di GREGORIO CORIGLIANO – Ero a Firenze. Dovendo raggiungere la stazione Leopolda dall’albergo, ho preso un taxi. Ho pregato la signora tassista di fermarsi alla prima edicola incontrata per acquistare i miei soliti giornali, la prima cosa che ormai si fa dopo la recita del Pater noster, dice Hegel.
«Le sembra facile, mi risponde la Signora, cortesemente. Qua chiudono tutte. Dobbiamo girare un po’». E vabbè Le dico. Come può cominciare la giornata senza il sacro rito della carta stampata? «Ma non ha un tablet o uno smartphone, mi risponde gentile». Si che ce l’ho! «Ed allora, li legga lì!».
Ma vuoi mettere le e mi dico, tra leggere su un minuscolo aggeggio e riflettere su un giornale vero e proprio? E poi, puoi tornare indietro, andare avanti, leggere solo i titoli, scegliere l’argomento, la sezione e via di questo passo. E poi? Sentire l’odore dell’inchiostro che ha il suo fascino, come se si scendesse – una volta- in tipografia, col piombo. Ed oggi? Non si trovano più edicole, non a Simeri Crichi o a Santa Maria del cedro, ma a Firenze, la capitale della cultura.
Era ottobre. Non avrei mai immaginato che, qualche mese dopo, avrei avuto la stessa sorpresa a Cosenza, dove – spero provvisoriamente- ha chiuso la più antica edicola cittadina, conosciuta come rivendita Permesso. Chiudono in Sicilia, come a Torino, dove ha chiuso l’edicola Paravia che aveva ben 198 anni di vita. E poi, Quartu Sant’Elena, Roma-Eur e tante tante altre. E di pari passo, chiudono le librerie che, da tempo, erano diventate carto-librerie. Non si legge, la scusa è degli smartphone ma è anche, come ha scritto Massimo Cacciari, perché molti ragazzi non si impegnano ad imparare a scrivere men che meno a leggere.
«La scuola non istruisce, ha scritto il filosofo veneziano». E la colpa non è tanto di genitori e studenti, è, a suo parere, di quanti hanno disorganizzato la scuola. Perché non è vero? La scuola, salvo rare eccezioni, è disorganizzata, non è all’altezza del compito che è chiamata a svolgere. Una volta non era certo così. A scuola si stava attenti a seguire prima i maestri – tanto di cappello, anche oggi – e degli insegnanti e dei professori. Oggi non si vede l’ora di scappare e, quindi, non si sta attenti. C’è la fuga verso l’uscita e si continua imperterriti a parlare il dialetto. Ricordo che il mio maestro di terza, quarta e quinta elementare portava l’accipe? Chi lo ricorda. Qualcuno ancora oggi sa cos’era? Dal latino accipio «prender qualcosa in pegno o come segno di penitenza da qualcuno»: E cioè? Ogni qualvolta parlavi in dialetto o ti sfuggiva un parola poco consona, prima il maestro, poi l’alunno riceveva un «segno: una moneta antica, un pezzo di ferro» come punizione.
E dovevi dare al maestro una monetina di cinque lire, così imparavi o avresti dovuto stare attento a non farti sfuggire la parolaccia. E a tua volta consegnavi l’accipe al compagno che non stava attento. A fine lezione si accumulavano una cinquantina di lire che, a fine anno scolastico, il maestro, Domenico Massara, faceva scegliere come spendere quei pochi soldi (allora erano tanti) raccolti. O darli al più povero della classe o comprare libri per quanti non avevano la possibilità. Si facevano due cose: si parlava italiano e si faceva una buona azione. Che c’entra col fatto che non si legge? Di striscio, ma c’entra, c’entra. Se ti abituavi fin dalle elementari a stare attento, ti rendevi conto che lo studio era fondamentale per la vita. Compresa la lettura dei libri e dei giornali, che qualche anno dopo, col professor Oreste Capria, preside della Scuola media era diventata ora di lezione. E i ragazzi venivamo abituati a leggere. Anzi, avevamo la curiosità di sapere.
Poi, il c.d. progresso ha smantellato l’accipe ed ha smantellato la lettura dei giornali. E nessuno o pochi leggono, eccezion fatta per i politici: sì e no. Tra il 2012 e il 2017, secondo una ricerca di Sergio Rizzo, allora vice direttore di Repubblica, son scomparsi 2.330 punti di vendita, tra edicole e librerie, che “tenevano accesa la fiammella della lettura nelle aree meno servite e disagiate. Se si priva un Comune di un edicola significa privare gli strati deboli di una comunità, peraltro sempre più anziana, della possibilità di informarsi, di accrescere la cultura, farsi delle idee: la base stessa di un sistema democratico. Di grande significato è stata l’idea di una mia amica architetta, Ester Pontoriero che, a Lamezia, ha inventato e realizzato Pan&Quotidiano, una rivoluzione nell’edicola di Stefano Puija.
La professionista di avanguardia ha realizzato un restyling unico dall’idea di format alla progettazione unica. Oltre alla selezione di quotidiani e sfiziosità culinarie calabresi, Pan&Quotidiano si evolve, dice Ester Pontoriero, in un autentico hub culturale, con la vendita di libri di autori calabresi. L’edicola diventa così, ed era ora, un luogo vivace che ospita eventi culturali, concerti musicali, presentazione di mostre d’arte. È, comunque, indispensabile trovare il sistema di finanziare edicolanti e librai che non navigano nell’oro. Così si partecipa alla vita della società, specie quella meridionale, anche quando si va a votare. Il giornale è il pane spirituale dice Marcel Proust, i libri – ed io ho provato prima con Nero di Seppia edito da Pellegrini con prefazione di Tommaso Labate del Corriere della sera- e poi con Ecco l’anima del luogo edito da Albatros, con prefazione di Gigi Sbarra e commento della collega Manuela Molinaro, aiutano a pensare. E a vivere. (gc)