di GREGORIO CORIGLIANO – Don Peppino celebrava tre Messe al giorno, si occupava dell’Azione cattolica, voleva partecipare, come ascoltatore, alle riunioni del direttivo della Dc che allora, quanta serietà, erano settimanali, benediceva la case a Pasqua, suonava le campane, curava le anime. E non era parroco. Mi ricordo di lui, assai spesso.
Era il mio assistente spirituale nel periodo in cui, negli anni sessanta- settanta, aveva un senso autentico essere della Giac, la gioventù italiana di Azione cattolica. Ed i ricordi mi tornano alla memoria, proprio perché i parroci – o i preti di campagna – sono tornati di viva attualità, per l’abolizione della congrua.
Siamo nel 1985. Ho letto le considerazioni di don Luigi Crivelli, allora responsabile della parrocchia di San Sempliciano a Milano, di don Angelo Gorini di Firenze e di don Giuseppe Parapini, di Varese, alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo Concordato. Sono state proprio queste lettere al Corriere della Sera a farmi scoppiare i ricordi e, attraverso un viaggio nella memoria, mi sono ritrovato negli anni del pieno fulgore dell’Azione cattolica, agli anni del «ciascun di noi confida un esercito all’altare, Bianco padre che da Roma ci sei forza luce e guida…». (dico, per inciso, che ancora porto il distintivo dell’Azione Cattolica sul revert della giacca: siete rimasti in due, mi dice ogni tanto mons. Salvatore Nunnari, l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, scomparso anni fa, e tu. Adesso, solo io!).
Altri tempi, certo. Tempi, allora più di ora, caratterizzati dal ruolo determinante di un sacerdote, anzi di quel sacerdote che allora aveva mille incombenze, non si stancava mi con o senza congrua. Don Peppino Stagno che, da alcuni anni, è parroco in una altro Comune, è stato per una decina d’anni “economo”, come si diceva allora e che voleva dire, nei fatti, il coadiutore principale del parroco. A quei tempi, il parroco, don Girolamo, era anziano e malato. E a don Peppino toccava far di tutto, compresa l’assistenza morale e materiale del parroco di San Ferdinando. A lui era affidata l’intera comunità, senza congrua, ma con uno stipendio che gli dava il parroco, poche lire. Anche perché Don Girolamo aveva una nutrita nipotanza a cui pensare.
E il mio don Peppino che, sacerdote di “campagna”, come tanti altri, aveva la cura delle anime. Eccome. Era confessore, consigliere, amico, professore, autorità. Era come il sindaco, il medico, il farmacista: punto di riferimento. Don Peppino si alzava all’alba. Cominciava a celebrare la prima Messa alle sei e mezza e stava poi in sacrestia fino alle dieci. Con la sua tonaca svolazzante, altro che “clergyman”, andava in giro, a piedi naturalmente, per le visite agli ammalati, per benedire le case, per trovare chi aveva bisogno di una buona parola. Poi tornava in Chiesa, suonava l’organo, curava l’archivio, le pubblicazioni di matrimonio, poi andava a casa. Non aveva la perpetua, ma i genitori, le sorelle – una in particolare – che lo avevano seguito nella missione sacerdotale.
Per lui, il pisolino pomeridiano non esisteva, né d’inverno, né d’estate. Al pomeriggio lo attendevano gli aspiranti, gli juniores e le fiamme di azione cattolica coi quali divideva molte ore, tra giochi e catechesi. Poi le confessioni, quindi il vespro. Don Peppino suonava perfino le campane, sia per le Messe che per i funerali. Un mese all’anno gli dava una mano don Agostino Celi, parroco della Cattedrale di Mileto, che, originario di San Ferdinando, arrivava per stare con la madre. Alla novena dell’Immacolata, in dicembre, si alzava alle cinque del mattino per la Messa coi fratelli della Congrega dell’Immacolata. Era tradizione che la funzione iniziasse prima del sorgere del sole: al freddo ed al gelo.
Il suo gran da fare veniva dai giovani. Era riuscito, infatti, a creare un gruppo attivo, efficiente, preparato, consapevole del ruolo da svolgere. In ciò egregiamente seguito dal suo successore, don Pietro Gallo, essendo Don Peppino, divenuto giustamente parroco a Cessaniti. Tutto questo ieri, uno ieri non molto lontano nel tempo. Oggi è diverso, non è più così. Oggi il parroco non si prende il tempo per fare quello che facevano i sacerdoti degli anni di prima.
Oggi, battesimi, matrimoni, estreme unzioni occasioni per le quali occorre la presenza del sacerdote. Per il resto del tempo, il parroco viveva di solitudine. E, per di più, senza congrua: erano come alberi sempre verdi, che devono dare “i frutti”, sempre e dovunque, ma senza che nessuno dia più loro “il concime”, fatto anche di una parola buona, contatti, rapporti umani. Grazie Don Peppino! E grazie anche a Don Pietro. (gc)