8 MARZO IN CALABRIA: ESSERE DONNE
LIBERE È UN GIOCO STRAORDINARIO

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Non si sceglie mai il posto dove si nasce, né cosa nascere in quel posto sconosciuto. Eppure se nasci donna e nasci in Calabria, piuttosto che altrove, verso il Nord dell’Italia per esempio, sei calabrese, sei donna e detieni già il mondo.

Che non è in alcun modo quel tradizionale motivo di peso che tutti pensano, né qualcosa che riguarda il corpo come nel linguaggio poetico, bensì la responsabilità innata delle donne del Sud, che è forza e coraggio, determinazione tipica di questa meravigliosa specie; prodezza ed eroicità delle donne nate nei luoghi impervi, a volte anche in cattività, dove la donna stessa, grazie alla sua temerarietà non cerca di essere celebrata, capeggia le celebrazioni, non chiede di essere festeggiata, festeggia le sue emancipazioni.

Come una colonna magnogreca, tiene alto il suo senso altissimo dell’ onore. E si fa perno nella vita della sua famiglia, centro e luogo nella dimensione in cui lavora, riferimento per le idee, i progetti, le più rispettabili e rispettose rivoluzioni.

L’8 marzo è una giornata celebrativa importante in tutto il mondo, eppure ricordo ancora mia nonna, rifiutare il ramoscello di mimosa che i figli maschi le porgevano. Era per i gerani lei, quelli che con il gambo più grosso e la foglia larga fiorivano tutto l’anno. Noi siamo così, diceva, mostrando la pianta che teneva interrata nel vaso di terracotta sopra il davanzale della sua finestra. Facciamo fiori tutto l’anno, ci apriamo alla vita, e non solo perché la diamo, e siamo di tutti di i colori.

Cresciamo piccole come i fiori minuti, ci facciamo grandi come i più forti e adorniamo le case, le strade, la vita stessa. Vedi la mimosa, potrei mai essere io come quel fiore? E’ solo gialla, sboccia soltanto a primavera, e poi finisce. Ha un ciclo breve. La pianta no, quella avanza, ma il fiore ha il tempo contato. Essere un geranio vuol dire esserci sempre, morto un fiore se ne apre un altro…, ed è così che siamo noi, eterne.

Mia nonna non si era mai arresa, neppure davanti alla forza fisica del marito, né di fronte alla durezza della terra. Si era emancipata con la forza della volontà, credendosi davvero ciò che era, stimando ella stessa il mondo che aveva come madre, moglie, contadina… Così sono state tutte le altre donne del Sud.

A partire dalla Melusina di Corrado Alvaro, alla Cicca di Saverio Strati; da Giuditta Levato a Marianna Procopio, da tutte le donne nate e non nate fino a me, che sento nel cuore l’8 marzo ogni giorno, anche se da qui, dal Sud, vinco o perdo. Perché con la mia vita in questo mondo, io non partecipo, gioco. Chi partecipa si sa, o perde o vince, chi gioca si diverte. E in Calabria, essere donne libere, è un gioco meraviglioso. (gsc)

L’AUTONOMIA RISCHIA DI FARE UN FAVORE
ALLA MAFIA: BISOGNA ALZARE LA GUARDIA

di MIMMO NUNNARIL’ha scritto chiaramente anche su questo giornale Pietro Massimo Busetta che “l’Autonomia differenziata” se passa alla Camera passa perché è un ricatto della Lega ai suoi alleati di Fdi e Forza Italia, che così tradiranno il Sud come Giuda e neanche per trenta denari, ma più vilmente per mantenere fede ad un patto scellerato di Governo in cui non credono.

Probabilmente sarà il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto a chiedere a Forza Italia di sfilarsi, sia pure all’ultimo momento, dal “pactum scelleris” politico istituzionale voluto dalla Lega di Matteo Salvini e Roberto Calderoli. L’ultimo allarme è della Conferenza Episcopale Siciliana che con una nota durissima segnala diverse criticità della riforma «che mette a rischio l’unità nazionale» e sottolinea che il provvedimento voluto dal Governo e approdato alla Camera manchi di un esplicito è necessario richiamo all’articolo 2 della Costituzione “fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti”.

Non sappiamo con quale faccia i deputati del Sud della coalizione del Governo presieduto da Giorgia Meloni guarderanno i loro elettori dopo il “misfatto” ai quali non resterà che piangere per aver dato fiducia a chi non la meritava e aver  dato ai loro rappresentanti il potere di distruggere la propria gente.

Quali danni subirà il Sud non stiamo qui a ricordarlo tanto sé n’è parlato abbastanza ma possiamo scattare la fotografia del giorno dopo che vedrà il Nord somigliante al “Belgio grasso” è il Sud ad uno Stato mafia sul modello balcanico. Questo aspetto della mafia, che sarà favorita dall’Autonomia, non è stato molto approfondito ed è rimasto fuori dal dibattito, ma proviamo ad affrontarlo partendo da lontano, da quando profeticamente Giorgio Ruffolo nel libro Un paese troppo lungo, pubblicato da Einaudi nel 2011, rifletteva  sul problema della nascita dell’Italia che a distanza di secoli dalla conclusione del processo di unità nazionale restava un Paese disunito. Anzi, scriveva: «Sono sempre più forti quelle spinte che in forme storiche sempre diverse puntano a una dissoluzione dello stato unitario».

E avvertiva del rischio «di una decomposizione del tessuto nazionale al Nord con forme politiche provocatorie e al Sud con una forma ambigua di secessione criminale delle mafie che sottraggono sovranità allo Stato».

Erano ancora i tempi in cui la Lega Nord inseguiva il progetto di secessione ed  emergeva dalla riflessione del saggista e storico esponente del PSI di origini calabresi, che, a un progressivo indebolimento dell’ideale di nazione, potesse corrispondere una deriva mafiosa a Sud, col conseguente pericolo della caduta del Mezzogiorno sotto il controllo territoriale della mafie; un qualcosa che allora stava già accadendo in alcuni paesi dell’area balcanica nati dalla dissoluzione della Repubblica jugoslava. In quella straordinaria analisi di Ruffolo sulla situazione dell’Italia, che bisognerebbe attentamente rileggere oggi, tanto è attuale, si spiegava che, di fronte alle spinte antirisorgimentali, sempre più forti, l’unica speranza, per tenere insieme il nostro “lunghissimo paese”, era recuperare la «forza ideale della nazione».

Quella nazione che oggi con l’Autonomia si vuole definitivamente mettere da parte. Pochi, prestano attenzione a questo ulteriore rischio mafia per Il Sud  ma in uno scenario come quello ipotizzato da Ruffolo non lo si può escludere. Già oggi la situazione è quella che è. Basta sfogliare i giornali degli ultimi tempi: intimidazioni, spari contro negozi, incendi di auto di amministratori comunali, di privati cittadini; parroci  malmenati, vescovi minacciati. violenze diffuse. Non sono tra i più eclatanti fatti di cronaca – siamo tristemente abituai a ben altro – ma sono, tuttavia, storie di ordinaria prepotenza mafiosa: segnali preoccupanti che dimostrano come la strategia mafiosa è sempre più rivolta al controllo del territorio.Segnali inequivocabili che fanno intendere: “Qui comandiamo noi”. 

Ha detto bene monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano e vice presidente della Cei: «La mafia ci schiavizza. Noi dobbiamo recuperare la libertà, l’esercizio della libertà». Clima grave, dunque, insopportabile e che con meno Stato in futuro potrebbe diventare ancora più incandescente.

Occorrerebbe, perciò – prima di pensare all’Autonomia – ricostruire il tessuto connettivo di una presenza dello Stato nei territori, particolarmente in determinate aree, dove la pervasività del fenomeno mafioso si spiega anche col radicamento debole dello Stato che, nel tempo, ha perso sempre più sovranità.

L’indebolimento della funzione centrale statuale che comporterà il progetto dell’Autonomia, aggraverà la situazione: ci troveremmo in una situazione in cui l’autorità statale, venuta meno al compito di ridurre le disuguaglianze, non riuscirà più a far fronte pienamente ai suoi compiti e la mafia avrebbe campo libero. Riusciranno i nostri eroi deputati del Sud a votare secondo coscienza e non a comando? (mnu)

 

PNRR, LA VERA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO
È LA MESSA IN SICUREZZA DELLA QUOTA SUD

di LIA ROMAGNO – La sfida dell’attuazione del Pnrr per l’Italia vale tra il 2 e il 2,5% di Pil in più, percentuali superiori alla media europea. A “pesare” l’impatto del piano per il sistema Paese è stato ieri il commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni.

«La proiezione sulla misura aggiunta di Pil nel 2026 per i diversi Paesi dal Next Generation Eu è una media dell’1,4% aggiuntivo – ha affermato intervenendo a un evento per i quarant’anni di Affari&Finanza, a Milano –. Si va da Paesi che hanno nel 2026 un Pil tra il 4 e 5% in più, come la Grecia. Altri che stanno al 3%, come la Spagna. L’Italia tra il 2 e 2,5%, quindi è sopra la media europea. Ovviamente sono modelli matematici che possono essere confermati o meno. Questo ci dice che la potenzialità dello strumento è notevole».

La sfida «si gioca nei prossimi due tre anni in modo decisivo», ha sottolineato Gentiloni, considerando che il processo di revisione, approvato dal Consiglio europeo lo scorso 8 dicembre, ha allungato le scadenze per molti obiettivi, «quindi – ha affermato – quest’anno sarà più leggero».

Dopo i ritardi e le criticità che hanno segnato la prima parte del 2023, dovute anche alle ricadute delle tensioni geopolitiche, il Piano è ripartito. L’Italia «si è rimessa in carreggiata», ha affermato il commissario europeo, dicendosi poi «soddisfatto dell’Italia: Mi fa piacere che il governo consideri il piano come figlio suo e non una strana eredità. Penso che la revisione del piano, non priva di controversie – pensiamo alle città che hanno lamentato alcuni definanziamenti – abbia un vantaggio: è diventato il piano dell’attuale governo, non più eredità più o meno subita che un governo precedente o quello prima addirittura aveva negoziato con la Commissione europea senza contributo dell’autorità attuale. E il piano ha mostrato di potersi adattare, sia sulle materie energetiche, sia nel tener conto dell’inflazione».

«Le sfide rimangono perché la quinta rata vale poco più di 10 miliardi e l’ultima del 2026 ne vale 40. Poi le cose bisogna farle e bisogna toglierci dalla testa che se abbiamo rispettato alcuni tempi e alcuni obiettivi negoziati con la Ue ora sia tutto in discesa: l’impegno più sostanziale verrà nei prossimi due-tre anni», ha ribadito.

La portata della sfida la fanno i numeri del Piano: 194,4 miliardi, di cui 71,8 miliardi di euro in sovvenzioni e 122,6 in prestiti, 66 riforme e 150 investimenti. Finora la Commissione ha erogato oltre il 50% dei fondi destinati all’Italia nell’ambito del Recovery and Resilience Facility, oltre 102 miliardi.

Se l’Ue nei prossimi giorni darà il via libera anche alla quinta rata- la richiesta di pagamento è partita alla fine di dicembre – la dote già incassata salirà a 113 miliardi, pari a oltre il 58% dei 194,4 miliardi stanziati in sede europea.

Finora, secondo la relazione sull’attuazione del Pnrr presentata dal ministro degli Affari Europei e regista dell’ “operazione” Pnrr, Raffaele Fitto, sono state spese circa la metà delle risorse già incassate, ovvero 45,6 miliardi su 102, il 23% dell’importo totale. Da qui la necessità di spingere sull’acceleratore su cui ha messo l’accento anche la premier Giorgia Meloni.

Il Pnrr resta un cantiere aperto, sia sul fronte interno, sia su quello europeo: la scorsa settimana il via libera del Consiglio dei ministri al nuovo decreto per l’attuazione del piano che punta a velocizzarne la messa a terra, anche introducendo norme mirate a una maggiore responsabilizzazione dei soggetti attuatori (l’iter di conversione prenderà il via dalla Commissione Bilancio di Montecitorio).
Ieri l’invio alla Commissione europea di una richiesta di revisione del “nuovo” piano, adottato dal Consiglio Ue l’8 dicembre scorso. Riguarda essenzialmente la «correzione di alcuni elementi tecnici nel Pnrr, così come approvato nell’ultima Cabina di regia», ha spiegato il ministro Fitto, sottolineando la «continua e proficua collaborazione tra il governo italiano e la Commissione europea».

«La revisione consentirà la corretta attuazione del Pnrr così come modificato lo scorso dicembre», ha aggiunto il ministro che oggi sarà a Bruxelles dove in mattinata, nella sede del Parlamento europeo, vedrà la presidente Roberta Metsola, mentre nel pomeriggio sarà invece a Palazzo Berlaymont per incontrare il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, il Commissario per il bilancio e l’amministrazione, Johannes Hahn, e quello per la Giustizia, Didier Reynders.

La portavoce dell’esecutivo Ue, Veerle Nuyts, ha chiarito che le modifiche tecniche riguardano «correzioni di errori materiali», «modifiche per chiarire la formulazione di alcuni traguardi raggiunti rispetto agli obiettivi», e sono necessarie «per assicurare la coerenza di tutto il testo con la decisione del Consiglio Ue che ha approvato la revisione del Piano» a dicembre.

La Commissione dovrebbe impiegare meno di due mesi per completare la sua valutazione della richiesta italiana, hanno assicurato fonti comunitarie.

Per il Mezzogiorno la sfida è vitale e passa dalla messa in sicurezza della “Quota Sud”, un punto su cui ha insistito il direttore generale dello Svimez, Luca Bianchi, intervenendo al convegno Quale sviluppo per il Mezzogiorno e la Calabria organizzato dalla Cgil a Lamezia Terme, cui ha preso parte anche il presidente della Regione, Roberto Occhiuto.

Bianchi ha chiamato in causa la debolezza amministrativa degli enti locali meridionali di fronte a quella che è «un’occasione decisiva» per accorciare la distanza con il resto del Paese e avviare il rilancio del Sud.

«C’è stata una rimodulazione che rischia di ridurre la quota Sud. Dobbiamo pertanto spingere innanzitutto sulla qualità amministrativa per regioni come la Calabria. Bisogna concentrarsi per mettere a terra le risorse perché non è possibile che non si raggiunga la quota del 40% che è la quota prevista per il Mezzogiorno dalla quale non si può derogare – ha affermato –. Al Governo diciamo di supportare e rafforzare le amministrazioni locali nell’attuazione perché questo Pnrr serve anche a ridurre i divari territoriali e non si può assolutamente derogare questo obiettivo». (lr)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia] 

AUTONOMIA, IL “RICATTO” DI LEGA VALE
DI PIÙ DEI DIRITTI DEI CITTADINI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTANei prossimi giorni la Camera dovrà esaminare il decreto legge sull’autonomia differenziata. Il percorso va avanti senza intoppi malgrado dal Paese e in particolare dal Sud si levino voci di dissenso rispetto ad una riforma che  è definita “Spacca-Paese”. 

A nulla sono valse le tante perplessità sollevate da diverse prestigiose Istituzioni. La Banca centrale  ha invitato a procedere «con la necessaria gradualità» sulla strada dell’autonomia differenziata, «diversamente, vi sarebbe il rischio di innescare processi difficilmente reversibili e dagli esiti incerti» . 

La Svimez rafforza il pensiero «l’Autonomia differenziata non solo penalizzerà i cittadini del Sud ma indebolirà anche le regioni del Settentrione». È una visione, quella dell’Associazione che guarda all’intero Paese.

Luca Bianchi, direttore di Svimez (l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno), demolisce così la riforma portata avanti dal ministro Roberto Calderoli, che arriva adesso alla  Camera per essere approvata a tappe forzate. 

Si sono anche dimessi quattro esperti dall’organismo tecnico voluto dal ministro leghista  per individuare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), necessari per attuare l’Autonomia differenziata. Nomi “pesanti” visto si tratta di Giuliano Amato e Franco Gallo, ex presidenti della Corte Costituzionale, Alessandro Pajno, ex Presidente del Consiglio di Stato, e Franco Bassanini, ex Ministro della Funzione pubblica, che hanno annunciato il passo indietro con una lettera inviata al Ministro del Carroccio e al Presidente del Comitato di esperti sull’Autonomia differenziata, Sabino Cassese

Ma si è mobilitata anche l’intellighenzia meridionale con una 24 ore di interventi per raccogliere firme contro. 

«Il Coordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc), presieduto dal professore Massimo Villone, esprime grande soddisfazione per avere raggiunto e largamente superato le firme necessarie (ne bastavano 50mila, ne sono giunte oltre 65mila), in anticipo rispetto alla conclusione della campagna per la presentazione della legge costituzionale di iniziativa popolare – per la modifica in particolare degli articoli 116, terzo comma, e 117, primo, secondo e terzo comma del Titolo V della Costituzione – contro l’autonomia differenziata voluta dal Governo e da alcune Regioni del Nord». 

Infine la manifestazione recente, fonte di tante polemiche, a Roma, per iniziativa di Vincenzo De Luca ha mobilitato molti sindaci «L’autonomia calpesta e offende il Sud». È un’accusa durissima quella lanciata dai Sindaci del Meridione, scesi in piazza a Roma per protestare contro l’autonomia differenziata. 

Circa un migliaio i primi cittadini convocati in piazza Santi Apostoli dal Governatore della Campania e dall’Anci campana per dire no alla riforma. Una mobilitazione ampissima di un Sud che comincia a capire cosa rischia con questa riforma mentre, come un bulldozer,  il ministro va avanti con questa riforma che possiamo chiamare secondo porcellum. Questo excursus per dimostrare come le voci contrarie sono tante e molto autorevoli. 

Malgrado ciò si continua in un percorso che viene approvato perché il ricatto della Lega di far cadere il Governo pesa sulla maggioranza. 

Il Presidente del Veneto Luca Zaia avverte gli alleati: «l’accordo sull’autonomia è uno dei pilastri di questa maggioranza, insieme al presidenzialismo e alcune altre riforme. Se non passasse verrebbe meno l’oggetto sociale della maggioranza. E oggi non ho nessuna ragione di pensare che con serietà non si affronti il tema», dice il Governatore leghista.  

Fra l’altro la riforma viene nascosta dietro una esigenza di efficienza, ma é invece chiaro che il tema di fondo è quello di trattenere il cosiddetto residuo fiscale, spostando il diritto costituzionale di avere le stesse risorse per ogni cittadino alla prevalenza dei territori, che si fanno piccoli  Stati e che trattengono le risorse che vengono prodotte nella Regione interessata. 

Il vecchio progetto di Bossi che partiva dalla secessione e che adesso si attua invece tenendosi la colonia ben stretta ma con diritti di serie B. È una vera e propria fuga con un bottino, che tutto il Paese ha contribuito a creare. Prodromico alla formazione di una macroregione del Nord, che avrebbe il suo Sud nella Toscana, Umbria forse e che, a parere dei leghisti, ma anche dei politici dell’Emilia Romagna, adesso formalmente pentiti, potrebbe competere meglio con il cuore produttivo europeo della Baviera e d’Ile  de France. 

I dati dimostrano invece che aver puntato solo sulla locomotiva del Paese ha portato a crescite molto contenute e assolutamente meno rilevanti di quelle di Francia, Germania e persino Spagna. 

Il tema, che sopratutto Fratelli d’Italia deve porsi, vista la sua vocazione unitaria, é se si può consentire ad una Forza, che rappresenta poco meno del 9% degli elettori e poco meno del 5% degli aventi diritto al voto, di costituzionalizzare la spesa storica e mettere le basi per una possibile divisione del Paese senza ritorno, per un mero calcolo politico degli altri partner governativi. 

In una realtà comunitaria che ha bisogno invece dell’Italia, uno dei Paesi fondatori, e del suo contributo per una progressiva maggiore  forza dell’Unione, in una situazione sempre più complessa, che vede una Federazione Russa protesa a mire espansionistiche che bisogna bloccare, anche con un esercito comune. Siamo molto lontani dalle visione  di Altiero Spinelli, ma che va recuperata e che è l’unica con un futuro. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

AUTONOMIA, COLPO DI GRAZIA SU SCUOLA
TRA DIRITTI MANCATI E GAP INSUPERABILI

di GUIDO LEONELa domanda che ci dobbiamo porre è la seguente: nei molti divari che sono tornati a separare la società meridionale dai livelli economici, sociali, culturali raggiunti in questi anni dall’Italia del Nord la scuola c’entra qualcosa?

Esiste una questione meridionale e se sì, quali sono i suoi tratti distintivi? E in quali termini si presenta la questione scolastica nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia? Se il grande analfabetismo di massa, il mero saper leggere scrivere e far di conto è stato sconfitto si può ignorare il fatto che da Napoli in giù i tassi di abbandono scolastico, di evasione dell’obbligo sono tra i più elevati?

Si può ignorare che in Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna più della metà degli studenti sono ad un livello inferiore a quello richiesto dalle indicazioni nazionali e si registrano, cosa ancora più inquietante, differenze fortissime fra scuola e scuola? Si può ignorare che da queste parti  il 40% per cento degli studenti è al di sotto della sufficienza, in italiano e in matematica.

Campania, Calabria, Sicilia, Puglia occupano i primi  posti della triste classifica della povertà educativa in Italia. Regioni in cui bambini e ragazzi sono maggiormente privati delle opportunità necessarie per superare ostacoli e condizioni di svantaggio iniziali. L’abbandono scolastico nella maggior parte delle regioni del sud va ben oltre la media nazionale (12,7%), con le punte di Sicilia (21,1%) e Puglia (17,6%), e valori decisamente più alti rispetto a Centro e Nord anche in Campania (16,4%) e Calabria (14%). 

Non sembrano esserci soluzioni a portata di mano per pareggiare i conti col Nord e dunque per arrivare ad una equa spartizione di risultati; ma questi numeri avrebbero dovuto mettere da tempo  in allarme, serio, innanzitutto i governatori e le loro giunte regionali, subito dopo il Ministero dell’Istruzione e quindi i Governi che in questi anni si sono avvicendati.

E invece lo smantellamento progressivo dell’istruzione pubblica rischia di  farle perdere il suo carattere nazionale.

La regionalizzazione sta compiendo il suo percorso che porterà cambiamenti sostanziali. Per capire la posta in gioco basta considerare uno tra gli effetti più importanti di una simile manovra sulla scuola. Non avremmo più un unico sistema nazionale di istruzione, ma tanti sistemi regionali.

L’autonomia differenziata sancirà gli squilibri che già esistono e li renderà definiti e insuperabili. Il gap di servizi, nella scuola, nella sanità, negli asili diventerà “legittimo”, un privilegio etnico- territoriale immodificabile. Insomma chi all’interno della stessa nazione abita in territori particolari e benestanti ha più diritti di chi invece ha avuto la sventura di abitare in territori disgraziati.

L’istruzione deve rimanere statale e nazionale con pari livelli delle prestazioni, senza condizionamenti di natura politica e quindi fuori da qualunque percorso di autonomia differenziata.

C’era una volta un Paese dove la scuola era pubblica e le finalità e gli obiettivi li decideva lo Stato nell’interesse di tutti. Quella scuola rischia di non esserci mai più. Certa politica non ha cambiato verso alla scuola pubblica. L’ha semplicemente piegata, immiserita. Il Mezzogiorno ha bisogno sul piano sociale, oltre che economico, di eserciti di maestri e professori. Di buone scuole e buone università. Di baluardi della conoscenza che siano, al di là di tutto il resto, il simbolo della presenza dello Stato unitario sul territorio. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

 

AFFIDAMENTO, IN CALABRIA UN PROBLEMA
PER I MINORI UNA POLITICA SOCIALE NUOVA

di ANTONIETTA MARIA STRATI –  Infanzia, minori, affidamento: In Calabria il problema è più ampio di quanto si possa immaginare. Nella nostra regione, infatti, come riporta il Gruppo Crc in un rapporto del 2020, il tasso di affidamenti familiari è di 1,2 ogni mille residenti – mentre la media italiana è di 1,5 –, e sono solo l’8,8% i bambini e gli adolescenti stranieri in affidamento. Un dato che, oltre a essere inferiore di 10,1% rispetto alla media italiana, è in diminuzione rispetto al precedente rapporto.

Numeri che preoccupano e che dovrebbero indurre le Istituzioni a fare di più nei confronti di quei minori che, da troppo tempo, vivono nei centri residenziali, «una sorta di limbo in attesa che qualcuno si occupi di loro», come ha denunciato Mario Nasone, presidente del Centro Comunitario Agape.

In Calabria, infatti, c’è un grave ritardo sulle politiche del Welfare e, soprattutto, non è mai stato attivato un Osservatorio regionale  regionale sull’infanzia e l’adolescenza, previsto dalla legge nazionale n. 451 /97.

Secondo i dati di Save The Children, infatti, i tempi di permanenza di un minore in Istituto in Calabria è di quattro anni a fronte di uno a livello nazionale e spesso con l’aumentare dell’età  si passa da un istituto all’altro, ormai difficilmente adottabili, fino ad arrivare a diciotto anni senza potere nemmeno contare sull’assistenza da parte della Regione, praticamente in mezzo alla strada.

Per Nasone, infatti, «se poi hanno delle patologie non hanno praticamente speranza di avere una famiglia. I minori in Calabria sono doppiamente abbandonati, a livello informativo perché non ci sono dati su quanti sono e sulla loro condizione», sottolineando come «sono circa centomila i minori a rischio povertà, almeno cinquecento quelli che vivono fuori della famiglia (a cui aggiungere i tantissimi che vivono in famiglie multiproblematiche che avrebbero bisogno di un affiancamento come le madri sole)  ma non conosciamo la loro condizione, i servizi che sono stati attivati. Soprattutto sono abbandonati perché manca un piano regionale per l’infanzia in grado di intercettare e dare risposte ai loro bisogni correggendo anche alcuni squilibri che vedono zone con più servizi ed altre come la Locride, la Piana di Gioia Tauro sprovvisti».

«Per i  bambini e i ragazzi calabresi che hanno bisogno di accoglienza e di solidarietà non mancano le famiglie disponibili anche per i cosiddetti bambini con bisogni speciali  L’affidamento familiare è una famiglia in più per i bambini e diventa la migliore terapia soprattutto nelle situazioni più gravi», ha detto ancora Nasone.

E proprio di questo se ne è discusso nella giornata di studio in Consiglio regionale nei giorni scorsi, dove diversi attori istituzionali e sociali hanno affrontato il tema dell’affido, un «diritto che in Calabria è ancora negato, soprattutto ai minori più fragili che provengono da nuclei familiari che non sono in grado di provvedere a loro».

Coordinati dal giudice onorario Giuseppe Marino, l’evento è incominciato con Vincenzo Starita, delegato dalla ministra per la famiglia Eugenia Roccella, che ha evidenziato l’importanza della recente sentenza della corte costituzionale che ha indicato nella adozione aperta una opportunità per dare una famiglia a quei minori per i quali i rapporti con la famiglia di origine è bene che siano mantenuti.

Nasone, ribadendo come in Calabria si è troppo indietro sul tema dell’affido, ci sono delle isole più meno felici come quella di Reggio dove Comune ed associazionismo hanno una tradizione positiva fin dagli anni ‘80, ma a livello regionale va rilanciato alla luce delle trasformazioni  sociali perché sono cambiate le famiglie che dovrebbero accogliere; è mutata la domanda di affido, sono intervenuti modifiche  legislative, con i rischi ma, anche, con le opportunità che hanno introdotto. Con l’Assessorato regionale alle politiche sociali è stato avviato un dialogo con le associazione che si auspica possa dare frutto.

Le famiglie «potenzialmente disponibili ci sono ma non vanno lasciate sole, vanno formate ed accompagnate da servizi e dalle associazioni. Con un ruolo importante anche delle Chiese locali che si devono interrogare di più anche su queste sfide», ha detto Nasone.

Del ruolo cruciale delle regioni, sul tema dell’affidato, ha parlato Frida Tonizzo, presidente nazionale di AnfaaAssociazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie. Queste infatti, assieme ad Enti locali, Tribunali per Minorenni, e Asp, devono recepire le nuove linee guida nazionali sull’affido, prevedendo investimenti in risorse umane e finanziarie,

Tonizzo, inoltre, ha segnalato la necessità, prevista dalle normative, di dare maggiore ascolto alle famiglie e di garantire alle associazioni impegnate un coinvolgimento anche sui progetti di aiuto del minore. Preoccupa, poi, il crollo delle domande di adozioni internazionali, che non deve passare inosservato anzi, servono, per la presidente di Anfaa, degli interventi specifici.

Mirella Schillaci, magistrata del Tribunale per i minorenni di Reggio, ha evidenziato come una effettiva tutela dei diritti dei minori è possibile solo se, nel territorio, si riesce ad attivare una rete di servizi in grado di intercettare i disagi e di prevedere una loro presa in carico.

La referente del comune di Reggio, la psicologa Maria Grazia Marcianò, ha presentato il lavoro svolto per promuovere e favore la scelta dell’affido e dell’adozione, rimarcando l’importanza di instaurare con le famiglie un rapporto fiduciario e di accompagnamento. Con l’assunzione di nuovi assistenti sociali si potrà garantire una maggiore copertura dei bisogni. Per Francesco D’Amato, delegato dall’Asp, è importante che l’azienda sanitaria faccia la propria parte garantendo una integrazione tra gli interventi sociali e sanitari e ha confermato l’impegno della direttrice Lucia Di Furia a implementare, anche sul fronte degli affidi e delle adozioni, gli interventi delle equipe multidisciplinari.

Francesca Mallamaci, per l’ordine professionale degli assistenti sociali, ha rimarcato il ruolo fondamentale di questa figura professionale sia nella segnalazione dei disagi che nella progettazione degli interventi. Per Pasquale Cananzi, della Camera Minorile, l’avvocatura ha un ruolo importante per la formazione di decisioni che siano effettivamente a vantaggio dei minori più che degli adulti e ha auspicato un coinvolgimento maggiore della comunità nelle azioni a loro difesa.

Nella seconda sessione, i lavori sono proseguiti con il confronto tra la  referente del Tribunale per i minori Mirella Schillaci, l’assessore alle politiche sociali Lucia Nucera del comune, le  famiglie affidatarie e le Associazioni Emmaus di Roccella, Giovanni XXIII di don Benzi e Agape.

Tutte hanno chiesto di essere maggiormente sostenuti nel loro percorso e, soprattutto, di prevedere una migliore comunicazione tra gli Enti preposti, in primis Tribunale per i minori e Comuni, in grado di ridurre i tempi di attesa dei provvedimenti che in alcuni casi si allungano  per mesi e anni con gravi pregiudizio per i minori soprattutto di quelli della fascia di età dai 0 ai 6 anni.

Si è parlato, anche, dell’adozione di minori che presentano patologie e disturbi del comportamento. In Calabria, infatti, mancano servizi di neuropsichiatria e strutture specializzate e questo comporta il rischio che le famiglie che accettano di occuparsi di questi minori, siano lasciate da sole.

«Le famiglie potenzialmente disponibili ci sono ma non vanno lasciate sole – ha ribadito Nasone – vanno formate ed accompagnate da servizi e dalle associazioni. Con un ruolo importante anche delle Chiese locali che si devono interrogare di più anche su queste sfide».

Per questo si rende necessaria un’alleanza tra Istituzioni e Reti Associative, per dare una famiglia a ogni minore in Calabria. Questo perché, come ha già detto Mario Nasone, l’esperienza dell’affido «che negli ultimi quaranta anni ha salvato migliaia di bambini dall’abbandono deve continuare in tutto il nostro Paese, soprattutto nelle zone del Mezzogiorno come la Calabria, dove le povertà minorili materiali ed educative sono più diffuse». (ams)

 

LA CALABRIA PUÒ AMBIRE A PRIMEGGIARE
NELLA QUALITÀ DELLA GESTIONE RIFIUTI

di GIOVANNI LAMANNA – La gestione dei rifiuti solidi urbani rappresenta una delle attività più difficili e complesse che si possa immaginare. I fattori che influiscono sul risultato finale sono innumerevoli: la tipologia dei rifiuti,  gli aspetti tecnici, gli aspetti culturali, gli aspetti organizzativi, le risorse, le competenze, ecc. Desidero prendere in considerazione alcuni elementi utili a comprendere il problema:

Rifiuti, risorsa o rischio? 

I rifiuti sono una Risorsa, se differenziati bene e riciclati, ma  costituiscono anche un “Rischio” economico, sociale, sanitario, ambientale e di conseguenza vanno gestiti secondo il principio di “prevenzione del rischio”. Per ridurre il rischio occorre  ridurne la produzione di rifiuti prima di tutto. Al contrario se li consideriamo risorsa, potremmo sottovalutare il rischio.

Costi:  il costo standard del servizio in Calabria è, mediamente, doppio rispetto al centro nord. I comuni che hanno il compito di far pagare la Tari  svolgono il ruolo esattori per conto terzi.

Percentuali di raccolta: molti comuni (specie quelli piccoli) hanno raggiunto ottimi risultati nelle percentuali, anche sopra il 70%, ma anche qualche città, come Catanzaro insieme a Potenza e Salerno, hanno alte percentuali di RD. Purtroppo le altre province calabresi, hanno attraversato periodi di emergenza ripetuti (l’ultima Reggio Calabria), ma anche Vibo Valentia ha una storia di conflitti con le ditte appaltatrici. Quindi la situazione generale non è buona.

Purezza dei materiali: anche se le percentuali di RD fossero molto più elevate,  c’è un altro parametro da considerare, ovvero la purezza dei materiali differenziata, la quale, se non raggiunge  livelli ottimali, rende i rifiuti impuri e,  di conseguenza, non commercializzabili. Tali rifiuti vengono prima accumulati e spesso smaltiti in discarica. Quindi la raccolta differenziata, a queste condizioni è inutile e rappresenta  uno spreco di risorse.

La trasformazione in loco: perché i rifiuti siano una vera risorsa per la Calabria,  dovrebbero essere riciclati  in loco con la produzione di beni materiali. Si dovrebbe pensare ad investire in aziende sul territorio evitando il trasferimento del materiale selezionato, in altre regioni o all’estero con la conseguenza di altri costi aggiuntivi.

Qualità del lavoro: i lavoratori del settore, operatori ecologici, appaiono visivamente come “lanciatori di buste” e per questo motivo vanno incontro a problemi  di salute e malattie professionali che incidono in prevalenza sul sistema muscolo/scheletrico. Sono lavoratori che vanno formati e valorizzati migliorando sia le condizioni di lavoro, ma anche valorizzando il ruolo di front-office che svolgono.

Questi indicatori sono sufficienti ma, per un approccio politico e quindi alla necessità di miglioramento della qualità di gestione, sono sufficienti ad indicare la direzione culturale, tecnica ed organizzativa verso cui dirigersi.

Sappiamo che la Regione, con il presidente Roberto Occhiuto, sta riprogrammando l’organizzazione a livello regionale del servizio. Una direzione sicuramente auspicabile, viste anche le caratteristiche difficili del territorio e la condizione sociale delle popolazioni. Questo però non basta a garantire che le cose miglioreranno, visto lo storico fallimento delle Ato. Realtà ben più complesse e grandi, con capacità economica infinitamente più importante, sono andate in crisi sui rifiuti.

Punti fondamentali per una proposta politica

Appalti: agire sui costi attraverso appalti a costo standard e pagamenti per obiettivi verificabili.

Elementi che generano il costo: considerare, non solo la percentuale di raccolta ma agire su tutto ciò che produce costi superflui ovvero, massa prodotta, volume gestito, movimento.

Qualità dei materiali: il vero obiettivo è la commercializzazione dei materiali, che non può avvenire senza i livelli di purezza richiesti dal mercato.

Tipologie di raccolta: oltre le cinque che tutti conosciamo ce ne sono almeno altre dieci che vanno fatte a parte (farmaci, toner, cartucce, scarpe, vestiario, materiali ferrosi, oli esausti sia quelli di uso industriale che quelli vegetali da consumo domestico, lampadine a basso consumo,  materiali pericolosi, materiali da cure sanitarie a domicilio, piccoli apparecchi elettrici domestici (paed), batterie al litio, pile, farmaci ecc.), alluminio. Si deduce che  non è derogabile la buona organizzazione e l’implementazione di una rete di raccolta di tutte queste tipologie di rifiuti. Può essere fatto solo con la collaborazione dei cittadini e delle attività diversamente ci sarà un ulteriore fallimento dell’intero sistema.

Tari: il pagamento della Tari (tassa rifiuti e non tassa pavimento),  dovrà essere calcolato per volumi di rifiuti consegnati e non per numero di persone o superficie delle abitazioni. Non è detto che una famiglia numerosa produca più rifiuti, dipende dallo stile di consumi di quella famiglia e relativamente dal numero di componenti. In questo modo le persone saranno incentivate a ridurre il consumo di plastica e di tutti quei prodotti confezionati, delle buste, delle foglie dell’erba  dei giardini ecc.

I comuni: dovranno partecipare, al miglioramento del servizio e non essere espropriati, evitando che la gestione centralizzata diventi un luogo di clientele e di favori.

Partecipazione:  senza la partecipazione dei cittadini, ma anche degli operatori, non si va da nessuna parte. Dovranno essere messe in atto una serie di interventi di formazione, informazione, vigilanza, mantenimento, rafforzamento e affido che ci consentiranno di migliorare continuamente la qualità del servizio e la soddisfazione dell’utenza.

La proposta politica

Centralizzazione del servizio: l’ente regionale punta sulla centralizzazione del servizio per la gestione dei rifiuti. IDM si dichiara d’accordo ma a patto che i comuni abbiano un ruolo definito ed importante e che vengano aiutati a raggiungere gli obiettivi e non estromessi (ad esempio la regione potrebbe gestire un sistema di tutor che aiutino i comuni ).

Regolamenti e ogni modalità condivisi e tali da impedire dispersione di risorse ed infiltrazioni criminali . I comuni, sono meno a rischio perché sono sottoposti alle procedure della commissione accesso e quindi forniscono, su questo tema, più garanzie dei privati.

Discariche: le discariche hanno creato enormi problemi, come la discarica di Alli, a rischio inquinamento ambientale, la vicenda della Battaglina che doveva diventare una enorme discarica posta su una zona di sorgenti e falde acquifere e fu bloccata dalle proteste della popolazione locale e non è l’unica vicenda di contestazioni locali. In prospettiva le discariche andranno ridotte o chiuse.

Termovalorizzatori: l’ente Regione punta al raddoppio del termovalorizzatore (inceneritore) di Gioia Tauro. Ebbene, questo investimento può avere un senso solo se ha come obiettivo la chiusura delle discariche.

Centri di recupero: i Cdr servono a recuperare materiale da avviare al riciclo. In pratica i rifiuti differenziati come multi-materiale  e plastica, vengono fatti passare su un nastro e, manualmente vengono prelevate i materiali da riciclare (tappi, bottiglie di plastica, contenitori vari, materiali ferrosi, lattine ecc.). Se ne recupera, se va bene la quarta parte. Il materiale rimanente, viene sottoposto ad un processo industriale e trasformato in CDS ovvero, combustibile derivato secondario. Questo combustibile a composizione di plastiche, ovvero derivati da idrocarburi, viene impiegato nei cementifici, facendo risparmiare petrolio.  In sostanza il ciclo dei Cdr/Cds è un termovalorizzatore camuffato.

Congruità dell’investimento: Se si investono risorse economiche in un termovalorizzatore, questo deve poter ammortizzare nel tempo le risorse investite. Per fare questo bisogna bruciare enormi quantità di materiale. Se viene sottoutilizzato si va in perdita economica. C’è già l’esperienza del termovalorizzatore di Parma, che a causa della  RD doveva prendersi i rifiuti da altre regioni. Quindi, ripeto, può avere senso solo in alternativa alle discariche.

La raccolta differenziata dei rifiuti: la raccolta differenziata è l’unico modo di riportare nel ciclo produttivo i materiali e passare da un sistema unidirezionale, che vuol dire estrarre risorse dal pianete, utilizzarle per la produzione ed a fine ciclo gettarli in discarica o bruciarli. Una cosa assurda che il nostro paese/nazione non  può permettersi a livello economico, visto che siamo poveri di materie prime.  Quindi la differenziata va fatta bene, abbattendo i costi e migliorando la qualità dei materiali recuperati da reintrodurre nel ciclo produttivo.

Riciclo dei materiali: La regione dovrebbe puntare su un sistema industriale locale, capace di portare a reddito i materiali recuperati e differenziati e soprattutto creare lavoro, che ne abbiamo tanto bisogno.

Disponibilità di Italia del Meridione e, quindi, dei suoi referenti e delle sue risorse umane, a dare suggerimenti precisi, sulla base di esperienze già acquisite e sperimentate e anche di nuove idee. l’obiettivo è di  evitare o limitare errori e ritardi ulteriori e portare la Calabria ai primi posti a livello nazionale nella qualità di gestione dei rifiuti. Bruciare un problema non è un modo per risolverlo.

Sarà un percorso difficile ma non procrastinabile, necessario anche per cambiare l’immagine negativa della nostra regione. Si tratta di una necessità e quindi di un obbligo morale . Non possiamo permetterci di meno.

Buon ambiente e buona Calabria. (gl)

[Giovanni Lamanna è responsabile Ambiente regione Calabria di Italia del Meridione]

LE RISORSE SOLIDALI DESTINATE AL PONTE MINANO L’EQUILIBRIO INFRASTRUTTURALE

di ETTORE JORIO – Sul Ponte sventola bandiera bianca: è la resa della perequazione infrastrutturale. E già, perché nel finanziamento previsto nelle legge di bilancio per il 2024 per il Ponte sullo Stretto (oggi con le carte in Procura per un approfondito esame delle procedure adottate), è dato constatare che: se da una parte, c’è l’impegno del Governo a lavorare in favore del federalismo fiscale (legge di bilancio per il 2023, commi 791- 801bis); dall’altra, si svuotano le risorse solidali per investirle su altro. Più esattamente, lo si fa sottraendo una parte consistente delle risorse destinate, circa 2,5 miliardi, a uno dei due strumenti più importanti per sostenerne la partenza e il funzionamento a regime. Il peggiore dei modi per favorire l’accesso al federalismo fiscale e alla eventuale istanza consapevole delle Regioni a concretizzare un regionalismo rafforzato.

I due pilastri fondamentali per lo start del criterio di finanziamento basato su costi e fabbisogni standard, capace di mandare a casa (finalmente) la spesa storica, sono i fondi perequativi: quello che supporta i conti di esercizio degli enti territoriali strumentale ad assicurare i Lep (ma anche i non Lep) e le funzioni fondamentali degli enti locali; quello che assicura la parità infrastrutturale, indispensabile agli enti destinatari per portare a casa la parità di partenza per erogare quanto dovuto alla loro collettività.

Si tagliano le ali al sistema autonomico territoriale

Funzionale a conseguire un siffatto avvicinamento del patrimonio produttivo pubblico delle regioni povere in tal senso è l’istituito Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc già Fas), impegnato istituzionalmente, a scopo solidaristico, in sinergia con gli altri fondi strutturali europei. In quanto tale – in esercizio attuativo dell’articolo 119, comma 5, della Costituzione, quindi della legge delega attuativa 42/2000 e del decreto delegato 88/2011, e dell’articolo 174 del Tfue – il Fsc ha il compito di assicurare unità sostanziale alla programmazione e al finanziamento nazionale, attraverso propri interventi finanziari aggiuntivi. Ciò allo scopo di favorire il riequilibrio economico e sociale tra le diverse Regioni (ma anche degli enti locali): per l’appunto, concretizzando una perequazione infrastrutturale.

In una tale ottica – prescindendo dalle grandi opere di interesse nazionale ed europeo che devono rintracciare le risorse in interventi speciali, che costituiscono l’altra specie prevista nell’anzidetto comma 5 dell’articolo 119, effettuabili ad hoc dallo Stato – costituisce un guaio irreparabile impiegare in altro le risorse destinate per riequilibrare i disequilibri strutturali. In ciò che non siano investimenti destinati a mettere a terra, dove occorrano, maggiori beni funzionali a dare certezza all’eguaglianza strutturale di partenza del federalismo fiscale. Non farlo, significherebbe pensare a Lep teorici e non a prestazioni essenziali reali da rendere praticamente esigibili in favore di tutti i cittadini, ovunque risiedano.

L’evento che genera l’esistenza di questo pericolo è rintracciabile nella legge 213/2023, costituente l’investimento di maggiore rilievo tra quelli previsti, riguardante la costruzione del Ponte sullo Stretto, sostenuta con 11,63 miliardi di euro (si veda NT+ Enti Locali & Edilizia del 15 febbraio scorso). Il tutto però con una modalità di finanziamento che – ben lungi dall’essere quella tipica della costruzione delle grandi opere del Paese e in quanto tale dovrebbe essere a carico esclusivo dello Stato – non sembra ispirata a favorire negli anni la disponibilità di risorse da destinare alla perequazione infrastrutturale. A colmare le storiche differenze, tali da spaccare almeno in due la Nazione.

La legge 13/2023, infatti, non ha posto a carico del bilancio dello Stato tutti gli 11,63 miliardi, in difformità alla formulazione approvata originariamente dal Cdm, distribuiti nel novennio 2024-2032, con anticipazione di 500 milioni nel corrente esercizio. Ha tuttavia sancito che di questi: 9,312 miliardi rimangono a carico dello Stato distribuiti nei previsti nove anni (comma 272); 718 milioni a gravare sui finanziamenti statali prevalentemente destinati a progetti per il Mezzogiorno (comma 273, lett. a); 1,6 miliardi finanziati dal Fondo di sviluppo e coesione (FSC) assegnato alle Regioni Calabria e Sicilia (comma 273, lettera b).

La perdita di chance dell’eguaglianza sostanziale

Da qui, la bandiera bianca issata dagli aspiranti uguali, che così rimarranno vittime di un patrimonio infrastrutturale sproporzionalmente diseguale. Ciò nella considerazione di tre eventi tangibili: la intenzionalità del Governo, peraltro nel frattempo impegnato nella individuazione dei Lep e della loro sostenibilità con ricorso alla perequazione, di rendersi autore dello svuotamento, per un importo di 2,318 miliardi di euro, delle risorse impegnate a colmare le differenze infrastrutturali. E già, perché con l’accollo in capo alle Regioni Calabria e Sicilia, sottrae a esse 1.6 miliardi da destinare a riequilibri propri, peraltro da dovere ove mai incentivare per accogliere al meglio l’insediamento della mega opera, quanto a sistema viario e ferroviario (e non solo); la incomprensibile ratio governativa di sottrarre 718 milioni di euro ai progetti utili, e già previsti, a compensare parte delle povertà infrastrutturali del Sud del Paese; l’opzione di offrire priorità al Ponte sullo Stretto rispetto a tante altre infrastrutture indispensabili alla percezione dei diritti elementari da parte di una Nazione affamata di servizi e prestazioni giammai esatti. Tutto questo rappresenta una volontà negativa di accantonamento della spesa storica, forse perché comoda per chi detiene il governo del Paese nonostante sia segnatamente pregiudizievole all’esigibilità dei diritti fondamentali. Una negatività, questa, che fa apparire il tentativo in atto di determinazione dei Lep e degli strumenti di sostenibilità dei medesimi un’altra brutta puntata di quel dramma oramai vecchio di 22 anni. Di quel federalismo fiscale rimasto sulla carta, destinata a ingiallire ulteriormente, mentre la nazione è a secco di diritti civili e sociali. Ci si augura di avere torto. (ej)

[Courtesy Il Sole24Ore]

ALTA VELOCITÀ FS, IL NODO PRAIA-TARSIA
RICHIEDE UNA SOLUZIONE DI FUNZIONALITÀ

di FLAVIO STASI – Ci sono conti che il nostro territorio deve chiudere, altri che deve riaprire. Di certo è giunto il momento di riaprire quello della storica dimenticanza delle Ferrovie, intese come di mezzo di trasporto e come società, nei confronti dello ionio: un conto amarissimo a carico dei cittadini.

La prova dell’esistenza di tali dimenticanze si riscontrano anche in alcuni episodi di queste settimane. In primis la chiusura della linea per i lavori di elettrificazione che vengono fatti da giugno a settembre: perché non farli solo a Ferragosto, Pasqua e Natale?

Lungi da noi voler ritardare questi importantissimi lavori, ma è evidente come l’enorme problema della mancata elettrificazione della ferrovia ionica non risentirebbe troppo dell’attesa di ulteriori tre mesi (evitando la chiusura estiva) alla luce dei trent’anni di ritardo con i quali questa opera viene presentata.

Oppure si pensi alla enorme difficoltà che si sta facendo per riuscire a non far perdere una misera coincidenza per il Sibari-Bolzano: tragicomico.

Lo dico col massimo rispetto per tutti coloro che lavorano nelle ferrovie, a tutti i livelli: il problema non credo sia la serietà di tecnici ed amministrativi, bensì la percezione del problema e del territorio da parte delle strutture politico-aziendali che sono convinte, da decenni, che lo ionio non sia una cosa che li riguardi, come se fossimo in un’altra nazione o continente.

La vicenda della Praia-Tarsia rappresenta la proiezione più autentica di tale difficoltà, aggravata dal patologico silenzio tombale di una intera rappresentanza territoriale che mi auguro sia inconsapevole di ciò che significherebbe, per il futuro della nostra terra, l’estromissione della Valle del Crati dal percorso della Alta Velocità, quindi l’abbandono del nodo di Tarsia.

È un processo di marginalizzazione e “contenimento barbarico della spesa” che avevano provato ad innescare anche sulla Statale 106, quando solitariamente (purtroppo) mi opposi ad un progetto da 300 milioni di euro che prevedeva un’idea progettuale da deserto atomico, sul quale, ovviamente, il Comune diede un inaspettato (per loro) parere sfavorevole.

Ciò che temo non sia chiaro agli altri amministratori, anche di livello extra-comunale di tutti gli schieramenti e di altri territori, a partire da quelli più meridionali, è che questa vicenda segnerà la mancata realizzazione della Alta Velocità in Calabria, che sarà trasformata in una “rabberciata” alla linea tirrenica.

Del resto, sotto il profilo strettamente “contabile”, il fatto che gran parte della Provincia di Cosenza, nel caso di cancellazione della Praia-Tarsia, continuerà serenamente a preferire altri mezzi di trasporto piuttosto che impiegare un’ora e mezza per raggiungere la stazione AV più vicina, consentirà a Rfi di poter dire che il bacino di utenza non giustifica l’investimento, senza alcun vantaggio per il tirreno e con buona pace di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza.

Sono profondamente convinto che si tratti di un errore di carattere strategico sul quale la Regione Calabria ed il Ministero debbano quanto meno aprire un confronto, non solo perché quest’area della Calabria ha diritto ad essere collegata come qualsiasi area del resto d’Europa, ma soprattutto perché, se messa nelle condizioni di poterlo fare, può dare un contributo importante al Paese.

Si affronti il tema del nodo di Tarsia, scevri da condizionamenti di carattere politico, non attraverso delle sterili (ed anche poco credibili) criticità di carattere tecnico – che non sarebbero certamente diverse per altri tracciati – ma con una visione strategica dello sviluppo della nostra terra e sono certo che convergeremmo tutti sullo stesso tracciato: noi siamo pronti al confronto. (fs)

[Flavio Stasi è sindaco di Corigliano Rossano]

LA CALABRIA DELLO JONIO: IL SUD NEL SUD
ABBANDONO E UN POTENZIALE INESPRESSO

di BRUNO TUCCI  – Potrebbe sembrare assurdo, ma non lo è: in Calabria c’è un Sud nel sud. Parliamo dell’alta fascia jonica che da Sibari va verso la Basilicata: paesi che si chiamano Villapiana, Cerchiara, Trebisacce, Amendolara, Roseto, Montegiordano, Rocca Imperiale.

In questo lembo di terra, ma anche in altre cittadine che si affacciano su questo mare (tranne rare eccezioni) il tempo sembra essersi fermato.

Non è andato al passo con i tempi, è rimasto a guardare, non certo per colpa della popolazione che continua a elencare i guai che la perseguitano. La responsabilità è altrove: in parte dei sindaci, senza però dimenticare Roma che al Mezzogiorno dedica poca attenzione.

Chi scrive è originario di uno di questi paesi, Amendolara, dove trascorre le sue vacanze estive in luglio e agosto (qualche volta fino a settembre).

Elenco subito quali sono le maggiori pecche che questa fascia dello Jonio deve sopportare.

Il mare, innanzitutto: è bello, azzurro, con l’acqua che ti invita a fare i bagni. Però, ecco la prima incuria: molte spiagge sono abbandonate, non vengono curate come si dovrebbe e pure in estate lasciate sporche senza la minima preoccupazione.

Come si può fare turismo se questa è la situazione? Pensate, nella sola fascia Jonica che da Reggio arriva fino a Rocca Imperiale ci sono oltre 400  chilometri.

Se si fosse pensato in tempo qual era la vera ricchezza della Calabria, forse oggi non saremmo considerati il Sud nel sud. Invece, tanti anni fa, circa il 1970, si decise diversamente.

La Calabria doveva industrializzarsi.

I contadini abbandonare in parte la campagna per essere impiegati in lavori meno pesanti. Così in provincia di Reggio doveva nascere il quinto centro siderurgico (quando già il quarto era in crisi), doveva però lasciare a Catanzaro il pennacchio del capoluogo e a Cosenza  una università moderna, tipo collegio americano.

È chiaro che in queste condizioni come avrebbe potuto svilupparsi il turismo? Come avrebbe potuto crescere e diventare ricca una regione nella quale le scelte erano state completamente sbagliate? Pensiamo per un momento alla costiera Adriatica, dove pochi chilometri di mare (non bello come lo Jonio) hanno fatto la fortuna di centinaia di migliaia di persone.

Non è solo il mancato turismo ad aver penalizzato questa terra. Un esempio?

Bene: dall’estremità della provincia di Cosenza (Rocca Imperiale) per arrivare a Reggio ci vogliono poco meno di sette ore in treno.

Si fa prima a raggiungere Roma. Di recente, fortunatamente, un frecciarossa parte da Sibari  con una freccia rossa del Sud che ti porta per arrivare a Termini quattro ore più tardi.

Se ti ammali nel paese di cui sono originario diventa un guaio serio. Il primo ospedale è a Rossano (50 chilometri della 106, da dimenticare) oppure trasferirsi a Policoro in Basilicata, stesso percorso, ma arteria meno complicata. Fino a qualche anno fa finalmente a Trebisacce era nato un ospedale che aveva aiutato non poco la gente che abitava pure nei paesi vicini. Prima, è stato retrocesso a pronto soccorso, adesso non ha più alcuna attività di vera e propria medicina. Ci si va solo se cadi o ti sei fatto male (non molto) lavorando in campagna.

Perché Sud del sud che, con qualche ironia, mi si diceva durante la rivolta di Reggio dove ero andato per il mio giornale che era allora Il Messaggero? Soggiornavo al nord della Calabria ed ero quindi al loro confronto uno svedese. Magari, l’alto Jonio fosse idealmente idealmente a Stoccolma!

Si pagherebbero volentieri le tasse fino all’ultimo centesimo se lo Stato non fosse così lontano com’è oggi.

Che cosa si può fare? Tanto, moltissimo, se se ne sentisse la necessità.

Ad esempio: la statale 106 che è ancora oggi considerata la strada più pericolosa d’Italia, solo in alcuni tratti è stata rinnovata, ragione per cui se tu vuoi andare in macchina fino a Reggio per goderti lo spettacolo del mare deve impiegare un arco di tempo indecifrabile. Dipende dal traffico e dalle continue interruzioni.

Con il governo Meloni si fa un gran parlare del ponte sullo Stretto: un’opera che potrebbe impiegare migliaia di persone.

Se ne discute dai tempi in cui io ero un giovanotto, cioè una sessantina di anni fa.

Speriamo che questa sia la volta buona: che voglia dire un impegno diverso da parte di Roma.

Un impegno che dia la possibilità ai ragazzi calabresi di oggi di essere un giorno signori senza i tanti  grattacapi economici. (bt)