Nel ventre della Balena di Attilio Sabato

di  PINO NANO  – Esce in questi giorni il nuovo libro del giornalista Attilio Sabato, Nel ventre della Balena (Luigi Pellegrini Editore) interamente dedicato alla storia della Democrazia Cristiana con i riflettori puntati sulle vicende più scottanti e anche più importanti del partito in Calabria. Uno spaccato inedito di storia politica e anche di sociologia politica che farà molto discutere per i contenuti e i risvolti che lo scrittore ricostruisce.

Cosa è stata la DC in Calabria? Cosa ha rappresentato la DC per il Paese? Quanto è pesato sulla storia del partito il delitto Moro? Cosa ha rappresentato per la Calabria la morte dell’ex Presidente delle Ferrovie dello Stato Vico Ligato? Quanto ha contato la politica al Sud? Quanto ha contato invece sulla gestione del consenso la criminalità organizzata? E quanto ha contato la Calabria nei palazzi del potere romano? E soprattutto, chi dei politici calabresi ha contato di più nell’immaginario collettivo e nella prassi reale del sistema potere?

A tutti questi interrogativi prova a rispondere un giornalista navigato e bravissimo come lo è Attilio Sabato, storico direttore di Teleuropa Network, e storico corrispondente dell’ANSA dalla provincia di Cosenza, e lo fa con un saggio molto articolato, pieno di domande e di risposte, un colloquio diretto con Pietro Rende, vecchio deputato democristiano e in passato anche uomo di grande potere all’interno della DC, protagonista di primo piano della sinistra democristiana, la corrente che allora riuniva il fior fiore degli intellettuali italiani al servizio di un progetto di democrazia per il paese che non sempre nel partito ha trovato consensi unanimi. Una intervista serrata, senza rete, dove il grande cronista prova a capire meglio i mille segreti che la Balena Bianca si porterà forse dietro per sempre, e che Pietro Rende svela solo in parte, riconfermandosi in questo un “pezzo fondamentale” della storia del partito, per cui non tutto si può raccontare e alcune cose è meglio non raccontarle mai. Ma non per paura, forse per il rispetto assoluto che i vecchi politici di un tempo avevano per il proprio partito di riferimento.

Questo però non toglie nulla a questo saggio in cui Attilio Sabato ricostruisce alla sua maniera, con un linguaggio moderno e freschissimo, gli anni più belli ma anche gli anni più bui della vita della Balena Bianca, dentro mille ricordi personali, tutti quasi intimi e privati, che Pietro Rende trasforma in capitoli di storia, dando al suo racconto un carisma che solo un intellettuale ed un economista come lui avrebbe potuto fare. C’è dentro questo libro un tocco di classe che forse il lettore comune non si aspetta, un racconto felpato delicato e sereno delle cose e degli avvenimenti di quegli anni, nessun astio, nessun rancore, nessun sassolino da togliere dalla scarpa del passato, ancora meglio: nessun nemico da colpire o da ricordare come tale, tranne la dichiarazione pubblica di un rapporto difficile, quasi impossibile, con Carlo Donatt Cattin, leader di Forze Nuove, una delle correnti che più ha fatto penare la sinistra che allora faceva capo a Bodrato Marcora Pisanu Zaccagnini De Mita e Misasi.

Così come felpata e appena accennata è l’analisi che “l’intellighenzia economica della DC calabrese” -era così che il partito allora giudicava Pietro Rende– riserva al capitolo “delicatissimo” dell’Università della Calabria, e alle prime rivolte studentesche, ai primi moti terroristici, ai primi blitz della polizia, che Pietro Rende giudica come pure “ragazzate” frutto magari di giovani esuberanti e un tantino scapestrati, mentre invece viene fuori prepotente in questo suo racconto il sogno irrealizzato di poter insegnare in questo Campus universitario appena nato sulle colline di Arcavacata, alle dirette dipendenze di un grande maestro come lo era Beniamino Andreatta. Un sogno spezzato però dalla sua elezione alla Camera dei Deputati, ma probabilmente rimasto ancora vivo fino ai giorni nostri.

Dettagli, nomi, location, eventi e avvenimenti, regionali e nazionali, che danno in questo saggio l’immagine reale di un grande partito politico, alimentato da mille passioni, da mille pulsioni sociali, da mille progetti da realizzare, una ideologia forte quanto la speranza che solo gli uomini di chiesa sanno avere, e in questo saggio troviamo un’attenzione speciale verso la Chiesa calabrese, che in realtà della DC è stata per lunghi anni anche la “schiava più fedele”. Perché non dirlo? Un saggio coraggioso questo che Attilio Sabato sforna in questi giorni, e che riapre in Calabria il dibattito sulla politica, sul ruolo della classe dirigente, e sulla tradizione che legava l’anima popolare ai partiti di un tempo. Pietro Rende lo confessa apertamente, i partiti di un tempo non ci sono più, e al loro posto hanno preso il sopravvento altre logiche e altre dinamiche, e mentre un tempo i cittadini conoscevano bene i nomi dei candidati da votare al Senato o al Parlamento, oggi invece nessuno conosce più i nomi degli eletti. Una involuzione bestiale, il fallimento e la negazione di un romanzo meraviglioso che per molti di noi ha accompagnato la nostra vita personale e professionale.

Vi invito a leggere prima di tutto l’indice di questo saggio, è un indice strano, assolutamente atipico rispetto a quello a cui ogni lettori è ormai abituato, ma qui l’indice anziché citare i capitoli trattati cita le domande chiave che il cronista rivolge al vecchio “animale politico”, e questo aiuta ancora meglio il lettore nella ricerca dei tempi e dei soggetti che più predilige o preferisce.

Molti protagonisti della vera storia della Balena Bianca in Calabria non si ritroveranno in questo saggio edito da Pellegrini Editore, non sono neanche stati citati, o se ne parla a mala pena -anche questo va detto, e me ne scuso con gli autori- ma forse perché Pietro Rende li ha conosciuti poco, o ha preferito non parlarne, o ha scelto di proposito di sorvolare, e forse questo è il vero grande limite di questo suo racconto, perché chi ha vissuto quegli anni non poteva non conoscere il peso politico debordante e totalizzante che aveva allora Carmelo Puja e la sua corrente, che a Cosenza era Franco Pietramala, e nella locride la famiglia Laganà, e a Vibo Tony Murmura, a Catanzaro Ernesto Pucci e Mario Tassone, e a Reggio Calabria Franco Quattrone, e sullo Jonio Peppino Aloise, e sul tirreno cosentino Franco Covello, per non dimenticare il ruolo di Dario Antoniozzi Guglielmo Nucci e Pasquale Perugini a Cosenza, Vito Napoli che non aveva collocazione geografica perché appena arrivato da Torino. Per non parlare della guerra fredda e spietata tra Riccardo Misasi e Carmelo Puija in una certa fase del loro rapporto di potere. Pietro Rende cita con ammirazione e sentimento per esempio Peppino Reale, deputato di Reggio Calabria che in realtà contava molto poco, ma che era legato a lui da vincoli di grande affetto personale, e questo conferma che il racconto che Pietro Rende fa ad Attilio Sabato serve soprattutto al vecchio parlamentare per ricordare a se stesso forse gli amici più cari che con lui avevano condiviso battaglie ideologiche di prima piano e di prima grandezza. 

Ma forse è più giusto così, perché c’è un tempo per le guerre e un tempo per la riconciliazione, e questo racconto va letto anche in questa chiave. (pn)

NEL VENTRE DELLA BALENA
di Attilio Sabato
Luigi Pellegrini Editore, 2023

La disfatta e la rinascita del PD di Michele Drosi

di SERGIO DRAGONE – Michele Drosi è l’ultimo romantico del socialismo calabrese. La sua ostinazione a volere innestare a tutti i costi i valori del socialismo riformista nel “corpo estraneo” del Partito Democratico è degna di ammirazione, al pari del generoso sforzo di don Chisciotte di abbattere i giganti-mulini al vento. Qualche volta ha operato delle forzature, come quella di fare passare un vetero-comunista come Mario Oliverio per un riformatore liberale.

La verità è che il PD, nato dalla fusione a freddo tra gruppi dirigenti ex comunisti ed ex democristiani, non è stato, non è e non sarà mai un partito erede del socialismo democratico. E’ una questione di contenuti e non di forma e quindi non basta l’adesione del PD al Partito socialista europeo per affermarne una mutazione genetica in senso riformista. Non è un caso che molti socialisti, sentendosi estranei al nuovo soggetto, hanno preferito negli anni riparare sotto le rassicuranti bandiere berlusconiane.

L’ultimo lavoro di Drosi – un pregevole saggio sull’evoluzione del PD e sulla sua attuale e profonda crisi – è comunque un contributo importante al dibattito che si muove in quella che genericamente viene definita la “sinistra” italiana. Non a caso arriva nelle librerie nelle settimane in cui nel PD si consuma il rito delle primarie per la scelta del nuovo segretario.

Drosi nella sua analisi parte dalla sconfitta, anzi dalla disfatta, del PD alle ultime politiche. L’autore, che non ha mai rinnegato nemmeno per un attimo la sua formazione socialista e manciniana, analizza con profondità le cause della Caporetto democratica, con riferimenti rigorosi alla lunga vicenda del PD dalla sua fondazione ad oggi. 

L’autore è addirittura spietato nel suo giudizio finale che ci sembra utile riportare: “Il PD – scrive Drosi – è allo stato una forza politica senza ideologia e senza classi di riferimento, il cui unico tratto identitario sono state le primarie viste come strumento di un plebiscitarismo che incorona il capo per praticare una vocazione maggioritaria dal significato fumoso, proposta da Veltroni e sostenuta in una prospettiva di liberalismo radicale, il cui nemico è, paradossalmente, il conflitto sociale, relegato negli scantinati della storia. Un partito percepito come espressione di élite borghesi e del 19 mondo della finanza, lontano dagli interessi popolari e da quel conflitto sociale che consentì al movimento operaio, base politica e sociale della Sinistra del Novecento, di imporre severe regole al capitalismo e di ridistribuirne la ricchezza verso il basso, secondo l’efficace immagine non di un capo bolscevico dopo la presa del Palazzo d’Inverno in Russia, ma di un grande leader della socialdemocrazia mondiale: lo svedese Olaf Palme, che affermò: “il capitalismo va tosato e non ucciso”. Mentre dovrebbe caratterizzarsi come una forza della Sinistra con al centro il Mezzogiorno, che l’autonomia differenziata, sostenuta dalla Lega, ma non solo, tornata alle origini di partito del Nord, relegherà sempre più in una posizione marginale nello scenario economico e sociale nazionale.

Sottoscrivo in pieno questa analisi. Mi permetto solo di dissentire sulle prospettive. Drosi mantiene ancora una carica ottimistica sulla possibile mutazione del PD in partito socialista, riformista e garantista. Io penso, al contrario, che è il socialismo che deve adeguarsi ad un mondo che è profondamente cambiato, individuare soluzioni per affrontare gravi emergenze planetarie, prime fra tutte quella ambientale e quelle legate ai flussi migratori.

Occorre individuare cosa ancora resta di vitale in una cultura (“una civiltà”, l’ha meravigliosamente definita Claudio Signorile) che ha segnato tutti i progressi del mondo occidentale, soprattutto in materia di diritti civili e di riscatto delle classi subalterne.

Sarà capace di fare questo il nuovo PD che scaturirà dal congresso costituente? Saranno capaci di farlo Stefano Bonaccini o Elly Schlein che mi sembrano molto estranei alla cultura socialista? Forse la seconda mi sembra più pronta ad interpretare i mutamenti tumultuosi della società contemporanea, in particolare le problematiche poste da una crisi ambientale senza precedenti che modificherà la fisionomia del pianeta e produrrà nuove migrazioni.

Meno adeguato mi sembra Bonaccini anche perché è un paladino dell’autonomia differenziata (si ricordi il referendum promosso sul tema in Emilia Romagna) e punta tutte le sue chances su un “partito degli amministratori” che è cosa molto diversa da un partito della sinistra riformista.

Punti di vista. Resta il fatto che Drosi si conferma un osservatore attento e intelligente delle vicende politiche, convinto che la politica sia circolazione delle idee e non mercato delle tessere. Un libro da leggere, per riflettere. (sdr)

LA DISFATTA E LA RINASCITA DEL PD
di Michele Drosi
Edizioni Città del Sole, ISBN 9788882383411

L’ombra di Michelangelo di Enzo Gabrieli

Una statuetta d’avorio raffigurante un Cristo alla colonna. Il mistero della sua origine. E la maestosa figura di Michelangelo, protagonista indiscusso del Rinascimento, il cui straordinario talento, riassunto nelle fattezze e nei tratti delicati di quest’opera, arriverebbe fino alle nostre latitudini. Sono i punti cardine, arricchiti da una miriade di efficaci e suggestive interpunzioni letterarie, su cui si basa il romanzo L’Ombra di Michelangelo, scritto da Enzo Gabrieli per i tipi di Luigi Pellegrini Editore.

Sacerdote e giornalista, parroco di San Nicola di Bari, uno dei simboli religiosi della cittadina di Mendicino, l’autore propone un racconto ricco di colpi di scena che attraversa un lungo periodo della storia italiana. Dall’epoca rinascimentale, appunto, che, tra la metà del Trecento e la fine del Cinquecento ebbe vaste ripercussioni in ogni ambito della vita e delle attività dell’uomo, fino ai nostri giorni. Il momento in cui, una matassa multiforme di figure, avvenimenti ed eventi, che abilmente Enzo Gabrieli confeziona nel suo romanzo, arrivano finalmente nel cuore della religiosità cosentina. Tra il Duomo, fresco di celebrazione per l’ottocentesimo anniversario della sua consacrazione, avvenuta alla presenza dell’imperatore Federico II di Svevia nel 1222, alcune prestigiose figure della nobiltà locale e della Congregazione che, tra il ‘700 e l’800, ne ha ospitato e valorizzato il ruolo nel contesto cittadino, e la statuetta d’avorio, da tempo gelosamente custodita nel Museo diocesano di Cosenza, posta al centro di un’abile orditura letteraria destinata a lasciare il segno. Ciò, non solo riguardo alla fondatezza dell’ipotesi contenuta nel romanzo, circa l’origine michelangiolesca dell’opera, ma anche per i riflessi che la pista investigativa seguita dall’autore potrebbe avere sul piano della valorizzazione turistico-culturale del territorio cosentino e, in generale, della Calabria.

I presupposti per ottenere attraverso il romanzo di don Gabrieli questa molteplicità di ricadute ci sono tutti. Non rimane, a questo punto, che verificare una potenzialità “identitaria”, già ricca di interessanti tracce (come la Stauroteca, donata alla città proprio dallo Stupor Mundi, nella particolare circostanza della sua presenza alla cerimonia di consacrazione del duomo, ricostruito dopo il terremoto del 1184), e i realistici sviluppi, anche di carattere economico, connessi a tale essenziale presupposto, di cui il romanzo di don Gabrieli potrebbe rappresentare un concreto inizio.

Dal libro ha tratto ispirazione il cortometraggio “L’ombra di Michelangelo”. Un lavoro artistico di pregio, accuratamente confezionato dai registi Gianfranco Confessore e Marco Martire, e arricchito dalla produzione esecutiva di Ermanno Reda, di cui sono protagonisti gli attori Francesco Bossio, Elena Presti, Carmelo Giordano e Vanessa Pasqua. (fk)

L’OMBRA DI MICHELANGELO
di Enzo Gabrieli
Pellegrini Editore – ISBN 9791220501620

Alfonso Rendano. La vita, l’arte – di Bruno Castagna

di PINO NANO –  Alfonso Rendano. La vita, l’arte”, (350 pag. Edizioni Publisfera) è un saggio con cui Bruno Castagna, storico studioso del grande musicista calabrese, riapre il dibattito sulla vita e sul valore del principe della musica calabrese.  Si tratta, diciamolo subito, di un lavoro di grandissimo interesse per studiosi e appassionati di musica, e che vede la luce dopo anni di studi e di approfondite ricerche nelle maggiori biblioteche italiane ed europee. 

Il saggio dello storico Bruno Castagna illustra la vita e il percorso artistico del musicista calabrese, dai primi passi, nel paese natio di Carolei, fino alla sua morte, avvenuta a Roma nel settembre del 1931, ne riprende i momenti più importanti, attraverso cronache, lettere e documenti, nella maggior parte dei casi assolutamente inediti, e questo per Bruno Castagna è il secondo volume dedicato al concertista calabrese, dopo quello del 2008. 

– Bruno Castagna, cosa le rimane oggi di un lavoro così importante?

«È stato un lavoro appassionante”. Soprattutto è stato uno studio intrigante. Ricercare e mettere insieme un’infinità di documenti non è mai semplice. La passione è passione. La mia ha radici antiche. Mia nonna materna, Francesca Suriani, era stata un buon soprano. Amavo ascoltarla mentre suonava al pianoforte le arie più famose della Tosca e della Bohème, di Giacomo Puccini, Vissi d’arte, E lucean le stelle, Che gelida manina, Mi chiamano Mimì. Da lei ho ereditato pur senza saperlo l’amore per la musica. Mio nonno Mario Ridola è stato un pittore importante. Fondatore dell’Accademia di Belle Arti a Tirana, nel 1931. Lo ricordo armeggiare nel suo studio tra tavolozza e pennelli, colori e tinte, e dar vita alle sue tele. Fatte di ambienti, volti, paesaggi.  La passione per la ricerca, però, devo averla ereditata anche da mio padre Benito, poeta dialettale e, a suo modo, studioso delle tradizioni, dei luoghi e dei personaggi della vecchia Catanzaro».

– Com’è nata l’idea di occuparsi proprio di Rendano?

«Nel 1998 fondai a Carolei, centro nel quale risiedo dal 1979, il periodico locale Compagni di viaggio. Le testimonianze rintracciate su alcuni giornali d’epoca e pubblicate nella rubrica “cronache del passato” mi spinsero in biblioteca. Si affacciò, prepotente, la curiosità di saperne di più.  Riuscii a catalogare una enorme mole di documenti su Carolei e Rendano».

– Scrisse già allora qualcosa?

«Nacque il mio primo lavoro, Carolei. Dalla fase post-unitaria alle soglie della Repubblica, che mise insieme una infinità di articoli distribuiti in ben cinque volumi. L’interesse per Rendano si concretizzò in un primo opuscolo, Alfonso Rendano. Il beato angelico della musica, edito nel 2001, redatto insieme all’Associazione culturale Alfonso Rendano, nata nel 2000, e della quale facevo parte. Il resto è storia recente. Nel 2008 ho dato alle stampe Alfonso Rendano. Musicista d’Europa. Un passaggio importante, ma, soprattutto, l’inizio di una nuova avventura, quella che, ormai, dopo anni e anni di lavoro sta per concludersi». 

– Partiamo allora dal personaggio principe della sua storia. Chi era Rendano? 

«Alfonso Rendano fu un uomo semplice, di un carattere schivo e poco espansivo, ma di una generosità fortissima. Uno spirito aperto e schietto, ma sempre pronto a ribellarsi alle violenze ed alle ingiustizie. Il fitto e inedito epistolario con Antonietta Trucco, divenuta poi sua moglie, il carteggio con diversi artisti, la documentazione relativa ai rapporti con la dirigenza del Real Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, in cui fu chiamato ad insegnare nel periodo tra il 1887 e il 1889, ne sono la testimonianza più viva». 

– Che giudizio artistico si può dare di lui?

«Senza dubbio era un pianista eccellente. Ma non va dimenticato che fu anche un compositore eccellente. Concertista dallo stile semplice, ma vibrante di passionalità e di colorito. Comprese, come pochi, che l’arte è religione e non mestiere, e per questo fu interprete più grande, più fine, più delicato, più espressivo della musica classica, che tradusse con semplicità, con grazia, con purezza di stile incomparabile. Il tocco soave, morbido, scorrevole, la sua precisione di meccanismo raggiunse prove altissime di difficoltà da altri non superate mai». 

– 350 pagine sono un documento importante sulla vita del musicista…

«Per comprendere la grandezza di questo artista ho scandagliato, analizzandola a fondo, la documentazione riferita a circa settant’anni della sua vita. E cioè, dalla sua Rêve du Paysan, composta all’età di dieci anni, al Lento, pensoso, con profonda tristezza, ultimo atto della sua esistenza terrena. I due estremi di un percorso interamente dedicato all’arte.» 

– Possiamo parlare di Rendano primo emigrante della musica calabrese?

«Certamente quello che possiamo dire è che Rendano frequentò pianisti e compositori di prim’ordine. Da Saverio Mercadante che lo accolse, ancorché bambino, nel Real Collegio di Napoli, a Thalberg che, sempre nell’ex capitale del Regno, volle curarne personalmente la formazione, indirizzandolo in seguito alla corte di Rossini, a Parigi. E, ancora, dallo stesso Rossini, che lo segnalò a François Aubert, direttore del Conservatorio parigino, che lo ritenne idoneo a frequentare i corsi della gloriosa istituzione musicale parigina, e a George Mathias, discepolo prediletto di Fryderyk Chopin. L’allievo assimilò i dettami artistici del sublime polacco e ne riprese le tendenze». 

– Ma non finisce qui…

«Altrettanto importante fu la parentesi a Lipsia, dove nel conservatorio musicale prese parte a un piano di studi piuttosto articolato curato da Oscar Paul, Friedrich Richter, Carl Reinecke, Salomon Jadassohn e Ferdinand David». 

– Un successo dietro l’altro, dovuto a cosa?

«Rendano ricevette una educazione musicale rigorosa, vivificata dall’influsso della scuola di compositori della statura di Bach e Beethoven e rivelò abilità e versatilità sorprendenti. E per finire Liszt, l’immenso Liszt, con il quale Rendano intrattenne un rapporto professionale intenso. Un forte rapporto umano, ma anche un valido sodalizio musicale. Il pianista magiaro tenne a battesimo il terzo figlio di Rendano, cui era stato imposto il nome Franz. Il piccolo purtroppo morì pochi giorni dopo la nascita».

– Possiamo parlare anche un Rendano eterno girovago?

«Assolutamente sì. Nel suo peregrinare per l’Europa Rendano toccò le maggiori capitali europee e i luoghi sacri della musica classica continentale, Parigi, Londra, Lipsia, Vienna, Budapest, e ciò, naturalmente incise sulla sua formazione pianistica. La sua splendida carriera artistica toccò il punto più alto con la composizione dell’opera Consuelo.

– Cosa rimane oggi dell’opera di Rendano?

«Un’ottantina di composizioni, molte delle quali create in età giovanile. Tra esse spiccano un pregevole Quintetto per pianoforte e archi e un Concerto per pianoforte e orchestra di grande pregio. Liszt ne rimase affascinato e fece in modo di poterlo presentare in alcune audizioni a Weimar, al cospetto del granduca Carl Alexander». 

– E la “Consuelo”, naturalmente? 

«Finito il tempo dell’attività concertistica, Rendano si dedicò a quella che era la sua grande passione, la composizione. I romanzi di George Sand lo tentavano irresistibilmente. L’intuizione di riservare all’arte dei suoni la funzione di trait d’union tra i protagonisti di un intreccio amoroso, in un’epoca in cui la fantasia dei lettori avvertiva la necessità di qualcosa di più eclettico, aveva decretato il successo dei suoi racconti. E la curiosità di Rendano. La scelta cadde su Consuelo, un saggio di circa novecento pagine, pubblicato a puntate tra il 1842 e il 1843 su una rivista politica e letteraria, divenuto infine un romanzo. La figura di “Consuelo”, libera, semplice, indipendente, eroina romantica del mondo degli umili e degli oppressi affascinò. Rendano che la identificò come protagonista della sua opera. Era certo che una storia avvincente e un allestimento scenico ben strutturato ne avrebbero garantito la buona riuscita. Il fatto, poi, che sullo stesso lavoro si fossero misurati, con alterne fortune, anche Giovanni Battista Gordigiani nel 1846, Vladimir Kashperov nel 1865 e Giacomo Orefice nel 1895, una sfida importante che Rendano raccolse per rimarcare l’ammirazione per la Sand. La stesura del libretto fu affidata a Francesco Cimmino, poeta e letterato napoletano, noto negli ambienti del mondo letterario italiano per le sue amicizie con Enrico Panzacchi, Corrado Ricci, Edmondo De Amicis, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli e, soprattutto, Antonio Fogazzaro e Benedetto Croce».

– Lei ricostruisce nel suo saggio la prima di quest’opera?

«Mi sembrava importante farlo. La Consuelo, opera lirica in tre atti, ricca di melodie eleganti ed originali, fu rappresentata a Torino nel maggio del 1902. Il 24 aprile del 1902 l’annuncio della Cronaca di Calabria: «L’opera del nostro Alfonso Rendano sarà rappresentata a Torino verso la fine di questo mese, e grande è l’aspettativa. Auguriamo all’illustre Maestro, che è gloria di Cosenza nostra e della intera Calabria, un completo trionfo». A dirigere l’orchestra Rodolfo Ferrari. Aveva legato indissolubilmente il proprio nome ai debutti e ad altre iniziative della giovane scuola operistica, fra cui L’amico Fritz e Andrea Chenier, e ad alcune prestigiose “prime” italiane». 

– In realtà la prima di “Consuelo” fu un successo?

«Il pubblico torinese, in genere molto severo con gli autori esordienti, ospitò la Consuelo con grande entusiasmo. Tutto si svolse in un clima di perfetta armonia. Il teatro Vittorio Emanuele consegnò a Rendano una importante novità: Julius Feuchtinger, un giovane editore tedesco che, conquistato dalle melodie rendaniane, propose di allestire una tournée in Germania. Una firma e una solenne stretta di mano sancirono l’intesa. Consuelo fu così rappresentata a Stoccarda e Mannheim nel 1903 e a Brema nel 1905. L’ultima esibizione si tenne a Norimberga, nel 1924». 

– Mi pare di capire, un successo dietro l’altro?

«Il 27 marzo del 1903, a Stoccarda, l’opera riportò un successo clamoroso. Il teatro reale affollatissimo, le congratulazioni di Guglielmo II e Carlotta, reali di Wurttemberg, che s’intrattennero cordialmente con Rendano, le acclamazioni e le continue chiamate sul palco, premiarono il maestro e la sua Consuelo». 

– È vero che fu anche un grande successo di critica?

«La stampa non fu da meno. Il compositore venne celebrato e osannato. Le sue fotografie esposte nelle vetrine dei negozi e una guida tedesca dell’opera il segno tangibile di grande rispetto. In Consuelo si percepivano echi wagneriani. E tutto ciò ai tedeschi piaceva. La Neues Tageblatt evidenziò l’originalità di «una prima esecuzione di un’opera italiana sulla scena tedesca, un avvenimento che non si era prodotto a Stoccarda dall’esecuzione del Ratcliff di Mascagni in poi».

– Uno dei meriti riconosciuto a Rendano, scrive lei nel suo saggio, fu quello di essere stato un insegnante di ottimo livello.

«Vede, dopo la breve parentesi al Conservatorio di Napoli, Rendano riprese a insegnare agli inizi del ‘900 e, soprattutto, nell’immediato dopoguerra. Si rivelò docente scrupoloso e paziente. La sua casa venne frequentata da tantissimi allievi che gli si accostarono con rispetto. Riuscì a formare nel corso degli anni una lunga schiera di pianisti che calcheranno le scene dei principali teatri italiani ed esteri: Edoardo Boccardo, Adriano Ariani, Augusta Coen, Ester D’Atena, Carlo Morozzo della Rocca, Rodolfo Caporali».

– Cosa ricorda del suo incontro con Rodolfo Caporali?

«Caporali, che ho avuto l’onore l’onore di incontrare nel 2001, rievocò con un filo di emozione il suo primo incontro con il Maestro Rendano, come amava definirlo, avvenuto nel 1915». 

– Cosa le disse in particolare?

«Che incontrarlo gli produsse un’emozione grandissima. Fu subito conquistato da quella nobile figura, da quello sguardo acuto che lo studiava, per intuire se ci sarebbe stata, in futuro, la stoffa per un allievo di valore, eventualmente un musicista o un concertista. E poi il suo stupore davanti a quel pianoforte a coda, che vedeva per la prima volta. C’erano anche tante foto – mi raccontò Caporali – e, tra esse, quella della Regina Margherita, con dedica personale al Maestro e, ancora, quelle di Rubinstein, Bulow, Listz… Ne rimase affascinato!. Mi raccontò anche che il Maestro non era di molte parole, ma aveva l’arte di farsi capire, anche con un solo breve accenno al pianoforte, guidando l’allievo, con sapienza, all’esecuzione di brani in progressiva difficoltà, scelti fra il miglior repertorio della letteratura pianistica, sicché egli mi nutrì di Mozart, Bach, Haydin e poi Schuman, Chopin, fino ai più moderni compositori».

– Bruno, il suo volume documenta anche il tentativo di Rendano di comporre una seconda opera? 

«Purtroppo, però, andato vuoto. L’idea era nata sul finire del 1903. Rendano nutriva grande stima per l’amico Nicola Misasi, letterato e scrittore cosentino, del quale apprezzava i romanzi. I suoi Racconti calabresi rievocavano quelli di Giovanni Verga, tra i maggiori esponenti del verismo in Italia. Popolati da pastori, contadini e briganti calabresi. Altri, invece, narravano di violente passioni d’amore, di gelosie e di vendette. Tutti, nel segno di uno sviscerato amore per la Calabria. Materiale di prim’ordine, dal quale, il musicista si augurava di riuscire a tirar fuori qualcosa di fortemente innovativo. Tra i tanti preferì il romanzo Senza dimani». 

– In realtà come andò a finire?

«Individuare un librettista di provata esperienza si rivelò più complicato del previsto. Illica e Giacosa, due degli autori più prolifici di fine Ottocento, primi novecento, molto legati a Puccini, declinarono l’invito. Rendano si affidò ad Antonino Anile e Giuseppe Pagliara, con i quali però – mentre il lavoro pareva stesse per andare in porto – emersero profonde divergenze. L’epilogo nell’aprile del 1904 sancì la fine del loro rapporto e quindi del progetto».  

– C’è qualche aneddoto curioso, un episodio, legato al nome di Rendano, che ci può raccontare?

«La storia di Rendano in realtà è ricca di situazioni a dir poco interessanti. Quelli legati a Rossini, per esempio. Il musicista pesarese accolse il giovane calabrese assai cordialmente, come soleva fare con tutti e specialmente con i giovani artisti, e lo invitò alle sue serate del sabato nella sua villa di Rue de la Chaussee d’Antin, nella quale risiedeva con la moglie Olympe Pelissier. Rendano aveva appena quattordici anni. Una sera, volendo fare una sorpresa all’illustre conterraneo, eseguì il “profond sommeil”, che aveva qualche volta inteso suonare dall’autore. Rossini lo lasciò finire, poi, tra il serio e il faceto, gli disse: “Pulcinella!. Chi ti ha autorizzato a farmi la concorrenza”. Tutti risero, eccetto il ragazzo, naturalmente, che, impacciato e quasi incredulo, sorrise solo in un secondo tempo.

– Ne ha un altro di aneddoti per noi?

«Un secondo episodio è quello relativo all’Esposizione universale di Parigi del 1867, un evento che attrasse nella capitale transalpina tantissimi artisti. La presentazione di una innovazione in campo tecnico-musicale, il cosiddetto melopiano, nato dalla fantasia dell’ingegnere torinese Luigi Caldera, aveva incuriosito musicisti del calibro di Liszt, Sgambati, Thalberg. Rossini affascinato dalla facilità d’uso del nuovo congegno, volle conoscerne l’inventore per testimoniargli la sua ammirazione. Ma la sorpresa era dietro l’angolo, raccontò lo studioso Francesco Dall’Ongaro, nei suoi Scritti d’arte. Rendano, che Rossini chiamava il suo giovane collega, appena ebbe osservato il modo col quale l’organista torinese cavaliere Marini, abituato al nuovo strumento, traeva e variava le sue note, domandò di poterci provare e vi eseguì su due piedi una sonata di Beethoven con gran meraviglia di quanti erano lì ad ascoltarlo».  

– Portare a termine un lavoro di tale portata immagino significhi dover ringraziare tante persone.

«Nei prossimi giorni avrò il piacere di esprimere la mia gratitudine a quanti con cortesia e passione, studiosi, bibliotecari e ricercatori di mezza Europa, hanno reso possibile ciò che all’inizio era una speranza, forse soltanto un sogno. Il libro vede la luce anche per merito di questi personaggi sconosciuti ai più, ma il cui apporto è stato determinante. Penso in particolare gli addetti agli archivi storici dei Conservatori di S. Pietro a Majella di Napoli, “Gioacchino Rossini” di Pesaro, Benedetto Marcello di Venezia. Così come, esprimo profonda gratitudine ai responsabili dell’Archivio Storico Ricordi di Milano, dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, dell’Archivio Storico della Psicologia Italiana, della Civica Biblioteca delle Raccolte Storiche di Milano e della Fondazione Istituto Liszt, di Bologna». 

– Immagino che fondamentale sia stato anche il rapporto con grandi biblioteche?

«Naturalmente ho lavorato su documenti ritrovati negli archivi storici delle più prestigiose biblioteche europee, Vienna, Budapest, Stoccarda, Dresda, Brema, solo per citarne alcune, nei registri dei teatri di Stoccarda, Mannheim, Brema, Norimberga, in centri musicali di rilievo quali l’Università di Musica e Teatro “Felix Mendelssohn Bartholdy” di Lipsia, il Conservatorio nazionale superiore di musica e di danza di Parigi». 

– Credo ci sia ancora di più?

«Si è vero. Ho avuto proficui contatti anche Wladimir Bulzan, manager della notissima fabbrica di pianoforti Bösendorfer, presso la quale nel maggio del 1878 Rendano acquistò il suo primo pianoforte di valore, forte dell’amicizia con il proprietario, Ludwig, approdato alla guida dell’azienda di famiglia dopo la morte del padre Ignaz. Un pianoforte che, vorrei che questo lei lo scrivesse, si trova oggi a Carolei, prestigioso cimelio del museo allestito dall’Associazione culturale che porta il nome del grande pianista cosentino». 

– E in Calabria, chi l’ha aiutata?

La Biblioteca civica di Cosenza è stato il naturale punto di riferimento da cui partire. Ho avuto modo di consultare i giornali calabresi e di acquisire materiale assai utile. E di questo ringrazio l’ex direttore Giacinto Pisani e l’infaticabile, e paziente, bibliotecario Luciano Romeo. Sono grato anche ad Antonio D’Elia, presidente dell’Accademia Cosentina e direttore della Biblioteca Civica di Cosenza, che mi ha permesso recentemente di consultare quell’Archivio Rendano che per merito di Ginetta Ruffolo Scarpa, discendente dei Rendano, è stato donato alla città di Cosenza. Ma mi piace citare, inoltre, gli addetti al servizio dell’Archivio di stato di Cosenza e quelli dell’Archivio storico diocesano “Prof. Luigi Intrieri” di Cosenza. Così come un ringraziamento particolare va a Marco Ruffolo, scrittore e giornalista, nipote di Alfonso Rendano, che mi ha seguito con passione nella mia lunga ricerca, mettendo a disposizione documenti di gran pregio tratti dall’Archivio privato della famiglia. 

– Possiamo scrivere che l’Archivio Rendano rappresenta oggi senza dubbio uno dei tesori più importanti per la città.  

«Certamente sì. Anche se non è il solo. Il Fondo-Rendano è, comunque, un fondo assai importante. Si compone di una decina di faldoni in cui c’è di tutto. Lettere, documenti, fotografie, diari, locandine, spartiti e molto altro. Documentazione preziosa. Peccato che per alcuni anni la Biblioteca Civica abbia vissuto una situazione di grande abbandono da parte delle Istituzioni locali, e che ne ha determinato il progressivo logoramento e, poi purtroppo la chiusura. La chiusura della Biblioteca e la conseguente impossibilità di consultare documenti di rilevanza storica penalizzano gli studiosi e un’intera città. Un motivo più che sufficiente, direi, per lanciare un fortissimo appello alle Istituzioni. Partendo proprio dall’indicazione che da più parti era già stata avanzata: quella cioè di destinare il materiale più prezioso della Biblioteca Civica alla Biblioteca Nazionale, affinché tutto possa essere finalmente fruibile da tutti. Non solo dagli studiosi, ma anche dalla gente comune che ha grande sete di informazioni».

– Il suo prossimo progetto Bruno?

«Per ora godiamoci Alfonso Rendano. Anche per me l’orizzonte che mi si palesa davanti non è più infinito. Vedremo». 

Seduto in quel caffè di Sergio Dragone

di PINO NANO – Non sono un esperto di critica musicale, né tantomeno di storia della musica, non suono e non ho mai suonato nessuno strumento musicale, non ho mai cantato in vita mia, ma in questi giorni ho goduto della lettura di un libro sulla storia della musica scritto da un cronista che in Calabria ha rappresentato molto per la storia del giornalismo, quindi per tutti noi, soprattutto del giornalismo politico.

Parlo di Sergio Dragone, per lunghi anni storico Capo Ufficio Stampa del comune di Catanzaro, giornalista di grande capacità e di grandi interessi culturali. Bene, il suo ultimo saggio vi assicuro è quanto di più amabile e delizioso Sergio Dragone ci potesse regalare con il Natale alle porte, e quindi l’idea giusta di un regalo da fare all’amica più cara o anche o all’amico più caro.

Il titolo è ”Seduto in quel caffè”, lo pubblica Media&Books con la direzione editoriale di Santo Strati, 448 pagine, una bellissima e inedita Antologia dei versi più belli della canzone italiana, un saggio di rara bellezza, ma soprattutto un testo di rara modernità, scritto in maniera quasi didascalica, veloce, accattivante, di grande effetto emozionale, e di grande suggestione, perché dentro ci sono le più belle canzoni della nostra vita, i testi, i commenti, gli aneddoti legati al loro successo, ma ci sono anche i profili e le storie private dei grandi maestri della musica italiana.

Sergio Dragone li chiama “poeti della musica italiana”, e in realtà questo libro non fa che esaltare la bellezza dei versi di questi testi, che cantati o ascoltati in televisione o alla radio rischiano magari di distrarti, ma che invece letti, così come sono stati magistralmente impaginati, sono vere e proprie opere d’arte poetica. “Fabrizio De Andrè e Giulio Rapetti, in arte Mogol, – sottolinea Sergio Dragone- stanno alla canzone d’autore italiana, se mi si passa il paragone forse irriverente, come Dante Alighieri e Giacomo Leopardi stanno alla letteratura del nostro Paese. Quando, tra cento anni, si scriverà la storia della poesia italiana tra Novecento ed inizio Nuovo Secolo, i loro nomi saranno scolpiti nell’ideale pantheon”.

Questo di Sergio è un libro che si legge in una notte, tutto d’un fiato, che ci riporta indietro nel tempo, che ci rammenta pezzi del nostro vissuto, che ci aiuta a ritrovare emozioni sopite o dimenticate negli anni, che scandisce le stagioni della nostra vita, quando un tempo almeno noi che non siamo più ragazzi ballavano il ballo della mattonella, ma era l’unico modo allora per poter stringere a sé la donna del cuore.

Per me erano gli anni di Rose Rosse per te, di Massimo Ranieri, un pugno nello stomaco, che d’improvviso risveglia ricordi e immagini del passato, perché dietro ogni canzone c’è una stagione precisa della nostra vita, c’è un momento del nostro stato d’animo che ricompare prepotente dal buio e dal silenzio di tanti anni ormai trascorsi troppo in fretta e sempre di corsa, c’è la luce che solo la musica riesce ancora a darti. “Ogni giorno racconto la favola mia, La racconto ogni giorno, chiunque tu sia.

E mi vesto di sogno per darti, se vuoi, l’illusione di un bimbo che gioca agli eroi”. A pagina 158 Sergio Dragone copia integralmente Renato Zero, per raccontare la grande favole della vita di tutti noi, perché dentro questo saggio ci sono, in versi, i sogni, le rivolte, le tenerezze, le delusioni, le sconfitte e i successi della vita di ognuno di noi, ma è questa la forza e la grandezza della musica.

Un libro questo diverso dal solito, credetemi, un saggio che è sociologia della musica, una ricerca quasi maniacale di quella che è la storia dei parolieri italiani, oltre 250 brani analizzati e raccontati come lo si può fare a un bambino, oltre 500 gli autori e gli artisti citati, raccontati con un linguaggio comprensibilissimo e avvolgente, un vera e propria prova d’autore di quanto la musica e la poesia siano spesso la stessa cosa, lievito madre l’una dell’altra, mosaico indistruttibile della vita del mondo, anzi di più, perché la musica a volte supera la poesia e coinvolge molto più di quanto non sappia e non possa fare la poesia.

È difficile spiegarlo, lo so bene, me ne rendo conto, ma a me questo libro ha fatto uno stranissimo effetto, perché mi ha riportato prima bambino, poi ragazzo adolescente, poi ancora agli anni del mio liceo, e ancora dopo tra le camerate della Scuola Area di Firenze alle Cascine dove ero finito a fare l’ufficiale dell’aeronautica militare, e infine per le strade della vita, quelle percorse in tanti anni di mestiere e di professione.

Dietro ogni nota, dietro ogni testo, dietro ogni canzone che Sergio Dragone ha minuziosamente archiviato e catalogato c’è un avvenimento preciso della mia vita. Ma sarà lo stesso per voi nel momento in cui avrete questo libro tra le mani. Sergio Dragone lo spiega molto meglio nella sua introduzione: “Come diceva Roberto Roversi, il poeta di Lucio Dalla: «Anche con una sola canzone, oggi si può infilare un coltello nella schiena del mondo. Dunque, non è vero che con la canzone non si può fare altro che cantare.

Con una canzone oggi si può intanto discutere, sbagliare, ridere, avvertire, comunicare, lottare. Una cosa invece non si può più fare: ingannare”. La cosa che più mi affascina di questo libro è la suddivisione dei temi trattati, la musica suddivisa per argomenti, per concetti, per “ispirazioni”. Proprio così, per ispirazioni. A come Amicizia, come amore, amore assoluto, amore perduto, A come angeli, come anima, B come bacio, come bellezza, C come Cielo, come calcio, come città, D come Dio, come disperazione, come domani, e via di questo passo, una cavalcata metaforica nei meandri del proprio io e dell’esistenza delle proprie vite.

Bellissima la prefazione che fa al libro Carmen Di Domenico Bardotti, Presidente del Premio “Sergio Bardotti” e autrice lei stessa: «Questo lavoro – scrive – rappresenta la rivincita dei poeti che hanno messo il loro genio al servizio del prodotto musicale. Oggi, e dico finalmente, il posto degli autori, certo non di tutti, è saldamente nel campo della letteratura».

Ma la cosa più vera Carmen Bardotti la scrive subito dopo: «La missione del poeta è tutta racchiusa in un verso di una delle più belle canzoni di Sergio Bardotti, Piazza Grande, scritta assieme ad altri grandi autori “E se la vita non ha sogni io li ho e te li do”. È assolutamente vero, “non era facile sedersi in quel caffè con i mostri sacri della canzone italiana e scavare nella loro opera e nella loro creatività”, ma Sergio Dragone lo ha saputo fare con la stessa padronanza di linguaggio, e la stessa dimestichezza con cui per lunghi anni ha raccontato a noi la politica della sua città del cuore, che era Catanzaro.

Francamente non mi sarei mai aspettato da un giornalista come lui, analista impeccabile del suo tempo, al tempo stesso socialista e visionario dell’era Craxiana, un romanzo dedicato alla musica, e scritto con tanto cuore e con tanta luce negli occhi, ma non mi meraviglio più di tanto perché anch’io ricordo che in RAI a Cosenza, dove ho vissuto i miei primi 30 anni di vita professionale, c’era per esempio Raffaele Malito, storico cronista sindacale e politico, che intimamente e molto segretamente seguiva e coltivava la grande passione per la musica jazz, e non fu un caso che alla fine fu proprio lui negli anni con le sue cronache puntuali e informatissime fece del Festival Jazz di Roccella Ionica un evento nazionale.

E dopo di lui, fece altrettanto bene, e forse ancora di più Alfonso Samengo, oggi autorevole e amatissimo Vice Direttore di Rai Parlamento, perché la verità è che alla fine “al cuore non si comanda” e la musica è più forte di tutto il resto.

SEDUTO IN QUEL CAFFÈ
di SERGIO DRAGONE
Media&Books – Isbn 9788889991855

Nel nome di Denis, di Francesco Ceniti

di PARIDE LEPORACE – Sono 33 anni che Denis Bergamini è morto. Senza quel maledetto 18 novembre oggi avrebbe sessant’anni il calciatore del Cosenza diventato protagonista di un “cold case” infinito.
Pochi i libri sul caso. Il più rumoroso quello del suo collega Carlo Petrini che nel 2001 con “Il calciatore suicidato” contribuì ad alimentare la morte senza verità del biondo centrocampista.
Da qualche settimane è nelle librerie Nel nome di Denis. La storia vera di Bergamini il calciatore ucciso due volte.

Francesco Ceniti è un bravo giornalista sportivo. Firma di punta della Gazzetta dello Sport, ha scritto diversi libri. Quello di maggior successo In nome di Marco dedicato a Pantani con la doppia firma della mamma Tonina. Altro dramma sportivo che su quei tornanti cerca di riscattare la figura del celebre ciclista.
Non è un libro inchiesta terzo quello di Ceniti. La sua ottima scrittura si è messa in azione per sostenere a priori la tesi dell’omicidio organizzato dalla sua ex fidanzata. Lo si verifica dall’incipit affidato a Gianluca Di Marzio, figlio di Gianni e allenatore di Bergamini, che nell’attacco della prefazione scrive: “Non ho mai pensato, neanche solo per un secondo che Denis si fosse tolto la vita. Mai”.
Ceniti con applicazione ha scritto un livre de chevet per quella moltitudine rumorosa che senza se e ma non ha alcun dubbio sulla tesi dell’omicidio e di un conseguente complotto.
Le fonti adoperate sono esclusivamente quelle della famiglia e dell’avvocato esperto di processo mediatico e penale. Su questo si stende un canovaccio avvincente, ben scritto, anche documentato nella sua visione di parte.
La tecnica di scrittura si rifà al celebre Amabili resti dell’americana Alice Sebold in cui una ragazzina uccisa per stupro rievoca in prima persona da morta il suo calvario. Anche qui Bergamini racconta “la verità” in mezzo alle ricostruzioni di Ceniti. Una scelta che andava maggiormente intensificata nelle pagine considerando il giudizio commosso che Gigi Simoni, il migliore amico e compagno di squadra di Denis, ha testimoniato in una trasmissione sportiva di Giuseppe Milicchio affermando “sembra proprio di sentirlo”.
L’autore scava episodi commoventi sconosciuti come quello di Denis che veglia un ragazzo in coma della curva del Cosenza, ricostruisce il calvario della famiglia con passione coinvolgente, in particolare nella descrizione della lotta senza fine di papà Domizio. Descrive con pathos i funerali, accende il suo occhio partecipe sulla grande manifestazione cosentina che nel 2009 chiede “verità e giustizia” per accertare il delitto. Tra metafore calcistiche sempre ben assestate e digressioni sportive, lo scrittore sviscera con ripartenze studiate tutti i tornanti di una kafkiana vicenda che ebbe il torto nelle prime 48 ore di trascurare i rilievi fondamentali per accertare le cause di una morte violenta.
C’è un sottotesto molto valido nel libro. Tema che l’autore dovrebbe prendere in considerazione per sue future pubblicazioni. Quello dei giornalisti. Hanno nomi modificati e non sono sempre riconoscibili. Ceniti si è formato con loro da giovane nel suo apprendistato al Quotidiano della Calabria. Le parole e le movenze di cronisti e del direttore raccontano molto bene i mutamenti della professione prendendo solo a pretesto il caso Bergamini. Quello su cui si sta vedendo celebrare un processo che è rimasto fuori dal libro nel suo svolgersi e soprattutto nel suo verdetto di primo grado.

Un racconto sentimentale a tesi chiusa quello di Ceniti. Non contempla l’impossibile suicidio o l’ipotetico incidente di Denis. Un nome da tragedia giovanile come quello di Eurialo e Niso, Narciso e Boccadoro, raccontato in ogni dettaglio compresi i garbugli dell’anagrafe, la carriera calcistica, gli incroci della malasorte, le donne di casa e quelle di fuori, Argenta e Cosenza. Per Ceniti, ucciso e strappato da un complotto ai parenti, ai tifosi, al mondo. Come i più sostengono per partito preso. Senza nemmeno un ragionevole dubbio. (pl)

 

FRANCESCO CENITI
NEL NOME DI DENIS. LA VERA STORIA DI BERGAMINI IL CALCIATORE UCCISO DUE VOLTE
Cairo Editore, ISBN 9788830902626

L’atomo inquieto, di Mimmo Gangemi

di FILIPPO VELTRI  – Mimmo Gangemi ci regala con ‘’L’atomo inquieto’’ (Solferino) uno straordinario romanzo che inquadra la vita, i tormenti e i percorsi inquieti di un personaggio di cui si parla da decenni. È il fisico Ettore Majorana, scomparso misteriosamente  e sulla cui sorte sono nate decine di leggende, vere o false che siano, che hanno alimentato tutto un filone anche letterario (pensiamo solo al romanzo di Leonardo Sciascia). Ma anche un filone di cronaca che e’ stato a lungo legato persino alla Calabria, con  la leggenda di una sua permanenza nella Certosa di Serra San Bruno.

Uno straccione misterioso che abita in una baracca. Un incidente. Una notte tra la vita e la morte in cui riemerge il mistero di un passato inimmaginabile. Perché quell’uomo si è trovato, per decenni, al centro della storia. È stato un professore di fisica noto e reputato a Roma, ma scomparso in un giorno di primavera del 1938, presunto suicida. È stato uno scienziato al servizio di Hitler, in corsa contro il tempo per costruire l’arma definitiva, la bomba capace di vincere la guerra.

È stato un paziente in un sanatorio altoatesino, precario rifugio per ex nazisti braccati. È stato un tecnico di laboratorio in Venezuela, dopo essere arrivato in Sud America in compagnia di Adolf Eichmann. E poi è tornato di nuovo in Italia, ha attraversato altri luoghi e altre identità, fino a non averne alcuna se non quella di un disperato che campa di poco e niente in terra ionica: come a voler espiare, facendosi fantasma in vita, i troppi errori di troppe reincarnazioni.

Questo è Ettore Majorana, perché di lui si tratta, e in quell’unica notte rende in prima persona la sua confessione: una vicenda di guerre e di intrighi, di amore e di pericolo, attraverso cui il filo rosso della scienza e del progresso corre tingendosi, a tratti, di sangue.

Mimmo Gangemi riporta in vita una delle figure più interessanti ed enigmatiche del Novecento distillando dagli scarsi indizi e dalle molte congetture sulla sua scomparsa con una sontuosa e avvincente narrazione, tipica del Gangemi che ci ha regalato ineguagliabili pagine di letteratura come la Signora di Ellis Island, L’acre odore di aglio, Il giudice meschino e Il popolo di mezzo.

Ancora una volta emerge nitida la sua capacità di descrizione dei luoghi, “quel mare con onde senza forza di assalire la riva’’ o  “quel fruscio che si avverte solo nelle pause dei rumori del mondo’’.

E ancora: un Gangemi che scava nelle fonti come un vero romanziere storico cui aggiunge, pero’, uno stacco di scrittura facile e coinvolgente.

Gangemi stavolta ci restituisce un Majorana insieme fedele alla realtà storica e pienamente contemporaneo, nella tensione estrema tra scienza e morale che percorre la sua vita e nel dilemma tra dovere e libertà che segna anche il nostro tempo.

MIMMO GANGEMI
L’ATOMO INQUIETO
Solferino, ISBN 9788828210818

L’ultima fermata – di Tommaso Labate

di GREGORIO CORIGLIANO – A giudicare da quanto è successo e continua a succedere nella elezione dei presidenti della Camera e del Senato, il mio amico Tommaso Labate (che non conosco di persona, ma solo di video o di commentatore politico ma che apprezzo molto)  può prepararsi a scrivere un altro libro. L’ultimo che ha scritto è già di suo, notevolmente di interesse, non solo per chi fa politica, ma per quanti ne seguono gli avvenimenti pressoché quotidiani, ci fa conoscere, eppure leggiamo quotidiani ogni giorno, fatti e accadimenti che abbiamo dimenticato, o che non avremmo mai immaginato.

L’ultima fermata, questo il titolo, edito da Solferino, tra le altre cose, ci fa capire, per esempio, cosa sia “la strategia del palombaro” che è stata o deve essere utilizzata, o si consiglia di utilizzare, in momenti decisamente importanti come, guarda caso, l’elezione di una carica dello Stato, per esempio, la più alta, il Presidente della Repubblica. E Labate parte con un esempio che molti non ricorderanno, se si fa eccezione per i seniores della politica, quelli della c.d Prima Repubblica. Era Presidente del Senato Cesare Merzagora, un uomo con tutte le caratteristiche ed i titoli per salire al Quirinale. Antifascista, senatore, già ministro e soprattutto da dieci anni occupava lo scranno più alto di Palazzo Madama. Ogni “comunicato” della Radio – allora si chiamavano così – non citava che lui, tutti i quotidiani lo citavano per i suoi impegni istituzionali, insomma era sulla cresta dell’onda. Ed aveva il sostegno della sinistra, della dc, dei partiti minori. Era conosciuto dal Palazzo e apprezzato dalla società. E si era convinto di riuscire nell’intento di avere tutti i titoli per essere eletto Presidente della Repubblica. Anzi si sentiva già al Quirinale.

Èstato un giovane Giulio Andreotti, scrive Labate, a dirgli che non gli conveniva esporsi. Che in questi desiderata, meno ci si espone meglio è. Merzagora non si disse convinto perché riteneva di avere tutti gli appoggi necessari. Ed Andreotti, di rimando, “se te lo dicono in molti, devi diffidare”. E così fini, il povero Merzagora, con le prive nel sacco. Fuori tempo massimo, il senatore aspirante, dovette dare ragione al giovane Giulio. Non era stata applicata, la strategia del palombaro, neanche da Amintore Fanfani, uno dei due cavalli di razza della DC. E neanche Arnaldo Forlani e Romano Prodi applicarono quella strategia. Moro è stato evocato da Sandro Pertini, quando al momento della elezione, nel discorso di insediamento, dopo l’uccisione del Presidente della DC, ebbe a dire: “Lui, non io, avrebbe meritato di fare il presidente.”

E Berlusconi? Il suo, afferma Labate, come si dovrebbe ricordare, fu un vero e proprio “tormentone”. Consapevole di aver fatto ben 3.369 giorni di governo, aveva avuto il sogno da sempre di salire il Colle più alto. Lo aveva promesso alla signora Rosa, sua madre. Bravo nel calcio, super nell’edilizia,  nell’editoria e in politica? Mi tocca, sembrava esclamare. La “botta in testa” la prese con la decadenza da senatore perché condannato (non sembra oggi? E poi con il sorpasso di Forza Italia ad opera della Lega, a Milan. Purnondimeno  il cavaliere si risente ringalluzzito dopo qualche tempo. La pandemia, il covid, la convalescenza non lo abbattono. Salvini lo rincuora da Giletti, perchè  uscito dal Conte primo, per volere di Renzi, vuole rientrare in gioco. E il capo (per quanto ancora?) della Lega, si dice d’accordo con Berlusconi al Colle. È abbastanza vicino per non essere ricordato il periodo del sogno di Berlusconi, come lo scazzo, adesso, con La Russa al momento della elezione di quest’ultimo alla presidenza del Senato.

Labate, che è un nostro corregionale di Marina di Gioiosa Jonica, ricostruisce la vicenda, assai complessa della rielezione di Sergio Mattarella, questa storia saremo in molti a non conoscerla. Anche se è recentissima, i particolari poco noti, sono nell’”ultima fermata”. E, come in tanti ricordiamo, Mattarella, dimostra di aver fatto, non seguito, il palombaro. È sparito, entro i limiti in cui poteva farlo da Presidente in carica, ma ha sempre negato la volontà di rimanere al Colle. Anche col trasloco dal Quirinale in un appartamento centrale, ma non centralissimo di Roma. E, nello stesso alloggio, Mattarella, rese felice, l’inquilina uscente, che mai si sarebbe aspettata di vedere il presidente della Repubblica a casa sua, per affittare o comprare l’alloggio. Fatto sta, lo evidenzia giustamente il collega del Corriere della Sera, che tra i politici italiani è tra i pochissimi a non avere una casa di proprietà a Roma. Tutto questo, con particolari di interesse culturale “stuzzichevole” che si dovrebbero sapere.

E il gioco di Renzi? Citato più volte, viene considerato come l’oracolo delle soluzioni impossibili. Aveva, proposto e fatto eleggere Mattarella, prima e poi il senatore che aveva avanzato la soluzione di Draghi, alla presidenza del Consiglio. Un uomo, insomma, capace. Sempre sulla breccia, aveva anche tentato la soluzione di Pierferdinando Casini, appreso il mestiere di palombaro, a Presidente della Repubblica. Elezione, si ricorderà, mancata per poco. Mentre dalla rielezione di Mattarella e, per diversi mesi, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, che ha contribuito a bloccare la elezione di Mario Draghi a presidente della Repubblica, non si sono più incontrati. Salvini ha perso su tutti i fronti. Sta tornando in auge il rapporto tra i tre, ma non si sa fino a quando. Fine corsa di Labate, che anche stasera vedremo dalla Palombelli o da Monica Maggioni. Pronto alla prossima fermata! (gco)

L’ULTIMA FERMATA
di Tommaso Labate
Edizioni Solferino – ISBN 9788828210764

Tre colpi al cuore – di Sandro Principe

di PINO NANO – Appena uscito, appena presentato dal giornalista Francesco Kostner in una assemblea di mille persone, è già un grande successo editoriale. Tre colpi al cuore –  Una vita difficile al servizio delle Istituzioni” è questo il titolo del libro scritto da Sandro Principe per la Pellegrini editore, ed in cui l’ex Sottosegretario di Stato, socialista della prima ora, ex parlamentare, ex sindaco di Rende, ex studente di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma ai tempi in cui suo padre Cecchino dominava la scena politica italiana, racconta se stesso come nessuno avrebbe mai potuto immaginare da un uomo riservato e schivo come lui, caratterialmente forte, apparentemente scontroso, coriaceo, intollerante e “superbo”, almeno negli atteggiamenti esteriori della sua lunga militanza politica.

Un diario di bordo, forse è meglio dire un diario personale, senza dubbio è il racconto viscerale meticoloso attento severo intimo della sua vita, con dettagli nomi e location che nessuno in realtà ha mai conosciuto per intero, neanche i suoi amici più cari e più antichi, una sorta di confessione plateale, pubblica, completamente libera e coraggiosa, un volersi mettere a nudo davanti alla società che lo segue, nel bene e nel male, da sempre.

Un libro che ci offre di Sandro Principe un profilo inedito, per altro molto affascinante della sua infanzia e della sua giovinezza, diviso tra la vecchia casa di Rende e il primo anno in collegio a Roma, combattuto tra il desiderio di studiare lettere classiche e i consigli del padre “statista” che alla fine lo convince a fare giurisprudenza per non rischiare di dover fare il professore per tutta la vita, un padre dalla personalità dirompente, eternamente scomodo per lui, e con cui Sandro convive, combatte, riflette e dissente, due strade le loro diverse e lontane, che alla fine però si ritrovano e si riincontrano nel grande e unico crocevia rendese.

Una saga, come tale piena di amori e di emozioni, di conflitti e di contraddizioni, ma anche di incomprensione ataviche, ma questa è la vita di ogni famiglia piccola o grande che sia, borghese come la sua o meno borghese come tante altre. Un Sandro Principe che si rivela in questa occasione uno straordinario narratore di se stesso.

Quasi un romanzo della sua esistenza, come se all’età di 70 anni il vero protagonista della nostra storia volesse lasciare alle nuove generazioni il segno del suo lungo percorso affrontato tra gli scranni del Parlamento e la vecchia Rende, meravigliosa roccaforte di tempi passati.

I suoi amici, le sue scampagnate, le sue serate mondane, i suoi impegni istituzionali, il rapporto privilegiato con il mondo della Chiesa, due vescovi importanti che hanno attraversato e segnato la sua vita in positivo, mons. Dino Trabalzini, poi ancora mons.Salvatore Nunnari, vescovi e sacerdoti alla vecchia maniera, che non lo hanno mai lasciato solo con se stesso, neanche nei momenti di maggiore solitudine per lui.

Nel “cuore” del suo libro l’autore racconta con una lucidità che è parte integrante del suo carattere il giorno dell’attentato, un colpo di pistola secco al centro del viso, la disperazione del suo popolo, i lunghi mesi di degenza in ospedale, al Careggi di Firenze, e infine la carezza finale di Natuzza Evolo che rispetto ai medici che lo avevano dato per “spacciato” conforta la moglie rassisurandola che “Sandro si sarebbe ripreso”.

Un racconto emozionante, commovente, a tratti assolutamente coinvolgente.

Prefazione illustre per questo libro, la firma è di Claudio Signorile, uno dei “principi” del socialismo italiano di questi ultimi 60 anni di storia politica italiana, e che dopo aver tessuto le lodi di “Sandro suo vecchio amico di sempre”, usa per il libro parole ben definite: “Un libro molto importante- scrive il vecchio ministro socialista-  perché credo si inserisca a pieno titolo in quella preziosa pubblicistica che aiuta a non dimenticare fatti e persone; quanti, come senza dubbio è possibile affermare dell’autore, hanno contribuito a scrivere la storia migliore del nostro Paese”

Claudio Signorile non ha nessun dubbio in merito, e lo scrive anche con assoluta chiarezza: “I giovani devono essere aiutati a comprendere come la politica non sia un oggetto misterioso e, come strumentalmente è stato fatto credere negli ultimi decenni, uno strumento finalizzato unicamente a compiere scelte di potere o a perseguire interessi poco leciti. Al contrario, essa è l’arte nobile, ma difficile, del pensare e dell’agire in funzione degli interessi collettivi”.

Il libro si apre con un capitolo “amaro”, dal titolo “La Tragedia”, non è altro che il racconto angosciante drammatico disperato e terribile del giorno in cui alla porta di casa Principe bussano i carabinieri.

“Alle 6,15 del mattino di mercoledì 23 marzo 2016 vengo svegliato dal suono del citofono. Balzo dal letto mentre mia moglie, che ha già risposto, mi dice: “Sono i Carabinieri! Che è successo?” Ed io di rimando: “Può succedere di tutto in questo Paese”. I militari mi notificano un’ordinanza del GIP, presso il Tribunale di Catanzaro, che dispone, “bontà sua”, gli arresti domiciliari, dopo che il PM aveva chiesto la custodia in carcere. Vengo accompagnato presso il Comando Provinciale di Cosenza per il rito umiliante della fotografia e della registrazione delle impronte digitali, che oggi avviene strumentalmente”.

Vittima o carnefice?

La risposta che il romanzo ci riserva riapre il grande dibattito insoluto sui pentiti di mafia: “Ma più di ogni altra cosa valgono le chiacchiere dei pentiti (“in questo Paese che di pentiti e ripentiti ha avuto sempre abbondanza”), tutti dichiaranti de relato, a sostegno del teorema che poggia sul nulla: il niente che è niente!”

E adesso – si chiede Sandro Principe in questo suo romanzo autobiografico- chi mi restituirà l’onore?

“Chi risarcirà la mia famiglia, mia moglie, le mie figlie dagli incalcolabili danni morali ed anche materiali, quando, ne sono certo, sarà riconosciuta la mia innocenza?”

E qui, il vecchio parlamentare socialista chiede aiuto a Voltaire riportando quello che Voltaire scriveva nel suo Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas: “…Ma se un padre di famiglia innocente è caduto nelle mani dell’errore, o della passione, o del fanatismo; se l’accusato non ha altra difesa che la propria virtù, se gli arbitri della sua vita non corrono altro rischio, facendolo sgozzare, che quello di sbagliarsi; se possono impunemente uccidere con una sentenza…”.

È spietata l’analisi che Sandro Principe fa della giustizia. Scrive testualmente: “Tutto può succedere quando in una democrazia esistono poteri irresponsabili, che la rendono di fatto autoritaria”. Poi si chiede: “E se non vedessi il giorno in cui verrà proclamata la mia innocenza?”.

Ancora più impietosa è la risposta che si dà: “Tutti ricorderebbero Sandro Principe presunto mafioso, poiché Sandro Principe costruttore di città, uomo buono, colto e sensibile sarebbe vaporizzato nell’oblio. A ingiustizia seguirebbe ingiustizia. E sarebbe molto di più di ciò che già sono costretto a subire. L’onta di una mortificazione senza pari: la damnatio memoriae”.

Ecco il vero perché di questo saggio.

Sandro Principe vuole affidare alle generazioni future la storia vera del suo impegno politico, e rinvia il racconto della sua vicenda giudiziaria ad un saggio successivo: “Non parlerò  della vicenda giudiziaria che ingiustamente mi affligge. Se ne avrò forza ad essa dedicherò un altro libro. Forse l’ultimo della mia vita, che lascerò ai posteri, affinché comprendano e riflettano sui tanti modi attraverso cui può essere ingiustamente inferta una sofferenza. Un dolore. Una mortificazione. E perché, fino a quando ciò accadrà, nessuno potrà ritenere di vivere in una società degna di questo nome. In una democrazia vera. In un mondo in cui giustizia e libertà sono pilastri fondanti del vivere civile”.

Un libro dai toni forti, 267 pagine ricche di informazioni, un indice meticoloso dei personaggi incontrati e qui raccontati, dentro c’è tutta la prima e la seconda Repubblica, copia di vecchie delibere, di atti municipali, di appunti privati, e tra le tante foto storiche, bellissime quelle insieme a Sandro Pertini, una in particolare commuove più di tutto il resto, è lui insieme alle sue figlie Carolina e Rosamaria e a cui, insieme alla moglie Wally e ai nipotini Federico e Ginevra, Sandro Principe dedica questa suo testamento. Da leggere tutto, e si legge in un fiato, dalla prima all’ultima pagina.

 

TRE COLPI AL CUORE
di SANDRO PRINCIPE
Luigi Pellegrini Editore, ISBN 9791220501354

Event Marketing di Sonia Ferrari

di FRANCESCO BARTUCCI – Spettacoli, manifestazioni ed altri eventi hanno oggi un ruolo molto più rilevante che in passato: oltre a momenti di divertimento e socializzazione, infatti, essi sono mezzi per comunicare ed elementi delle strategie di marketing sempre più utilizzati da enti, aziende, territori, destinazioni turistiche.

Sono questi i temi affrontati dal volume di Sonia Ferrari ‘Event marketing. I grandi eventi e gli eventi speciali come strumenti di marketing’ oggi alla quarta edizione, che è stata appena pubblicata dall’editore Wolters Kluwer. Il libro, che rappresenta da anni un importante punto di riferimento per gli studiosi di eventi in Italia, approfondisce i temi dell’impatto di festival ed altre manifestazioni sul territorio e del loro ruolo come strumenti di comunicazione per soggetti di varia natura.

Nell’odierna economia dell’esperienza, in cui i consumatori ricercano esperienze uniche ed indimenticabili e le imprese desiderano creare con essi rapporti forti e duraturi, mentre le destinazioni turistiche e i territori competono in modo sempre più acceso, gli eventi rappresentano, infatti, leve di marketing dall’importanza crescente. Sono strumenti che possono rafforzare immagine, brand e posizionamento, differenziare l’offerta, far sì che uno sport o una forma d’arte diventino veicoli per coinvolgere consumatori, residenti, finanziatori, investitori.

Questa quarta edizione del volume affronta temi nuovi, anche alla luce dell’evoluzione dei consumi nel post-Covid, e presenta numerosi casi ed esempi stimolanti. Il lettore sarà accompagnato alla scoperta del settore degli eventi attraverso gli occhi dello studioso interessato a conoscere effetti, impatto, implicazioni di marketing ed eredità di eventi speciali e grandi eventi, ma anche di manifestazioni meno rilevanti, in termini socio-culturali, ambientali ed economici. L’autrice, Sonia Ferrari, insegna Marketing Territoriale e Marketing del Turismo all’Università della Calabria. Presso lo stesso ateneo ha presieduto il corso di laurea in Scienze Turistiche e la laurea magistrale in Valorizzazione dei Sistemi Turistico-Culturali. I suoi principali interessi di studi e ricerca riguardano, oltre all’event marketing, tematiche relative al marketing del turismo, il turismo esperienziale, il turismo delle radici.

Un capitolo del volume, scritto dal sociologo Chito Guala, studioso di queste tematiche da anni e conosciuto a livelli internazionale, è dedicato alle Olimpiadi ed altri grandi eventi come momenti di avvio di processi di rigenerazione urbana. Con Guala la Ferrari ha realizzato numerose pubblicazioni internazionali.   (fba)           

SONIA FERRARI
EVENT MARKETING
edizioni Wolters Kluver, ISBN 9788813379841
370 pagg. 33,00 euro