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L'OPINIONE / Franco Cimino: «Che bello, sono alla festa di Mario Casalinuovo!»

IL RICORDO / Franco Cimino: Peppino Chiaravalloti, il presidente

di FRANCO CIMINO – Non ci siamo mai frequentati, noi due. Troppo distanti gli ambiti usuali di frequentazione amicale o formale. Ma eravamo amici. Amici veri. Di quelli buoni. Quali sono chi è legato da affetto e stima.

Peppino Chiaravalloti, il presidente, come l’ho sempre chiamato, l’affetto lo dava a tutti. Era un uomo buono e generoso e non sapeva non voler bene a quanti si sono avvicinati a lui nel lungo tempo della sua intensa vita. Ma la stima era una concessione non facile. Occorreva avere molte qualità, diciamo, ed averle praticate nella ordinaria quotidianità, quella nella quale si è, non ci si inventa. Con me era generoso, mi qualificava ben oltre le mie qualità. E, però, me le faceva, con il suo modo di porsi sincero, sentire tutte, come se tutte le avessi. Questa sua stima, mi procurava piacere e gratificazione.

Mi dava una sorta di maggiore sicurezza nei momenti delicati. I momenti che attraversiamo tutti “gli umani”, rispetto ai Tarzan che vedo in giro spocchiosi e forzuti. La sua stima mi incoraggiava anche. Quasi come se dovessi risponderne con un impegno sempre alto. L’onestà e la sincerità, la lealtà, la passione e la dedizione totale ai compiti cui si era chiamati e in quei luoghi dove si fosse voluti andare. O restare, nonostante delusioni e amarezze. Quelli privati e quelli pubblici. Io per lui? Volergli bene anche per me era facile. Non solo per contraccambio del suo o gratitudine per la stima rivoltami. Gli volevo bene per quella umanità che portava addosso come quel bel cappotto blu scuro, taglio classico, a loden, da cui non si separava se non in estate. Gli volevo bene per la semplicità del suo porsi agli altri. Tutti, che fossero colti, potenti, o incolti e semplici.

Tutti, che fossero ricchi o poveri. Importanti o esclusi. Famosi o sconosciuti. Tutti proprio tutti. Gli volevo bene per la sua umiltà. Sempre in ascesa, sempre da postazioni più alte, lui, mai arrogante e presuntuoso. Coltissimo e intelligente, non esibiva nulla di questi come una tessera di superiorità. Anzi, scendeva al livello del suo interlocutore e si poneva esattamente alla pari. Era di Satriano e lo dichiarava in ogni situazione particolare. Forse, per ricordare a sé stesso l’origine in cui semplicità e umiltà di essere rappresentavano i caratteri distintivi del proprio stare nel mondo. Di certo, di Satriano voleva sentirsi sempre. E per quell’Amore profondo che lo legava alla terra dei genitori. E a quella sua infanzia, che, nella spensieratezza e nello spirito fanciullo, lo accompagnava sempre. Satriano, per insegnare a tutti a non rinnegare le origini, a non dimenticare il proprio paese. Perché è con questi sentimenti, che si può essere cittadini del mondo, degni abitanti un’altra Città da servire. E amare con la forza aggiuntiva per quella non potuta offrire al proprio luogo natio. Gli volevo bene perché Satriano, con i personaggi evocati(se e quanto inventati non era possibile saperlo e non si domandava preferendoli nella loro veracità immaginata) era in lui, artista e attore nato, il piccolo palcoscenico dove quei personaggi comparivano per una di quelle rappresentazioni “ comiche” dei difetti comuni. I difetti di tutti, caratterizzati alla Totò e alla Alberto Sordi o Gigi Proietti.

Non propriamente alla Paolo Villaggio, il suo amico dell’Università, sempre conservato. Gli volevo bene, perché sapeva sdrammatizzare ogni cosa che drammatica era o tale la si voleva portare. Questo atteggiamento era un modo di aiutare a guardare le cose con il distacco giusto. Per poterle affrontare con l’energia necessaria sia per le conseguenze negative sia per quelle positive. Evitando di frustrarsi pesantemente, nel primo caso, esaltarsi esageratamente, nel secondo. Il suo motto: “vita e vittoria”, di cui a molti sfuggiva il vero significato, racchiudeva questo valore. Come a dire: “la vita è sempre bella, vivila, non pensare a cosa te ne viene. La vittoria è la vita!”.

Quanta saggezza, vi era in quest’uomo, così piccolo di statura da farsi gigante. Un gigante bello e buono. Gli ho voluto bene, perché dall’alto non guardava in basso, se non per aiutarti a salire con lui. O a carezzarti, se non ce la facevi. Gli volevo bene perché sdrammatizzava anche il potere. Anzi, quasi lo canzonava. Lo irrideva. Il potere inteso come simulacro, come estensione delle proprie forze, come affermazione di superiorità verso gli altri o addirittura sulle istituzioni. A questo irrideva. Specialmente, a quello dei politici, non della Politica, attività che lui onorava. Tanto che quando era stato chiamata a farla direttamente dalla stanza dei bottoni, ne fu lusingato emozionandosi come un bambino. Fu, invece, rispettoso del potere della responsabilità.

La responsabilità al potere, uno degli elementi fondanti la Democrazia, sistema di valori, cui egli era molto devoto. Era un democratico convinto, il presidente. Una Democrazia aperta sì, ma rigorosa. Con regole chiare da rispettare. E come coscienza individuale. E come ordine legale e sociale. Una Democrazia senza regole condivise, senza principi interiorizzati, senza strumenti efficaci per ottenerne il rispetto anche di chi non la “sentisse”, sarebbe di poco valore. Una non democrazia. Le istituzioni e la Democrazia. Ho voluto bene al Presidente, perché ha insegnato anche a me, appassionato di politica da sempre e militante nella stessa con fatiche e rinunce enormi, che fare Politica non significa fare di sé stessi la Politica e delle istituzioni uno strumento personale al servizio delle proprie ambizioni e non delle aspirazioni della gente. La Politica è servizio oblativo, questo ha insegnato il Presidente. La Politica non è un mestiere e le cariche rivestite non sono un bene di famiglia ereditato. Si entra in esse con fatica, ma con leggerezza occorre uscirne. E tornare serenamente al lavoro del guadagno della pagnotta.

Questo ha fatto lui e io lo rammento a quanti fanno politica solo per il proprio tornaconto. A coloro, soprattutto, che utilizzerebbero il corpo della propria mamma, se servisse a barricarsi all’interno di un qualsiasi buco di potere. Voglio bene al presidente, per il suo senso di lealtà. Oltre quella verso le istituzioni, praticava quella dell’Amicizia. L’Amicizia, prima ancora degli stessi amici, i suoi tanti che gli devono molto, era sacra. Onorarla era come onorare il padre e la madre. O come una preghiera laica a Dio. Infine, ma solo per chiudere questa mio omaggio che altrimenti si allungherebbe tantissimo ancora, gli voglio bene per il suo sconfinato amore verso la Calabria, conosceva profondamente. Dal territorio fragile alla cultura forte, dal mari belli ai monti leggeri, dai poeti intensi ai diversi cantori dolci e inquieti, dalle parlate alle tradizioni, dalla storia alle storie, dalla bontà alla criminalità, tutta la conosceva. Amava, in particolare, la sua Catanzaro. Conoscitore colto della lingua italiana, parlava spesso in dialetto. Una forma, questa, per caratterizzare la sua “calabresecatanzaresità”.

E anche qui per esortarci a essere orgogliosi delle nostre radici. Di non confondere o disperdere il nostro senso di appartenenza con il dovere di essere dentro un nuovo soggetto collettivo. Che si dica nazionale, europeo, umanitario, restare radice ci fa essere più alberi. Tenere i piedi dove abbiamo iniziato a camminare ci rende più facile volare. Non ci siamo mai dati del tu, noi due. Questa sera di cielo estivo d’inverno, gli dico, oltre tutto l’oceano di parole e riconoscimenti che gli sono stati rivolti, specialmente per i suoi alti meriti di magistrato, dopo la triste notizia: “Peppino caro, sei stato un uomo buono, hai fatto, tra fatiche e dolori, gioie e delusioni, genialità certe ed errori probabili, una bella passeggiata su questa terra. Ora prendi le tue radici, fanne le tue ali, e vola. Prima di arrivare, girati verso di noi e con quel sorriso sornione e quegli occhi vispi di monello, facci una delle tue battute. Rideremo ancora un po’ e poi rifletteremo su quelle rapide parole. Ché forse cambieremo. Saremo più leggeri e più profondi”. (fc)