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Saverio Strati

Saverio Strati (1924-2014): un ricordo nel giorno del compleanno (16 agosto)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – «Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi». 

Così scriveva Pasquino Crupi riferendosi a Saverio Strati, uno dei più grandi narratori del ‘900 italiano. Il “Calabrese” come lo stesso Strati si definiva. Perché nonostante il viaggio, la Calabria l’aveva portata sempre con sé. E la gente di Calabria viveva dentro di lui come il cuore nel petto dell’uomo. Lì vi conservava non solo i ricordi, ma i volti della sua gente, le storie degli uomini, i racconti dei contadini. Tutto ciò che serviva per sentirsi ancora vivo in quella parte di mondo da cui non era mai riuscito completamente a distaccarsi.

Insieme a Francesco Perri, è proprio Strati uno dei più grandi cantori dell’emigrazione. Scrisse di gente in viaggio ma anche di viaggi in macchina. Quelli che lo riportavano, spesse volte, alle sue origini, e dove ad attenderlo, vi erano gli studenti delle scuole calabresi, gli insegnanti, i presidi, ma soprattutto la casa e il cuore sempre aperti degli amici. C’era la collinetta di Cola nella sua Sant’Agata, e soprattutto la maestà dello Jonio, quel mare che tutte le volte che da Ponte Vecchio guardava l’Arno, gli tornava alla mente e piangeva.

Strati nasce a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924.

Oggi sarebbero stati 97 anni. 97 anni di storia, di metodo, di racconti, di sacrificio, di destino, ma soprattutto di Sud. 97 Meridioni d’Italia, e 97 anni di Calabria intima, intensa, e resistente.

Strati esordisce nella sua carriera di scrittore, con un racconto. E oggi, è proprio con un racconto, animato dai suoi personaggi più amati, che al maestro vanno i miei più affettuosi auguri di buon compleanno. Egli è così che avrebbe voluto essere ricordato dai “suoi” calabresi.

«Quell’aprile, erano già passati sette anni. Sette lunghi anni. Sette esatti dalla morte del maestro.

Eppure sembrava  non importare a nessuno di quel lutto che, sette anni prima, lo aveva deposto, con i piedi innanzi, in una Firenze lontana e bellissima. O forse nessuno ancora si era accorto di quella dipartita silente, per la quale Strati aveva raccomandato silenzio, bandendo ogni forma di chiasso.

– Certo! – disse Cicca – Chi non si accorge della vita di certi uomini, non potrà accorgersi mai della loro morte. E aveva ragione. Cicca aveva proprio ragione. Ella aveva conosciuto il maestro. Da lui aveva imparato che cos’è una “Teda”. E l’aveva accesa per illuminare la notte di Terrarossa. Avevano percorso assieme la via di Africo. A Campusa, aveva visto risorgere l’anima delle case dei poveri cristi accasciate al suolo durante la sibilante tempesta d’acqua del ’51, e proprio nelle parole del maestro. A lui, Cicca, scandagliava spesso la memoria. E imparava. A conoscere il paese, il Sud, sé stessa. Imparava a conoscerlo, Saverio Strati.

– Aveva paura, il maestro, Michele. Paura di non riconoscere il paese tutte le volte che ritornava. Timore assai, di non essere riconosciuto.

– Ma come può un uomo così non essere riconosciuto, eh Cicca?

– Può Michele, eccome se può! Un uomo così, può non essere riconosciuto. Quando un uomo così viene considerato codardo, o quando inopportunamente viene definito ’mpamu, può. Fidati che può. Può non essere riconosciuto.

Cicca mi fece venire la pelle d’oca. Parlava come se il maestro fosse dentro di lei. Le vivesse dentro le carni. Nel ticchettio del cuore.

– Ma non è onesto… – continuando, con gli occhi tanto lucidi e cupi – non è onesto dimenticarsi di certi uomini, né vivi né morti – disse.  

Saverio Strati è dannoso dimenticarlo. Ha scritto la storia del Sud denunciando lo stato crocifisso in cui questo è sempre stato sepolto vivo. Ha parlato degli ultimi condannando i primi. Ha raccontato di uomini e non di numeri. Ha avuto coraggio, il maestro. E il Sud non ha coraggio, Michele. Se un giorno dovesse mancarci la terra sotto i piedi, che faremo noi? Che faremo noi, eh Michele?

– Non lo so che faremo. Dimmelo tu, Cicca. Che faremo?

– Moriremo! Ecco che faremo. Moriremo scoraggiati. Con basti carichi d’ignoranza, moriremo, Michele. Moriremo senza neppure sapere se siamo mai appartenuti a una pagina di storia.

– Quale storia, Cicca? Quale storia?

– La storia che il maestro Saverio ha scritto e noi non abbiamo letto. La storia del Sud, Michele. La stessa del maestro, quella del contadino letterato, del muratore della scuola. Il racconto dell’uomo calabrese, il maestro di Cicca. Sì, il mio maestro. Il mio maestro, Michele, capisci?

E nel giorno della morte, quel preciso giorno, nessuno oserà accenderci neppure una teda. Niente luci quaggiù. E sarà dannata l’anima di chi non ha imparato. Imparato dai libri. Dai suoi libri.

– Cicca, tornerà in paese il maestro, prima o poi?

– Lo sai bene, Michele, che dopo la morte non torna mai nessuno

– Già!, hai ragione, Cicca. Dopo la morte non torna mai nessuno.

– Ti sarebbe piaciuto conoscere il maestro Saverio, eh Michele?

– Sì, Cicca. Mi sarebbe piaciuto molto.

Cicca mi prese per mano, e correndo mi portò fino a Piazza Libertà. Nella ruga grande, erano disposte a file una serie di piccole case. Infilando la chiave nella serratura della porta di quella più giallognola: – accomodati! – mi disse, ed entrammo. Ci venne difronte una scaffalatura in legno carica di libri. Cicca tese la mano, e: – Ecco il maestro, Michele! – continuò. 

Non dissi verbo. In paese non v’erano tanti uomini, per quanti libri mi trovai innanzi.

Ogni libro portava il suo nome: Strati, Saverio Strati, Strati Saverio, o Saverio soltanto.

Cicca era commossa. Accarezzava le copertine di quei libri come fossero visi di bambini.

– Allora, Michele, che te ne pare?- mi chiese.

I suoi occhi brillavano. Una luce immensa li penetrava inesorabilmente.

Aspettava che le dicessi qualcosa. Che parlassi, seppur a modo mio, ma  non ebbi la forza. Era come se a un tratto mi mancasse il coraggio delle mie azioni.

– Allora, Michele?- mi chiese lei. – Che cosa vedi? – insistette, senza mai darsi per vinta. 

Tacqui un’altra volta. E nel mentre che un bacio di Cicca finì per raggiungermi la bocca, finché ero ancora in tempo, affinché non fosse troppo tardi: – Chapeau, maestro! Buon compleanno».

I libri di Saverio Strati, sono tutti una buona opportunità di crescita. Un lampo di genio capace di proiettare a chiunque ne faccia uso, un ottimo futuro. Perché è lì, tra quelle pagine che sedimenta il senso dell’appartenenza. Sono libri e sono villaggi viventi di autentica memoria. Una memoria che ha buone probabilità di diventare collettiva quando, leggendo, una comunità ha voglia e coraggio di sommare un certo numero di memorie individuali. (gsc)