di PINO NANO – Lo confesso pubblicamente. È raro che una intervista ad un uomo politico riesca ad affascinarmi o a prendermi per lo stomaco. Se accade ancora, quelle rarissime volte che accade, è perché è una intervista forte, che ti prende il cuore e l’anima, che ti sferra un pugno nello stomaco e ti apre scenari impensabili e inimmaginabili. Insomma, deve essere una cosa molto forte.
Ed è quello che mi è capito l’altra sera, guardando in televisione una intervista che mi sarebbe piaciuto molto fare ai miei tempi, perché il personaggio è di grande carisma e di alto spessore istituzionale.
Parlo del racconto personale – privato quasi intimo – che Marco Minniti ha fatto di sé stesso nel salotto di Via Condotti da Paola Bottero –Direttore strategico di Pubbliemme – Diemmecom, viaCondotti21 e LaCNetwork – e che credo sia stata in assoluto la prima giornalista al mondo in grado di convincere Marco Minniti ad aprirsi così tanto da vederlo ad un certo punto anche commosso e fortemente provato dal ricordo della sua infanzia. Mai visto un Marco Minniti con gli occhi lucidi.
Una commozione tutta legata al ricordo di Peppino Valarioti, giovanissimo dirigente del Partito Comunista Italiano ucciso dalla ‘Ndrangheta a Rosarno l’11 giugno 1980. Valarioti fu il primo politico vittima della mafia calabrese, venne ucciso al termine di una cena tenuta insieme ai suoi compagni di partito per festeggiare una vittoria elettorale importantissima perché con quel voto i cittadini rosarnesi avevano dato sostegno a Valarioti e ai suoi Compagni e alle loro battaglie di civiltà, e avevano detto no ai soprusi della ‘ndrangheta.
«Beppe Valaroti e io, quella sera saremmo dovuti andare a cena insieme, ma il giorno dopo avrei dovuto fare apnea, quindi svegliarmi presto, così avevo detto a Beppe che non sarei andato al ristorante. Lui invece è andato. All’uscita gli hanno sparato. Con l’assassinio di Beppe Valarioti le mafie hanno inaugurato una sorta di terrorismo mafioso. Serviva dare un segnale netto a chi si opponeva ai loro progetti, e in quel caso il segnale era diretto alla sinistra, colpendo un suo militante. Beppe era una figura straordinaria, veniva da una famiglia molto umile ed era riuscito a laurearsi in lettere, esperto di archeologia, era una persona dotata di una straordinaria ricchezza umana».
È un Marco Minniti assolutamente inedito l’uomo-ospite di Paola Bottero, un uomo che ha segnato profondamente la storia della Repubblica e di questo nostro Paese, e che per la prima volta parla in pubblico della madre Angela che “non lo voleva pilota militare”, cosa che invece era il suo vero grande sogno da ragazzo.
Un Marco Minniti che parla del padre, generale dell’Aeronautica Militare, “che non ha mai creduto in me” e che oggi lui invece spera di ritrovare, “magari in una seconda vita se c’è…”, per riconciliarsi con lui.
Parla di sua moglie Marco Minniti,«che ho sposato 33 anni fa, matrimonio su cui nessuno allora avrebbe mai scommesso una sola lira». Ma parla anche della sua tesi universitaria sulle Georgiche di Virgilio, che lo hanno portato a capire poi meglio la politica e il senso dello Stato. Parla della sua fede politica, “profonda innata e viscerale”, bellissimo davvero. Ricorda gli anni vissuti nel cuore pulsante del vecchio Partito Comunista, parola che nessuno osa più pronunciare in televisione o in pubblico. Parla della sua capacità di «saper stare bene anche da solo a lungo» perché la solitudine ha anche i suoi lati positivi, «in realtà mi concedo a piccole dosi, ma so stare anche bene da solo».
Un Marco Minniti che ricorda gli anni della Rivolta di Reggio Calabria, e racconta la vita sulle barricate della città, suddivisa e contrassegnata per “Repubbliche”, cita “Ciccio Franco”, il leader della parte opposta, e rivive in diretta lo scorrere delle ore di quella stagione così difficile e così complessa per la città che lo ha visto crescere e che lui ama più di ogni altra cosa al mondo.
Di quegli anni Marco Minniti ne spiega in miniera magistrale gli umori e le tensioni giovanili, come se fosse il romanzo della vita di qualcun altro.
Un romanzo, che in realtà è il suo romanzo, non più privato, vissuto intensamente tra due passioni insane, la politica da una parte e il mare di Reggio Calabria dall’altra, la pesca subacquea e le apnee, anni in cui la sua vita era impastata di letture e di saggi politici importanti.
«Mi sono laureato in filosofia, ma mi sono specializzato in latino e filologia classica». Poi all’improvviso però mi spiazza, perché cita un termine che non conoscevo prima, Grundrisse. Lo confesso, la cosa mi costringe a riparare alla mia ignoranza andandolo a cercare su Google.
«Ho scritto la mia tesi su Le Georgiche di Virgilio, la principale opera didattica di Virgilio, letta attraverso i canoni interpretativi dei Grundrisse di Karl Marx».
Ma di cosa parlerà mai Marco?
Parla della prima bozza preparatoria del Capitale, manoscritto, rimasto inedito in Italia fino al 1968, e che contiene numerose riflessioni su questioni che Marx non ebbe la possibilità di sviluppare successivamente, ma che è estremamente rilevante per l’interpretazione complessiva del suo pensiero e dei principali argomenti che emergono dalla lettura dei Grundrisse: metodo, relazione tra denaro e capitale, alienazione, surplus-valore, materialismo storico, contraddizioni ecologiche, emancipazione umana.
Un fiume in piena. Elegante anche senza giacca e cravatta, a tratti quasi solenne, come lo è sempre stato, mai arrogante, mai saccente, mai irritante. È un Marco Minniti che parla degli anni in cui il suo liceo e la sezione del partito comunista erano per lui la sua vera casa, e la sua vera famiglia, e ricorda di conservare ancora gelosamente tra le sue cose più care le foto di quando «avevo i capelli, per giunta biondi e anche riccioli».
È un Marco Minniti sereno, equidistante dal tourbillon della politica di questi anni e di queste ore, del tutto rilassato, che si concede completamente in una intervista da manuale giornalistico, quasi una seduta psicanalitica, o meglio, molto di più, una lezione magistrale di un “uomo di Stato”, perché tale lui è stato, e in cui Marco Domenico Minniti «sì, è vero, ho due nomi e da ragazzo molti facevano confusione tra l’uno e l’altro», racconta la magia delle “porte girevoli” della sua vita.
Credo di poterlo dire, lui è stato – e forse lo è ancora – uno degli uomini più influenti e più rispettati della storia del Paese. Da Ministro dell’Interno è stato un “uomo di Stato” di altissimo carisma morale, ma anche da dirigente del partito comunista è stato un servitore davvero sublime della causa del suo partito, cresciuto con Massimo Dalema, coccolato dai vertici del suo partito come una gallina dalle uova d’oro, ma seguito e “studiato” dai vertici degli altri partiti di Governo per questa sua straordinaria capacità di “tessitore di uomini e di idee”, visionario, moderno, eclettico, profondo conoscitore del mondo, grande appassionato di intelligence, e come tale intellettuale sofisticato, fine, assolutamente trasversale.
Il Presidente Cossiga, ricordo, lo riteneva e ne parlava di lui come uno degli uomini più intelligenti della sinistra italiana. In quegli anni Dalema era sempre in prima fila, ma dietro di lui c’era la sua ombra fedelissima, che era il “filosofo” Marco Minniti.
In coda a questa nota vi lascerò in evidenza il link di questa intervista, che vi consiglio di vedere, perché credo rimarrà uno dei documenti più belli della storia politica di Marco Minniti, e che per la prima volta in pubblico ricorda gli anni in cui da «boyscout ricoprivo un ruolo fondamentale».
«Avevo conquistato la specializzazione di “attore”, e come tale nei campi estivi spettava a me organizzare i fuochi della notte, i raduni tra di noi, dove io parlavo, mi esibivo, raccontavo le barzellette, facevo divertire tutti e cantavo. In realtà ho sempre avuto una fortissima dimensione socializzante».
Straordinario. L’uomo dei “mille segreti”, che conosce la storia della Repubblica come nessun altro, si racconta finalmente in pubblico e lo fa con una semplicità che non è solo disarmante, ma che è anche affascinante.
Lo conosco personalmente da 40 anni, da quando io ancora giovane militante democristiano lo guardavo, già allora con ammirazione e con grande interesse, e da quando ancora giovanissimo cronista della Rai avevo imparato a capire che nulla in Calabria si muoveva se non con il suo consenso.
Un uomo di potere, non solo un intellettuale e un militante, ma che in televisione si concede ora anche il lusso di raccontare del giorno e del momento in cui si rese esattamente conto che la sua vita non sarebbe stata più la stessa.
È quando bussarono alla sua porta i tecnici del Viminale «per sistemare in casa mia il famoso telefono rosso», che è una prerogativa dei Ministri dell’interno e degli uomini-chiave della sicurezza nazionale.
«Pensavo che quel telefono non mi sarebbe mai servito, pensavo che non avrebbe mai suonato, e proprio per questo dissi di sistemarlo sul comodino della mia camera da letto». Poi, in realtà, tutta la sua vita rimase appesa e strettamente collegata quel “telefono rosso”.
Paola Bottero in studio con lui, elegantissima, vestita di bianco con stivali marrone, lo segue in silenzio, forse neanche lei si sarebbe mai aspettata da un “uomo di Stato “come Marco Domenico Minniti un racconto così personale, e che alla fine di questo loro incontro regala allo studio di Via Condotti una ennesima chicca della sua vita.
Il vecchio leader comunista racconta di una telefonata che un giorno gli arriva a Palazzo Chigi, qualcuno lo cerca al centralino del Palazzo di Governo, «C’è al telefono il generale Minniti che la cerca, mi sento dire dalla mia segreteria. Prendo la chiamata e dall’altra parte del filo sento un uomo che mi dice “Sono tuo zio Giovanni, volevo dirti che siamo orgogliosi di te”. Quel giorno è stato uno dei momenti più belli della mia vita».
La riconciliazione finale, insomma, con una famiglia di alti ufficiali dell’Aereonautica Militare che per una vita forse hanno erroneamente immaginato che il “loro piccolo Marco”, facendo politica, alla fine potesse diventare uno scavezzacollo o peggio ancora un nulla facente.
Il resto è storia di questi anni.
Una mattina Marco Domenico Minniti si alza, esce di casa e decide che è il momento di lasciare una volta per sempre il Parlamento. E si dimette. Se ne va via da Montecitorio quasi in silenzio, con la stessa sobrietà con cui aveva vissuto e attraversato gli anni più turbolenti della storia del Pase. Un esempio per tutti.
Paolo Bottero gli sta alle corde «E ora che fa?».
E lui, di rimando, racconta della Fondazione Med-Or di cui oggi è Presidente, una Fondazione che nasce per iniziativa di Leonardo-Spa nella primavera del 2021 con l’obiettivo di “promuovere attività culturali, di ricerca e formazione scientifica, al fine di rafforzare i legami, gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (“Med”) e del Medio ed Estremo Oriente (“Or”)”.
Un soggetto nuovo nel suo genere, globale e collaborativo, nato per unire competenze e capacità dell’industria con il mondo accademico per lo sviluppo del partenariato geo-economico e socio-culturale, che coinvolge personalità e professionisti con una lunga esperienza, nazionale e internazionale, nel campo istituzionale, industriale, e accademico.
Rieccolo, dunque, il “ragazzo-filosofo”, alle prese oggi con una materia globale ancora più affascinante dei dossier e dell’agenda tradizionale della vecchia politica.
Ve lo avevo anticipato prima, un Marco Minniti assolutamente nuovo, inedito, a tratti anche avvolgente. Se non ci credete, andatevelo a guardare. (pn)