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L'OPINIONE / Franco Cimino: Paolo Borsellino, il giudice che ogni anno muore e l'uomo in lui dimenticato

L’OPINIONE / Franco Cimino: Paolo Borsellino, il giudice che ogni anno muore e l’uomo in lui dimenticato

di FRANCO CIMINO – Morte di Paolo Borsellino, il magistrato barbaramente ucciso nella strage di via D’Amelio. Oggi diciannove luglio di trentuno anni fa. Oggi, ripeto oggi, e trentuno anni. Come per Giovanni Falcone e altri servitori dello Stato, come per Aldo Moro e Antonino Scopelliti, e altri uomini di fede democratica, fatti morire sull’altare di interessi nascosti, rispetto a quelli evidenti e dichiarati delle mafie tradizionali e belligeranti, Borsellino muore.

Tutti gli anni in questo giorno, come i summenzionati nel proprio, il magistrato di Palermo, essendovi nato e in quella città vivendo, muore. Alla stessa ora, le sedici e cinquantotto, salta in aria con i suoi quattro uomini e una donna della scorta. A ucciderlo siamo tutti noi. Noi, che abbiamo bisogno di eroi per sconfiggere il senso di colpa individuale e collettivo per non aver fatto ciò che Paolo, nel trigesimo del suo amico Giovanni, ci ha chiesto di fare, il nostro dovere. Soltanto il nostro dovere. «La mafia non si combatte solo con le inchieste, gli interventi delle Forze del’Ordine e le sentenze. Si combatte più efficacemente con l’azione collettiva di respingimento e di vigilanza dei cittadini…». Se la mafia siciliana è ancora forte ed estesa, tanto che il famigerato Matteo Messina Denaro, il latitante più ricercato nel mondo, è stato catturato, “disponibile” e disarmato, totalmente indifeso, solo poche settimane fa(a trentuno anni da Falcone e Borsellino), perché quotidianamente si recava in ospedale per la sua avanzata malattia mortale, vuol dire che non abbiamo fatto il nostro dovere.

Se la ‘ndrangheta, già forte nella metà del secolo precedente, è diventata l’organizzazione criminale più forte e più ricca del pianeta, vuol dire che non abbiamo fatto il nostro dovere. Se la criminalità organizzata di diversa denominazione, estesa a criminali “organizzabili” di diverse nazionalità, impera nelle regioni forti del Nord, Emilia Romagna e Lombardia in testa, vuol dire che non abbiamo fatto il nostro dovere. Se, apparentemente luoghi più piccoli e scarsamente importanti, come alcuni territori della Calabria, e se anche in alcune periferie del suo Capoluogo, famiglie intere di etnia rom dominano totalmente, vuol dire che non abbiamo fatto il nostro dovere. Se ancora, come uomini delle istituzioni, facciamo a gare a farci stendere dichiarazioni stampa, sempre più sintetiche tra l’altro, infarcite di retorica di basso “conio”, e davanti alle telecamere genuflesse recitiamo a memoria la solita frase uguale per tutte le circostanze, vuol dire che non abbiamo fatto il nostro dovere. I più. I pochi, aggiuntivamente, che non hanno capito nulla. E non abbiamo capito nulla pure noi se, tutti insieme, facciamo finta di non aver “ sentito” le parole del magistrato fermato il diciannove luglio.

Oggi, trentuno anni fa. Sono pressapoco queste le più importanti: «sto per giungere ai veri mandanti della morte di Giovanni; non ho molto tempo per arrivare alle conclusioni; la mafia ha già fatto portare a Palermo un grosso quantitativo di esplosivo per me; chi materialmente mi ucciderà sarà la mafia, ma quanti ordineranno la mia fine stanno molto più in alto». Infine: «io, come Giovanni, morirò, ma quei vigliacchi che stanno molto vicino al mio ufficio faranno carriera».

Tono e parole, potrebbero essere diversi, ma questi sono i pensieri lasciati sul campo di una battaglia solitaria il giudice che noi vorremmo fosse il nostro eroe, mentre, come egli stesso si era definito, era e voleva essere soltanto un magistrato che faceva il proprio dovere. Il pensiero più intenso che mi prende da ieri sera, dopo aver visto per la terza volta uno dei film più belli su Borsellino, è quello per l’uomo solo. L’autorità nel ruolo, la fragilità nell’uomo. Il potere nella funzione, il disarmo nella persona. E quel contrasto tra il dovere di non arretrare del servitore dello Stato e quello di fermarsi del padre di famiglia.

La consapevolezza di donare la vita per il bene degli altri e la paura di perderla per il proprio bene. La paura di aver amato poco, il dovere e la funzione. La paura di avere amato troppo, i figli. La paura di perdere il suo immenso amore. Quello tenero e dolce, romantico e pulito, della moglie. E la gioia immensa di averlo ricevuto. Infine, la paura e il coraggio. Paura della morte. Il coraggio di andarle incontro. (fc)