di VINCENZO VITALE – Viandante, tu entri in una città morta. In questa città la partitocrazia ha ucciso la democrazia”. Così un cartellone sui muri di una casa di Santa Caterina ai tempi del suo Granducato. Si sintetizzava in due frasi il comune sentire reggino: se la prima oggi suona retorica, la seconda ha la forza di esprimere “spirito del tempo”.
La partitocrazia uccide la democrazia: il concetto, posto dall’anonimo cartellonista nel 1970, diviene di scottante attualità per tutti gli italiani solo quando Tangentopoli nel 1992 pone la pietra tombale sulla Prima Repubblica. Oggi si può scorgere in quegli anni l’abbrivio della deriva involutiva che avrebbe portato il sistema alla sua implosione: gestione del potere fatta di accordi partitici nascosti e trasversali, operazioni occulte e spartitorie, muri di gomma e false aperture all’ascolto, obliqui clericalismi e ipocriti ideologismi.
Vi è un’altra espressione utile a decodificare il comune sentire di quei giorni: ha un autore, Antonio Di Terla, citato da Piefranco Bruni nel suo saggio introduttivo a “Reggio Calabria oltre la Rivolta” di Natino Aloi.
«La Rivolta di Reggio ha avuto tra i tanti meriti quello di aver anticipato la caduta delle ideologie». Non obbedendo a nessuna ideologia politica, i Moti del Settanta non sono stati capiti né dal centro né dalla sinistra, entrambi incapaci di concepire una sommossa popolare che non si rifacesse a questioni socio-economiche o di lotta di classe. Addirittura uno storico di sinistra spocchiosamente li definì come una lotta per un «pennacchio spagnolesco».
Non vennero capite le vere motivazioni della Rivolta, nonostante che alcuni inviati (Alfonso Madeo ed Egidio Sterpa, del Corriere della Sera; Francesco Fornari, de La Stampa) avessero già nei primi giorni evidenziato che: i Moti”non rispondevano a logiche precise, a pressioni razionali”; i sentimenti e gli stati d’animo di quei giorni “si ritrovavano a tutti i livelli, senza distinzione di classe sociale, di colore politico, di età”; partecipavano tutti i cittadini, “borghesi, proletari, giovani, vecchi, comunisti, neofascisti, socialisti, democristiani, repubblicani”.
I Moti anticipatori della Storia? Basta identificare nella loro spontaneità i fermenti di un nuovo modo di concepire un’insurrezione, quello che avrebbe portato alla fine del Secolo Breve e alla caduta del Muro di Berlino, icona delle opposte ideologie.
Ai primi anni Settanta, ancora immersi nell’analisi dei Moti del Quartiere Latino (maggio 1968) e di Praga (agosto 1968), gli analisti politici non seppero cogliere la novità di quanto stava accadendo in fondo allo Stivale: la rivendicazione della propria identità e il rifiuto dell’asfissiante cappa del decisionismo verticistico.
Fu così che si etichettò come lotta per un “pennacchio spagnolesco” quella che invece fu una spontanea, forse incosapevole, “romantica” anticipazione dei movimenti localistici e di rivalutazione delle singole identità territoriali che, in opposizione al trend globalizzante “illuminato”, oggi fanno parte a pieno titolo del dinamismo sociale postmoderno. (vv)