11 settembre – Sono già passati trent’anni, oggi, dall’addio a Gigi Malafarina, giornalista di punta della redazione reggina della Gazzetta del Sud, nonché cronista di razza. Un “mafiologo” ante-litteram, il primo che avesse percepito e capito quanto fosse radicata nel territorio la piovra ‘ndranghetista. E ne aveva scritto migliaia di colonne di giornale. Malafarina è stato il precursore dei giornalisti d’inchiesta sul campo mafioso, aveva acume, fiuto nello stanare le notizie, sempre presente in qualunque avvenimento di mafia a raccontare, con onestà, obiettività e grande mestiere cosa c’era dietro una strage, un delitto, un sequestro di persona. Giornalista vecchia maniera, cronista di nera che consumava le scarpe tra questura, tribunale e qualsiasi altra fonte utile per essere il “primo” a raccontare.
Malafarina scriveva spesso i suoi pezzi direttamente sulla telescrivente (trent’anni fa le nuove tecnologie erano ancora lontane), la sera tardi, quando – immancabilmente – Reggio scopriva un nuovo delitto della guerra di mafia: la sigaretta Nazionale senza filtro in bocca, perennemente accesa, e un occhio al taccuino (spesso un semplice foglio piegato in quattro), e venivano giù colonne di articolo. Perfetto, senza tentennamenti o indugi Malafarina raccontava ai reggini – in realtà ai calabresi, era sempre in prima pagina – i fatti, col piglio del cronista scrupoloso e attento. Individuando i “segnali” che un fatto delittuoso nascondeva nel linguaggio dell’omertà e dell’intimidazione. La telescrivente (collegata col giornale a Messina) rappresentava allora quello che è oggi la rete per i giovani giornalisti: era lo strumento che permetteva di andare direttamente alla linotype (i giornali usavano il piombo per comporre le pagine). Malafarina era una benedizione per il caporedattore: il suo pezzo, trasmesso a orari impossibili, sarebbe sempre comparso sull’edizione del mattino.
Malafarina, però, non si occupava solo di mafia. Col compianto Franco Bruno (giornalista RAI scomparso nel 2011) e il direttore di questo giornale, Santo Strati, aveva firmato nel 1971 “Buio a Reggio”, il ponderoso reportage sulla rivolta (900 pagine) che raccontava i drammatici giorni della città nella lotta per il capoluogo. Durante i sanguinosi giorni della rivolta Gigi era stato il faro per centinaia di inviati di quotidiani nazionali, della Rai, poi da tutto il mondo, calati a Reggio per raccontare (o stravolgere) i fatti: Malafarina era l’ancora di sicurezza per tutti, sempre disponibile con tutti, senza partigianerie, pronto a condividere o a spiegare episodi di difficile interpretazione. “Buio a Reggio” nacque da quell’esperienza.
Su Gigi si potrebbero scrivere pagine e pagine di episodi, aneddoti, e storie di vita vissute e non basterebbero mai. Il suo cuore grande e la sua amabilità verso tutti sono in tantissimi a Reggio, ma anche in tutta la Calabria, a non averli dimenticati. È un peccato che, in questi anni, il suo ricordo si sia però sempre più affievolito e che i giovani (giornalisti e non) calabresi nemmeno sappiano chi era, chi è stato Gigi Malafarina. Un impegno che la Città di Reggio dovrebbe assolvere, perché la memoria di ieri costruisce il futuro di domani. (s)
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per gentile concessione dell’editore Media&Books pubblichiamo le pagine che il giornalista Franco Calabrò a dedicato a Malafarina nel suo libro “Il Mestieraccio”:
LUIGI MALAFARINA
Nella notte tra il 10 e l’11 settembre del 1988, nell’ospedale di Locri dove era stato ricoverato in condizioni disperate, dopo essere stato colto da un malore nella sua casa di Siderno, moriva Luigi Malafarina: non aveva ancora 50 anni, ed era uno dei più noti cronisti italiani.
Pur essendo di qualche anno più anziano di me, si può dire che le nostre carriere erano state parallele e, dal 1985, il destino aveva voluto che io lo raggiungessi alla Gazzetta, così come il destino ha voluto che i vertici del quotidiano messinese decidessero che sarei stato io, che in quel momento lavoravo alla redazione province calabresi a Messina, a prenderne il posto.
Ero in ferie, quel giorno, e me ne tornai a casa piuttosto scosso: in chiesa, nel suo paese natìo, erano venuti in tanti, era arrivato anche Vico Ligato. Ci ritrovammo sul sagrato, quel gruppo di giovani giornalisti che con Gigi avevano vissuto gli anni ruggenti del mestieraccio, inseguendo fino a notte fonda le notizie, Tribuna e Gazzetta, in feroce ma civile concorrenza, una palestra di professione e di vita irripetibile.
Neppure un anno dopo, Ligato lo avrei rivisto steso davanti alla porta della sua villetta di Bocale, straziato dai proiettili di due killer della ‘ndrangheta.
Luigi Malafarina arrivò a Reggio dopo una breve permanenza alla redazione centrale di Messina (il giornale aveva una tradizione: premiare i corrispondenti provinciali più capaci). A Bonino, il fondatore, non piacevano i raccomandati, i capelloni, i fumatori. Gigi era calvo da giovane, ma fumava una sigaretta dietro l’altra, alternandola a pasticche di liquirizia.
La sera stessa mi chiamò, aveva ancora la valigia da disfare, ma ci abbracciammo a metà strada, noi eravamo in via Giudecca, loro in via Osanna.
La nostra fu un’amicizia interrotta solo, di tanto in tanto, da qualche periodo di burrasca, quando (e ancora me ne pento) gli davo qualche “buco”, che in gergo giornalistico significa avere sul tuo giornale una notizia buona e la concorrenza neppure un rigo.
Dopo un mio scoop che fa parte della storia del giornalismo, ormai (intervista su Oggi e sul Giornale di Calabria al boss Saro Mammoliti, ricercato da tutta la polizia) per parecchio tempo mi tenne il broncio, quando m’incontrava ogni giorno in Questura o in Tribunale, quasi ringhiando accennava a un saluto, ma molto freddo.
Un giorno, eravamo a Milano, ospiti entrambi dell’ingegnere Giovanni Calì, il magnate dei Premi Villa, uomo straordinario. Fu lui a prendere l’iniziativa: “È troppo tempo che siamo nemici” e mi abbracciò. Entrambi avevamo i lucciconi, da allora il rapporto si consolidò e d’estate, anche quell’ultima estate, nel breve intervallo fra il “giro” di nera e la pausa pranzo, veniva nella mia casetta al mare dove mia moglie era ben felice di preparargli qualche manicaretto che – l’ho scoperto dopo – era lui stesso ad “ordinare” telefonandole a mia insaputa.
La fatale sera del 10 settembre 1988 Gigi, prima di lasciare la redazione, che nel frattempo si era trasferita in via De Nava, per andarsene a trascorrere a Siderno la giornata di “corta”, chiamò a casa mia per chiedere a mia moglie il risultato degli esami che suo figlio, Antonio, da esterno aveva fatto al liceo di Bagnara. “Tutto bene, Gigi – rispose la mia consorte, che lo sentì veramente felice: “Giovedì torno, andiamo a festeggiare”.
La mattina successiva, fui svegliato da Lello Spinelli, storico fotoreporter del giornale: “Gigi sta male, vado a Locri, vieni con me?”
Una corsa inutile, quando arrivammo, usciva un famoso neurologo chiamato per un consulto, scuoteva il capo. Gigi era clinicamente morto, nel pomeriggio vedemmo il corpo prima che lo infilassero nella cella frigorifera.
Per anni è stato il punto di riferimento degli inviati che venivano a “raccontare” la Calabria; al giornale dava tutto se stesso, senza orari, senza risparmiarsi, pagando il prezzo più alto. Ci restano i suoi articoli, i libri sulla ‘ndrangheta, il ricordo struggente del rivale-amico che ogni giorno che passa s’accorge di quanto questa professione sia degradata. Di Gigi Malafarina non ne nasceranno più.