di FRANCO CIMINO – «Fin da piccolo amo la politica, il mondo agricolo ed il mondo delle Bonifiche. Sono appassionato di musica di ogni genere, da quella classica, melodica al rock. Il mare ed il sole fanno parte del mio Dna. Conosco migliaia di persone ed ho la fortuna di avere tantissimi veri amici. Mi piace il lavoro che faccio perché mi permette di avere contatti ogni giorno con gente di ogni ordine e grado».
Lui si presentava così. Voleva che la sua persona fosse conosciuta meglio di quanto apparisse. Forse per questo, da qualche parte, ha scritto questo pensiero. Pochi saprebbero dire di sé stessi con tale verità e fondatezza. Quest’uomo alto e magro, sempre elegante e gentile, volto fanciullo ed eternamente fanciullo nell’animo, parola sciolta e forbita, sorriso sempre pronto come la disponibilità totale verso gli altri che si portassero a lui per un problema, un bisogno, una richiesta, un semplice consiglio, sentiva forte il bisogno di essere conosciuto per quello che veramente era. Di essere amato per il cuore che aveva. Di essere accolto per il desiderio che sentiva di non restare solo. Anche se la solitudine lui cercava non poche volte quale rifugio della sua “ solitudine” profonda. E quale spazio segreto di nascondimento del suo dolore più forte. Il dolore di “sentire” intensamente questo mondo. Di sentirlo così diverso da come quel fanciullo l’ha sempre desiderato. Il mondo grande, globale. E il mondo piccolo. Quello che lui ha fortemente scelto come perimetro della sua esistenza. Perimetro, nel quale ci aveva messo tutto ciò che pensava gli potesse bastare per non essere infelice. Ché la felicità, pur cercata sempre, non è mai a portata di mano di chi sente la vita e vorrebbe “felicitarla” del proprio amore e dalla propria visione dell’Universo.
L’Universo sì, ché questo eterno ragazzo, camminava questa terra con gli occhi sempre verso l’alto. Dove sicuramente ci sarebbe stata la completezza del vivere, come il cielo che ci copre é la completezza della Terra. Questa terra, il luogo affidatoci temporaneamente per quel breve passaggio che ci faccia amare chi siamo. Donare agli altri ciò che abbiamo. E comprendere pienamente che noi siamo fatti d’Amore e i nostri sguardi, dell’Universo, quale promessa di eternità. Lui sognava. Anche ad occhi aperti. Il sogno gli era amico, tranne quelli non belli, che lo disturbavano nelle notti che in alcun modo gli riusciva di quietare. Ma sognava. Lui sognava. Per liberarsi dall’angoscia esistenziale. E dal tormento del fare e fare e fare. Per gli altri. Insaziabilmente. Il sogno era anche il dono, al cuore e alla mente, che, tenuti insieme, produceva il desiderabile. Il desiderabile nel dover fare. Ché questa era per lui la Politica. Pensare forte e sognare piano. Per costruire ciò che si è “materializzato” nel sogno. La Politica, infatti, anche per lui era andare oltre i confini stabiliti.
Oltre le difficoltà dell’oggi e i limiti delle risorse. Ritorno un solo istante al suo mondo piccolo, tanto piccolo che ci vorrebbe l’ingrandimento delle mappe Google per vederlo. È il suo paese, bello sì, al quale dal mare leggermente si sale, perché si respirasse l’aria fresca dell’estate e dalle sue terrazze si vedesse il mare. Quella distesa infinita d’acqua che lui amava e difronte alla quale vi sarebbe rimasto tutto il tempo che gli occorresse per guardarla. Di giorno, col sole che la colora d’oro e dorata fa la sua pelle. E di sera, con la luna che la colora d’argento e d’argento fa risplendere la sua folta chioma. In quel paesino, ha lasciato che le sue radici fossero sempre attive di tante vite dentro la sua. Vi abitava, pur potendosi consentire una casa in qualsiasi altra città. Nel capoluogo, soprattutto, dove ogni giorno si recava per restarci molte ore. E in quel palazzo bello, da lui voluto e ristrutturato, della tutela dei terreni per l’agricoltura e del lavoro degli agricoltori, alla cui crescita e modernizzazione aveva dedicato non solo la fatica ma la sua intelligenza. E quella straordinaria competenza che aveva acquisito studiando sul campo i problemi e le potenzialità della terra.
In quel paesino della “Vallefiorita”, la cui storia recente ha tradito il nome, vi erano i suoi legami più indissolubili. Quelli per il luogo stesso, le sue vie, la sua piazza, la Chiesa e la parrocchia che frequentava da sempre. Vi era la sua casa, quella antica e padronale, che solo fisicamente consumava la nobiltà familiare, di cui andava fiero. Nobiltà che gli era tra l’altro propria e che gli si vedeva anche nello stile e nel portamento. Di più, in quel suo modo davvero “nobile”, nel più bel significato del termine, con cui si relazionava al mondo. Vi erano i genitori, tanto amati. La madre, donna umile e schiva, riservata e timida. E quel padre imponente, dinamico e autorevole, conosciuto e stimato in ogni ambiente e per il quale, il nostro sempiterno giovane, aveva conosciuto quel famoso onorevole, che lui chiamava affettuosamente “donnernesto”. L’uomo e il politico al quale si era da subito legato, ricambiato, da amore filiale autentico. In quel “perimetro” vi erano le orme dei primi passi, proprio assai giovanili, verso quella passione che non lo abbandonò mai, la politica. E per quel partito, la Democrazia Cristiana, che ne costituì l’anima guida, attraverso quello scrigno di ideali, che mai tradì, pur quando, fatta finire la Dc, egli si dedicò a un’altra formazione politica, più per l’immensa stima e affetto che aveva per la donna che lo guida ancora che non per la continuità di una posizione politica, fortemente al centro, la sua, sempre coerentemente sostenuta. In quel paese piccolo, vi erano gli amici, i pochi veri e i molti altri dell’amicizia cosiddetta leggera o dal prestigio personale indossato.
Vi era tutto quel suo grande cuore, che ha saputo donare la sua vita donando. Un cuore, il suo, che ha talmente battuto forte, di amore profondo, di delusioni pesanti, di sogni infranti, e anche di paure nascoste, fino a indebolirsi irrimediabilmente. E, poi, a fermarsi in quel giorno di tre anni e mezzo fa. Quel dieci maggio del 2020, anno della pandemia. Quel dieci maggio, che non si sa se fosse notte del giorno vecchio o l’alba del giorno nuovo, in cui il cielo di Calabria si squarciò della notizia che nessuno si attendeva. È stata breve la sua vita. Breve e dolente. Ma è stata vissuta con la preghiera costante e quel principio in testa tratto da una massima che campeggiava nella sua agenda esistenziale: «La vita é un bene perduto se non l’hai vissuta come avresti voluto». La sua vita è stato un bene che lui ha vissuto, ma che noi abbiamo perduto. Oggi Grazioso Manno il giovane bello e l’uomo buono, avrebbe compiuto settant’anni. Auguri amico mio. E grazie del bene che hai fatto al mondo. Il tuo. Il nostro. (fc)