riuso di acque reflue previsto infatti deve essere costruito ex novo e collegato all’attuale impianto esistente che in soldoni significa: tre mesi di indagini per la progettazione, 4 mesi per vedere il progetto esecutivo e altri 3 per espropri e concessioni demaniali a cui si devono aggiungere i tempi tecnici per l’espletamento della Vinca e altri 12 per l’esecuzione dei lavori. Con tanti saluti ai proclami di Salvini sulla prima pietra da posare entro l’anno. (vi)

[Courtesy LaCnews24]

RITROVARE FINE ULTIMO DELLA SCUOLA IN
CALABRIA: UN LUOGO DI LEGALITÀ E VALORI

di GUIDO LEONECon il mese di settembre la scuola sono iniziate le lezioni del nuovo anno scolastico. Una ripartenza anche  per la scuola di Reggio Calabria che coinvolge decine di centinaia di persone tra alunni, personale docente e amministrativo e le stesse famiglie.

Ma che anno sarà per la scuola reggina in particolare? Se la scuola, così come la sanità e la giustizia, misura lo stato di salute sociale e democratico di uno stato, di un territorio, non c’è da stare allegri. Tutto è rimasto come prima, gli stessi disagi, gli stessi problemi di prima.

Vari aspetti di criticità irrisolti nella scuola calabrese e reggina in particolare

Il nostro sistema scolastico ci restituisce severi aspetti di criticità: una crisi nei risultati scolastici che si manifesta già nella scuola dell’obbligo e che sembra prefigurare successivi scacchi formativi; una stratificazione sociale nelle scelte tra i diversi indirizzi della scuola secondaria superiore, che si ripercuote nei livelli di apprendimento; una difficoltà supplementare di intervento nei confronti dell’utenza straniera ,che ottiene risultati scolastici più modesti dei coetanei italiani, in particolare a livello di competenze linguistiche; l’emergere di un disagio sottile, di una difficoltà a coinvolgere fino in fondo gli allievi nella loro esperienza scolastica, testimoniato dal fenomeno dei debiti scolastici, che, comunque, indica un rapporto non positivo con gli apprendimenti scolastici (matematica, lingua straniera, ecc.); tendenza alla licealizzazione del sistema scolastico; i dati più sconfortanti in materia di sicurezza e di adeguamento degli edifici scolastici; un forte turn-over nei comprensori decentrati: la rotazione del personale docente è molto elevata e rappresenta un forte vincolo alla continuità e alla programmazione didattica.

E, ancora, la permanenza di squilibri territoriali: è stato più volte rimarcato che molti comprensori delle aree interne della Calabria sono tagliati fuori da una offerta formativa extra-curricolare per la mancanza dei servizi, trasporti in particolare, che penalizzano la partecipazione degli studenti alle attività pomeridiane che le istituzioni scolastiche pongono in essere per il completamento del percorso educativo. Questo stato di cose non assicura equità e qualità. Non garantisce il diritto allo studio per tutti; un discutibile processo di dimensionamento che non tiene conto delle peculiarità territoriali, dei bisogni formativo/educativi di determinate aree a rischio della regione, che non razionalizza i processi di accorpamento delle singole scuole in termini di moderna consortilità intercomunale, come avviene per altro genere indispensabile di servizi alla comunità.

Inoltre il divario che c’è tra Nord e Sud continua a permanere. A tal proposito parlano chiaro i risultati dei test Invalsi per il 2024 che confermano questo gap esistente soprattutto per quanto riguarda gli apprendimenti in italiano e matematica. Per la Calabria, ultima tra le regioni italiane, i risultati sono estremamente negativi.

Dati che confermano la necessità di interventi mirati per garantire a tutti gli studenti le stesse opportunità di apprendimento e di successo scolastico. È sul territorio, dunque, che si misura la capacità della politica ad affrontare i nodi strutturali di un sistema scolastico come il nostro che manifesta delle criticità ormai consolidate. 

La scuola, poi, quale protagonista educativa nella società civile, ha il ruolo insostituibile di dare visibilità, significato ai fatti e avviare all’interpretazione critica della realtà sociale che circonda gli allievi, agli esempi, ai fenomeni e agli stimoli  che da essa provengono.

Interroghiamoci sul ruolo che la nostra scuola svolge nel nostro territorio pervaso dal fenomeno mafioso e delinquenziale. Perciò, non si può nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi e far finta di nulla. Ripeto, questo ci riguarda come città di Reggio Calabria, e come regione in maniera particolare, e ci si deve interrogare costantemente sul ruolo che la scuola svolge nei nostri territori pervasi dal fenomeno mafioso e delinquenziale.

E proprio noi reggini abbiamo dei doveri in più, e, in quanto operatori scolastici, noi per primi, dobbiamo immettere anticorpi nelle relazioni che abbiamo dentro e fuori le scuole rispetto a contesti di illegalità, di prevaricazione, di intolleranza, di intimidazione, di violenza, di deresponsabilizzazione.

È compito primario della scuola reggina attivare una pedagogia del coraggio civico fondato su un concetto di dignità umana che riconosca quella degli altri, che veda nel prossimo una persona portatrice di pari diritti. Ecco perché occorre puntare sui contenuti fondamentali della scuola, ponendo la attenzione a ciò che accade ogni  giorno dentro le classi, alla didattica, al rapporto formativo, educativo fra i docenti, fra il mondo della scuola e i nostri ragazzi.

Certo, bisogna ritrovare il senso ultimo della scuola. Dare un senso alle cose nella scuola vuol dire ricomposizione di una filiera che è fatta anche di valori, di riforme adeguate ,di investimenti per scuola e università (che devono comporre un unico sistema) ricerca, politiche giovanili, politiche culturali. Insomma, investimento sulla risorsa umana, sui talenti che ci sono dentro la nostra comunità e che sono capitale umano ,capitale sociale. Si tratta di cose che sono l’altra faccia della stessa medaglia e che è giusto ricordare quando parliamo di scuola calabrese.

E, infine, è necessaria una presa di coscienza diffusa che la nostra scuola è oggi lo specchio di una crisi radicale di valori che rischia di desertificare la nostra società e che le speranze di quest’ultima di non restare asfissiata dal nichilismo sono in buona misura legate alla capacità delle nuove generazioni di ritrovare ,nelle nostre grandi tradizioni culturali, quelle che la scuola ogni giorno cerca di trasmettere ai giovani, i semi di prospettive nuove e più costruttive.

I fallimenti sperimentati nella quotidianità con i gravi fatti di cronaca nera di violenza e corruzione rendono consapevoli insegnanti e famiglie dell’impossibilità di farcela da soli, ciascuno per proprio conto, e della necessità di una cooperazione corresponsabile fra tutti i protagonisti del processo di crescita umana e professionale dei nostri ragazzi e dei nostri giovani per ritrovare faticosamente un orizzonte di significati condivisi in grado di riscattare le vite di questi ragazzi dall’insignificanza dove sono stati precipitati dalle politiche governative e amministrative di questi anni. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]