Il 16 giugno ricorrono i 30 anni della scomparsa di mons. Italo Calabrò, uno straordinario pastore di animo, modello e simbolo della solidarietà e dell’inclusione sociale. Il suo motto “Nessuno escluso, mai” esprime in pieno il senso della carezza di Dio che arriva attraverso gli uomini che interpretano la cristianità ad altri uomini, donne, giovani anziani. Bisognosi delle attenzioni e dell’amore che solo la fede, come insegnava don Italo, permette di offrire con generosità estrema. senza chiedere nulla in cambio. Calabria.Live ha chiesto al grande poeta Corrado Calabrò di ricordare il fratello.
di CORRADO CALABRÓ – Com’era don Italo in famiglia?
Da me, suo fratello di sangue, ci si aspetta qualche risposta a questo tipo di domande. Ma è difficile scindere, prendere isolatamente un aspetto della poliedrica personalità di don Italo; era poliedrico pure in famiglia. Certo, era nato con un’attenzione, con un amore per gli altri davvero inusuale.
Non aveva ancora quattro anni quando si sposò zia Memè, la sorella di mia madre. Il ricevimento di nozze fu nella villa di famiglia, a Ravagnese. I rinfreschi venivano serviti sulla terrazza al primo piano. Sotto la scala che portava dalla terrazza al cortile, al di là del cancello chiuso, s’affollava un gruppo di bambini e ragazzini. Italo faceva su e giù per le scale; afferrava a piene mani tre-quattro gelati e scappavia via. A un certo punto mia madre vide che aveva il vestitino nuovo macchiato. Cercò di afferrarlo ma le sfuggì correndo giù per le scale, tirò fuori dalle tasche i gelati (i “pezzi duri” di quel tempo) e li porse ancora una volta attraverso le sbarre ai bambini che stavano fuori.
Quest’attenzione, questa cura per gli altri Italo l’aveva ereditata dalla madre. A casa mia era una processione continua di gente che aveva bisogno. Mia madre era presente al capezzale dei parenti malati, e spesso era lei a chiudergli gli occhi. Aveva una grande forza d’animo mia madre. La dimostrò in particolare sotto i bombardamenti; imperturbabile, mia madre infondeva calma o almeno autocontrollo a tutti, uomini e donne.
Anche la forza d’animo Italo l’aveva ereditata da mia madre.
L’amore di don Italo verso gli altri, e in particolare verso gli ultimi, e la sua coerenza, assunsero una caratura e una valenza diversa quando divennero un tutt’uno con la sua testimonianza di fede. La vocazione sacerdotale si manifestò in lui negli anni del ginnasio ma mio padre pretese che prima conseguisse, comunque, la maturità. Probabilmente una qualche influenza (anche antitetica) l’ebbe la drammatica vicenda di zio Protopapa che aveva segnato la nostra famiglia. Ma essa prese in Italo uno sviluppo e un significato “singolari”, come dicevo.
In questi trent’anni trascorsi dalla morte di don Italo la sua specialissima testimonianza di vita è stata indagata in più libri. Eppure, ancora niente ne sintetizza meglio il ricordo della frase in cui si condensa il suo testamento spirituale: “Amatevi tra voi di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada. Nessuno escluso, mai!”
Una frase in cui si compendia il suo insegnamento, il suo esempio di vita; una vita spesa interamente per gli altri.
È stata appunto questa la sfida di don Italo, una sfida semplice ed estrema al tempo stesso: applicare il Vangelo, non semplicemente predicarlo dando per scontato che sia impossibile, sovrumano, conformare il nostro comportamento quotidiano all’insegnamento d’amore di Cristo e di Paolo. Un’esperienza totalizzante, nella quale si riduce al minimo il divario fra ciò che si dice e ciò che si fa. Un’esperienza rivoluzionaria: l’immedesimazione della propria azione con l’amore senza limiti, senza condizioni, senza perché. Una testimonianza di vita vissuta che continua a inquietarci nel segreto delle coscienze.
In una stagione – gli anni ’60 – in cui esplodeva l’individualismo (“privato è bello”), don Italo tracciò a Reggio, nell’Istituto Panella, un’altra via, un percorso che intrecciava la vita di ciascuno (e in particolare quella dei giovani) con quella degli altri, facendola compartecipe.
Tanto più controcorrente appare quell’esperienza oggi in questi anni in cui il consumismo, la più spregiudicata convenienza personale dilagano. La sfida di Cristo, che ribaltò un impero universale, si misura oggi con l’andazzo della società globalizzata, consumistica, dissociata, opportunista, dei nostri tempi. In cui l’ego proclama: I first!
Lo stesso accade per la testimonianza di vita di don Italo. “Quando fai il bene fallo bene” era uno dei suoi motti. Il segno che don Italo ha lasciato sta non solo in quello che ha fatto – e ha fatto tanto – ma anche nel modo in cui lo faceva.
Un modo discreto, sommesso, che faceva di tutto per passare inavvertito, ma esigente nei risultati. L’amore di don Italo era l’amore assoluto, che non si attende di essere ricambiato; l’amore che si sostenta di se stesso inesauribilmente. Ma egli faceva di tutto per farlo apparire normale, naturale, come l’amore dei genitori verso i figli. I genitori “condividono” la vita coi figli, finché questi hanno bisogno di loro. Don Italo “condivideva” la situazione dei suoi assistiti. “È doveroso dare da mangiare ai poveri ma è bello pranzare con loro” era un’altra delle sue considerazioni. E ogni domenica pranzava con loro nella casa accoglienza di Santa Domenica.
A Natale, per qualche giorno, gli ospiti delle case-famiglia tornavano alle famiglie di appartenenza, avevano qualche zia, qualche parente più o meno lontano che li ospitava. Ma alcuni non avevano davvero nessuno. Allora venivano a trascorrere il Natale con noi. Io, con i miei, tornavo quasi sempre a Reggio per Natale. La mamma – finché c’è stata – apparecchiava la tavola per tutti.
Quando già la mamma non c’era più, una sera, essendo venuto a trovarlo a Reggio, Italo mi aspettava alla stazione. Si fermò davanti a una pasticceria e prese un vassoio di paste. “Italo, che ce ne facciamo?” gli dissi “Siamo solo tu e io”. “Portala tu” mi rispose. A casa trovammo una pipinara incredibile. Una dozzina di ragazzini si davano battaglia a colpi di cuscini. Nelle stanze erano stati montati dei letti a castello. Erano i piccoli Facchineri, sopravvissuti (fin allora) alla faida di Cittanova che aveva fatto 39 morti.
Don Italo portava via con sé i bambini e i ragazzi e li ospitava per qualche giorno nella nostra casa a Reggio per instradarli poi in località sicure: a Torino da Don Ciotti, in Francia, in Canada… Sono stati numerosi i ragazzi abbandonati affidati dal Tribunale minorile in cura a don Italo. E ancora più numerosi sono stati i ragazzi di cui egli si è preso spontaneamente cura. Compresi i figli degli ‘ndranghetisti, specie a San Giovanni di Sambatello.
La forte presa di posizione di don Italo contro la mafia fu la prima e fu la più vigorosa; una presa di posizione controcorrente all’epoca. Fu anche per le sue insistenze che per la prima volta la Chiesa calabrese prese ufficialmente posizione contro la mafia. Non va sottratta una virgola a quel ricordo. Ma non va dimenticato che il contrapporsi di don Italo alla ‘ndrangheta nasceva da un atto di amore. Spese enormi energie per proteggere i giovani dalla ‘ndrangheta, per sottrarre i bambini al tragico destino di faide secolari. Si prodigò per assistere i figli di ‘ndranghetisti, abbandonati al loro destino familiare (si fa per dire) dalla mentalità dei genitori o, peggio, utilizzati per piccoli crimini, sfruttando la loro giovane età, magari facendo macchiare loro le mani di sangue. Alloggiandoli nelle case-famiglia, cercava di farli studiare, di avviarli a una vita onesta. E poi ne seguiva il calvario; ricordo le sue visite al carcere minorile di Casal del Marmo, il dolore segnato sul suo volto. Ognuno era un figlio per lui.
Questo suo impegno non fu senza costi. Racconto un episodio per tutti, ma potrei narrarne altri. Monsignor Pasini, in un articolo scritto all’indomani della morte di don Italo, racconta di quando un personaggio noto andò a minacciarlo addirittura in Curia. “Pregherò per lei”, gli rispose don Italo congedandolo. Non menzionerò un altro episodio, per dir così più “energico”, l’episodio del candelabro, in occasione di una visita di avvertimento in sagrestia. Ma a San Giovanni di Sambatello credo lo ricordino … Don Italo era anche dotato di una vigoria fisica e di un coraggio fuori del comune …
Come descrivere ai giovani di oggi, che non l’hanno conosciuto, come descrivere ai giovani che ha potuto solo battezzare, l’amore di don Italo per i giovani di ieri? Per tutti i giovani. Alcuni anni fa ero a Buenos Aires, in un incontro con la comunità calabrese (sono più di cinquanta milioni gli argentini di origine italiana, e più di 20 milioni quelli d’origine calabrese). Alla fine dell’incontro mi avvicinò un uomo che teneva per mano un ragazzo. Aveva le lacrime agli occhi. “Io ho conosciuto vostro fratello”, disse.
Poi, rivolgendosi a suo figlio: “Questo è il fratello di don Italo. Di quello che mi ha battezzato, che mi ha fatto la prima comunione, che mi fatto studiare. Se sono dottore commercialista lo devo a lui”. Era ben vestito. “Faccio il commercialista, qui a Buenos Aires”, mi spiegò.
Ecco, sono forse i padri, gli ex giovani di ieri che oggi hanno i capelli bianchi, che possono far rivivere il ricordo, l’esempio di don Italo nel modo di rapportarsi con i giovani. E dar loro una speranza.
Dicevo che un altro connotato di don Italo era la sua forza d’animo. Fin da ragazzo l’immagine che conservo di lui è di chi non sa cosa vuol dire resa. Lui non si è mai piegato davanti a niente, alle delusioni, alle amarezze, alla difficoltà di far fronte a bisogni eccedenti ogni possibilità di aiuto, all’incomprensione, alle calunnie, all’abbandono. Ha affrontato sempre tutto con animo indomito.
E tuttavia non è da credere che la sua fermezza, la sua coerenza incondizionata egli le facesse pesare. Il suo rapporto con gli altri – e così pure in famiglia – era allegro, brioso, delicato. Nelle sue narrazioni dei fatti occorsigli amava cogliere il lato buffo, divertente, umoristico. Un umorismo che allargava vedute ristrette.
E di sé parlava sempre con autoironia. Una volta, all’aeroporto di Reggio, un giovane che l’aveva accompagnato gli chiese: «Don Italo, ma perché tutti vi chiamano cosi? Perché non vi fate chiamare monsignore?». «Sai che differenza passa tra un monsignore e un prete semplice?», rispose don Italo. «Nessuna, ma i monsignori non lo sanno».
Un’altra volta, una delle suore che assistevano gli anziani in una delle case di accoglienza di don Italo si doleva con lui del fatto che alcuni degli assistiti ricambiavano le loro premure con insulti o peggio ancora con bestemmie. “Bestemmie!”, proruppe don Italo. “No, non avete capito. Sapete elencarmi gli ordini degli angeli e degli arcangeli?”. “Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni…”, rispose la suora. “Ne dimenticate uno: quello degli Angeli traduttori. Ogni insulto, ogni imprecazione di chi vorrebbe amare ma non sa, gli Angeli traduttori li traducono in lode a Dio e alla Madonna”.
Questa sua concezione, questa sua esperienza dell’amore come condivisione, don Italo la trasfuse nella Caritas. Della Caritas, com’è noto, don Italo fu tra i primi promotori, accanto a monsignor Nervo. E proprio monsignor Nervo raccontava di come li sconcertasse, all’inizio, la sua concezione della funzione della Caritas intesa non semplicemente come donazione del necessario a chi ha bisogno, ma come condivisione della situazione dell’altro, come un luogo dell’anima. Alla Caritas don Italo ha dato un apporto non secondario; a quella nazionale e a quella diocesana. Ma il suo contributo maggiore è stato proprio in questa impronta che ha impresso a quell’organizzazione nascente e che ne ha fatto qualcosa di diverso da tutte le altre organizzazioni caritative della Chiesa cattolica.
La commemorazione di oggi dimostra che la società reggina, la Chiesa reggina non hanno dimenticato Don Italo: è merito, in modo particolarissimo, del nostro Arcivescovo Morosini e vale a riscattare gli atteggiamenti di alcuni ambienti della città chiusisi a riccio, dopo la scomparsa di Don Italo, come per evitare il confronto.
Capisco che la sua titanica figura potesse e possa ancora provocare disagio, inquietudine, senso di inadeguatezza.
Ma don Italo non fu mai uomo, prete di parte. Come dice bene Renzo Agasso: “Accanto a tutti lui; attorno a lui tutti”. Aveva una capacità straordinaria, don Italo, di coinvolgere gli altri: gli studenti dell’istituto Panella, i giovani che incontrava, i giovani sacerdoti. C’è una frase che don Italo ripeteva spesso: “Possiamo delegare agli altri il disbrigo di una pratica amministrativa, un compito qualsiasi della nostra quotidianità. Ma una cosa voi giovani non potete delegare a nessuno: di vivere la vostra vita. Siatene dunque responsabili!” Tante sono state le risposte.
Don Italo è forse una figura scomoda, proprio perché anticonvenzionale, ma è comunque una figura con la quale la società reggina e il mondo del volontariato – cattolico e non -, la stessa concezione delle istituzioni sociali, devono tuttora confrontarsi. “Nessuno è così sicuro di sé da rinunciare al successo” ha scritto un pensatore. Nessuno tranne don Italo. Ha sempre schivato anche le cariche che costituiscono sviluppi naturali del ministero sacerdotale; ha rifiutato due volte la nomina a vescovo.
Io l’ho appreso dall’allora Mons. Ruini, all’epoca Segretario della Conferenza episcopale. Italo non me ne aveva mai parlato …
Migliaia e migliaia di persone, insieme a sette vescovi e a più di duecento sacerdoti, gli diedero il saluto estremo nel Duomo in un’atmosfera d’intensa commozione. Nella sua vicenda estrema don Italo aveva recuperato tutta la sua forza d’animo. “Dio è fedele alle sue promesse, non alle nostre attese” fu la sua interpretazione della prova estremamente dolorosa che l’aveva segnato.
“All’improvviso, nel mese di aprile 1990, il Signore mi ha chiaramente avvertito che la mia giornata volgeva rapidamente al declino. Lo ringrazio, dal profondo del mio cuore, perché, contro ogni mio merito, mi ha donato tanta pace e piena disponibilità nell’accettare la sua volontà”.
Sono le parole con cui si apre il testamento spirituale di don Italo. Ma non sono semplicemente parole.
Fu a Roma che a don Italo venne rivelata la natura della sua malattia. Io ero presente, con mia figlia Maria Teresa. Il professor Cortesini non trovava le parole. Don Italo voleva sapere, fino in fondo: “Quanto tempo mi resta?”. Il professor Cortesini era imbarazzato. “Professore, io devo sapere. Ho le mie opere da sistemare. Insomma, mi restano anni, mesi, settimane?”. “Più quest’ultima ipotesi”, rispose Cortesini.
Don Italo abbassò gli occhi per quasi un minuto. Quando li rialzò il suo sguardo era fermo, il suo volto decontratto. “Sia fatta la volontà di Dio”, disse. E si fece il segno della croce.
L’ultima povertà. Questa volta la condivisione era compenetrazione: “Quando ci si vede povero di salute, allora si ha bisogno di tutti”, aveva scritto don Italo. Eppure egli è riuscito a donare anche in quella condizione. Venne fuori ancora una volta il suo temperamento indomito.
La serenità dell’anima. L’esorcizzazione della morte. A decine venivano giovani sacerdoti, negli ultimi giorni del suo male terminale, a interrogarlo negli occhi, con interrogativi muti e eloquenti insieme. A tutti i suoi occhi rispondevano con un sorriso.
Sì, è stata questa l’ultima donazione di don Italo. Smitizzare il terrore della morte, riconciliarci con la ragione ultima, inconoscibile, della fine della nostra vita, aiutarci – ancora una volta con l’esempio, non con le parole – ad affrontare con lo sguardo fermo la prova suprema che aspetta, alla fine, ciascuno di noi. Anche la prova suprema è stata vissuta da lui, nei suoi ultimi brevi e lunghissimi 50 giorni dalla rivelazione del suo male, come un’esperienza di condivisione della condizione di chi soffre, di condivisione della sorte del Figlio dell’Uomo. (Corrado Calabrò)
Avviata la causa di beatificazione di don Italo
Don Italo Calabrò, sacerdote reggino, nato nel 1925 è scomparso nel 1990, stroncato da un tumore.
“All’improvviso, nel mese di aprile 1990, il Signore mi ha chiaramente avvertito che la mia giornata volgeva rapidamente al declino”: con queste parole don Italo iniziò il suo testamento spirituale scritto il 9 giugno 1990, pochi giorni prima della sua morte.
Don Italo ha vissuto il suo sacerdozio a servizio totale di Cristo, della sua Chiesa, dei poveri. È stato educatore e insegnate nel Seminario Diocesano, assistente dei giovani in Azione Cattolica e poi degli uomini cattolici (FUIC), segretario e direttore dell’Ufficio amministrativo diocesano, cerimoniere del Capitolo Cattedrale, viceparroco e, dal 1964, sino all’ultimo istante della sua vita, parroco di San Giovanni di Sambatello, dove dispose di essere sepolto.
Ha collaborato con mons. Nervo alla nascita di Caritas Italiana. Don Italo fu anche attivo nell’avvio dell’azione Caritas nella sua Diocesi di Reggio Calabria-Bova, di cui è stato vicario generale, prima con mons. Ferro e poi con mons. Sorrentino, e «ha speso la sua vita interamente nel servizio e nella carità, verso chiunque avesse bisogno, soprattutto i più poveri, con un attenzione particolare ai giovani» come ricorda la stessa Diocesi che ha organizzato una serie di iniziative in sua memoria.
La sua testimonianza vive ancora nelle opere concrete che ha lasciato, come il centro Comunitario Agape e la Piccola Opera Papa Giovanni per l’accoglienza dei dimessi dall’ospedale psichiatrico e dei giovani con disabilità. «Don Italo – ricorda ancora la Diocesi di Reggio Calabria-Bova – si è impegnato per la promozione dell’uomo e per la pace, sostenendo il servizio civile come impegno alternativo alla violenza, operando accanto a grandi preti, come mons. Pasini, ma ha anche stimolato fortemente il coinvolgimento dei laici».
Lo scorso ottobre la Conferenza Episcopale Calabra ha dato il placet per l’inizio della causa di beatificazione di don Italo Calabrò.