AL SUD L’ORA DELLA DISUBBIDIENZA CIVILE
PER CONTRASTARE L’AUTONOMIA PADANA

di MIMMO NUNNARINon è vero che non è successo niente in queste ultime  elezioni europee. Non è vero che i risultati rispecchiano i sondaggi, e che  tutti – come prassi italiana – hanno vinto, o meglio hanno detto di aver vinto, meno Conte e i 5 Stelle, per i quali è evidente che, insieme a candidature deboli, si è esaurita quella spinta propulsiva avente come riferimento ideologico il “Vaffa” di Beppe Grillo.

Il voto del Sud non è stato ben e attentamente analizzato da politici e analisti, ancor meno dai media nazionali, se si eccettua una  seria riflessione di Isaia Sales su la Repubblica, che considera il voto meridionale, ma soprattutto il non voto – la cosiddetta astensione – come un avvertimento per Meloni e un insieme di suggerimenti per Elly Schlein. Nel Sud e nelle isole il voto va detto con chiarezza che non premia la maggioranza di Governo.

Non lo premia perché questo Governo non ha un programma per il Sud. Continua a togliere risorse al Sud e assecondare progetti penalizzanti: mortali per il Meridione, come l’Autonomia differenziata. Che si potrebbe pure fare, ma solo il giorno in cui le disuguaglianze tra Nord e Sud saranno completamente eliminate, il gap colmato. 

C’è,  per la coalizione di centrodestra, solo il dato super positivo di Forza Italia in Calabria che, però, oltre che rafforzare la leadership del presidente della Giunta regionale Roberto Occhiuto, lo carica di responsabilità. 

Se Forza Italia non farà fallire il progetto dell’Autonomia differenziata, perché i tempi come detto non sono quelli giusti, il credito dell’elettorato meridionale, calabrese in particolare, sfumerà in un battibaleno e a Occhiuto alla prima occasione sarà presentato il conto, e anche ad Antonio Tajani che nel Sud ha trovato la sua roccaforte elettorale: il 17, 9 % mentre in Lombardia (casa madre Forza Italia) è al 9,3 %.

Quel che non è stato analizzato abbastanza o quantomeno lo si è fatto con vecchie consunte categorie interpretative è che il dato dell’astensionismo non può essere archiviato col solito refrain della disaffezione, dell’indifferenza, della nausea verso il sistema politico in declino, della mancanza di fiducia nei partiti. Merita, invece l’astensionismo meridionale, una specifica riflessione, se solo il 43,73% ha votato nel Sud continentale e il 37,31% nelle isole. 

Che significa? Bisogna chiederselo scendendo in profondità nel sentimento e nell’umore dell’elettorato, e tentare di capire. Più che astensione, intesa come atteggiamento tradizionale del partito del non voto, questa volta è altro. È reazione, non è passività. È disubbidienza: l’inizio di una disubbidienza civile al Sud che può assumere in prospettiva anche forme tra le più imprevedibili e disparate [esplosive] che possono portare a perdere la pazienza nella popolazione meridionale. Come auspicava nella sua ultima intervista, sul tema del Mezzogiorno, il sociologo Domenico De Masi: «Il Sud finora è stato fin troppo paziente, dovrebbe invece avere il coraggio di perderla la pazienza». 

L’astensione delle europee intesa come disubbidienza è forse l’inizio di una fase nuova in cui il Sud comincia a perdere la pazienza? Non lo sappiamo, ma i partiti debbono cominciare a tener conto che nel futuro del Sud potrà esserci la disobbedienza civile, come forma di difesa dei diritti da lungo tempo [un secolo e mezzo] negati. Obbedire, in una società democratica, è prima di tutto un dovere. Anche votare è un dovere, non un obbligo però, intendiamoci.

Tuttavia, ci sono situazioni in cui la disobbedienza diventa un valore anche se in qualche caso specifico va contro la legge. Disobbedire, contro il progetto padano di Autonomia differenziata in qualunque forma meno che violenta è un valore, una forma di rispetto per la Costituzione finora non ancora applicata alla stessa maniera in tutti i territori nazionali. Per ora la violenza, discutendo sul tema vitale dell’unità del Paese la usano in Parlamento: una cosa indecorosa, testimonianza del livello basso raggiunto dalla classe parlamentare. 

Se guardiamo alla storia troviamo casi di disobbedienza che sono diventati “legittimi”, agli occhi del mondo, per giuste cause. Si pensi alle “disubbidienze” di Gandhi o di Martin Luther King. O alle disubbidienze al nazifascismo, alle leggi razziali, ai regimi coloniali.  Sono tutti esempi fulgidi di chi ha disubbidito alle regole, e non si fa fatica a comprendere le ragioni di quelle disubbidienze. 

Rimane da stabilire, e non è cosa di poco conto, in che modo si possa valutare la consistenza e la bontà di una causa per cui disobbedire. Sembra ovvio che la cosa prioritaria sia verificare che la disobbedienza abbia una buona motivazione sostanziale: ovvero che sia fatta per una ragione valoriale significativa.

Domanda? Disubbidire per respingere il progetto di Autonomia differenziata ha una buona base di motivazione sostanziale? La risposta che viene dall’astensionismo meridionale sembrerebbe dire di sì. (mnu)

AL SUD IN TROPPI “DISERTANO” IL VOTO E
I PARTITI PENSANO SOLO A PERCENTUALI

di DOMENICO TALIAIn un anno particolare nel quale una parte significativa della popolazione mondiale – quasi tutta quella che vive nei paesi democratici – viene chiamata alle urne, un tema non secondario che sembra interessare pochi è quello dell’ampio fenomeno dell’astensione dal voto.

In Italia e in diverse altre nazioni, il partito degli astenuti è sempre più forte e la democrazia rappresentativa diventa così sempre più debole. Meno rappresentativa e dunque meno democratica. Infatti, il distacco tra i cittadini e il potere si dilata sempre più e assume valori numerici da disastro sociale. Per i latini abstinere significava “tenersi lontano” da qualcosa, oggi il verbo astenersi è sempre più sinonimo di “non voto”, del tenersi lontani dalla politica, dalla democrazia che non si avverte come una forma di governo che risolve i problemi delle persone.

Percentuali di popolazione molti grandi vivono da separati in casa con coloro che li governano e decidono molte cose che li riguardano. Le parole dei politici sono sempre meno ascoltate dai cittadini. La sfiducia cresce sempre più e l’inutilità dell’espressione del voto conquista sempre più ampi settori di elettori che non sono interessati ad eleggere nessuno.

Se misuriamo la credibilità della classe politica con il termometro delle astensioni dobbiamo necessariamente concludere che è molto bassa. Enzo Jannacci cinquanta anni fa prendeva in giro quelli che votavano scheda bianca “per non sporcare”, oggi abbiamo tantissimi (la maggioranza) che non vota forse per non sporcarsi, perché non vuole avere a che fare con la politica e con i suoi rappresentanti. Senza fiducia non c’è voto e senza voto una società democratica va in frantumi.

Quest’anno l’affluenza alle elezioni per il parlamento europeo è stata complessivamente del 51% e in Italia si è attestata al 49,7%, cinque punti percentuali in meno rispetto alla precedente tornata elettorale del 2019, quando la partecipazione italiana al voto era stata del 54,5%. In questo dato complessivo molto negativo si notano situazioni ancora più preoccupanti. Al Sud, ad esempio, l’astensionismo ha toccato livelli di allarme grave. In Sardegna e in Sicilia, ad esempio, si è registrato una percentuale di votanti inferiore al 40%, mentre in Calabria è stato appena superato quel valore. Una grande maggioranza dei cittadini, che va oltre il 60%, decide di disertare il voto. Diverse decine di milioni di persone si tengono lontano dalla politica e sono indifferenti a chi li amministrerà, tanta è profonda la sfiducia nelle èlite politiche.

Siamo di fronte a un diritto, quello del voto, che si considera inutile e lo si rifiuta esercitando un altro diritto, concesso in democrazia, che è il diritto di non votare. Sono questi due diritti che hanno valenze diverse ma che quando si esercitano in quantità equivalenti generano un conflitto difficile da sanare, uno stato di grave fragilità per i fondamenti della democrazia. Le ragioni di questo scenario sono diverse (sociali, ideologiche, economiche, di scarsa autorevolezza, di corruzione politica), ma tutte insieme hanno aperto una voragine nel meccanismo della rappresentatività. 

Chi ha veramente a cuore la tenuta dei sistemi democratici e ha la voglia di recuperare alla democrazia questa grande massa di astenuti?

I partiti sembra non siano realmente interessati a farlo. Ma viene anche da chiedersi nel caso lo volessero, se sono in grado di farlo. C’è da essere molto scettici quando la Premier, a chi le ha chiesto le possibili ragioni dell’ultimo dato degli astenuti alle elezioni europee che ha superato il 50%, ha risposto che la colpa è dell’Europa che i cittadini sentono lontana. In realtà i cittadini sentono lontana la politica e questo arrampicarsi sugli specchi con una retorica sempre “pro domo mea” acuirà il problema invece di risolverlo, così alle prossime elezioni gli astenuti aumenteranno.

Viviamo ormai nella democrazia della minoranza. Sarebbe il caso di prenderne atto, far suonare le sirene di allarme e correre ai ripari. Avviare iniziative di ascolto, discussioni pubbliche, progetti di reale coinvolgimento dei cittadini, ma i partiti sembrano non avvertire questa necessità, preferiscono preoccuparsi soltanto delle loro percentuali (valori asettici che nascondono la realtà dei valori assoluti dei votanti che diminuiscono sempre più anche per tanti partiti le cui percentuali sono aumentate) e proseguire nelle loro polemiche, come fosse tutto nella normalità.

La democrazia così indebolita si estenua e si espone facilmente ad attacchi esterni (ad esempio dai regimi totalitari come quello di Putin). La democrazia reale rischia di diventare un guscio vuoto, pur essendo la forma di governo tra le migliori che gli esseri umani hanno saputo inventare. (dt)

[Courtesy il Quotidiano del Sud]

INFRASTRUTTURE SÌ, MA RITARDI INFINITI
ASPETTANDO LE COMMISSIONI DI VIA E VAS

di ERCOLE INCALZA – La data dell’evento legato al Giubileo si conosceva da ben 25 (venticinque) anni eppure ci si è ridotti all’ultimo anno per dare inizio ad alcuni interventi; allo stato delle opere programmate sono in fase di realizzazione solo il 30% e di questo 30% l’avanzamento accettabile dei lavori, ad otto mesi dall’avvio delle attività del Giubileo, riguarda solo un 27%.

In realtà per il Giubileo si ripete una vera tradizione storica: si prevedono tante opere, se ne annunciano tante e alla fine non se ne fa nessuna o pochissime. I pellegrini saranno tanti, saranno accolti male e i cittadini romani soffriranno, per un arco temporale di due anni (un anno è infatti quello che precede l’evento perché si cerca di realizzare alcune opere); ripeto trattasi ormai di una abitudine consolidata.

Invece da anni sapevamo che il 24 maggio 2024 sarebbe scaduta la Commissione del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica preposta alla Verifica dell’Impatto Ambientale (Via) ed alla Valutazione Ambientale Strategica (Vas). Sì, scade fra un mese la Commissione cui spetta la valutazione dell’impatto ecosostenibile di tutte le opere infrastrutturali strategiche ed ordinarie; d’altra parte questa scadenza non avviene in un momento particolare della fase realizzativa delle infrastrutture del Paese; non è infatti in corso un Piano Nazionale di Riprese e Resilienza le cui opere vanno realizzate entro il 30 giugno del 2026; mica abbiamo dei ritardi sulle opere del Fondo di coesione della Unione Europea anzi dopo quasi quattro anni abbiamo già speso lo 0,7 (zero virgola sette) per cento; mica ci sono problemi autorizzativi di natura ambientale sull’impianto siderurgico dell’ex Ilva di Taranto o su altri impianti di produzione energetica. Il nostro Paese in fondo non ha scadenze, non ha emergenze e quindi il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, in particolare la Vice Ministra Vannia Gava può permettersi il lusso di dichiarare: «Non ci sono tempi risicati ci sono i tempi necessari al rinnovo di una Commissione che andava a scadenza naturale».

Allora entriamo nel merito, cercando di superare questa fase davvero kafkiana e cerchiamo di capire e di rispondere ad una serie di “perché” e, allo stesso tempo, sforziamoci di individuare la serie di interventi che vengono praticamente bloccati nell’avanzamento istruttorio a causa di questa stasi temporanea dei lavori della Commissione (una stasi che nel migliore dei casi supererà un arco temporale di almeno otto – nove mesi).

In merito ai “perché”, ne prospetto solo tre: Perché non si è fatto ricorso all’istituto della “proroga”? La passata Commissione era stata prorogata non ricordo se per dieci o, addirittura, dodici anni.

Perché un anno fa, sì questo Governo, non ha anticipato le operazioni mirate al cambiamento della Commissione in modo da disporre, già il 25 maggio 2024, della nuova Commissione evitando così un blocco che come ho detto prima supererà otto – nove mesi (a mio avviso oltre un anno).

Perché non si è fatto ricorso ad un provvedimento “ponte”, in cui per alcune opere, almeno quelle inserite nel Pnrr o quelle con scadenze obbligate, rimanesse in funzione l’attuale Commissione e le altre sarebbero state esaminate dalla nuova Commissione.

In merito alle emergenze ed ai danni, elenco solo le opere che subiranno praticamente una stasi e, in molti casi, rischieranno di perdere le risorse assegnate sia con il Pnrr che con il Fondo Coesione della Unione Europea: Il Ponte sullo Stretto di Messina; La diga foranea di Genova; Lotti dell’autostrada del Brennero, Il nodo autostradale di Bologna; L’asse ferroviario ad alta velocità Torino – Lione; L’asse ferroviario ad alta velocità Genova – Milano (Terzo Valico dei Giovi); La Gronda autostradale di Genova; L’asse ferroviario ad alta velocità Verona – Vicenza – Padova; L’Hub portuale di Ravenna; L’asse ferroviario Taranto – Potenza – Battipaglia; L’asse viario Taranto – Crotone – Reggio Calabria (106 Jonica); L’asse autostradale Pontina (tratto Cisterna – Valmontone).

Mi fermo qui, dopo la dodicesima ce ne sono almeno un altro centinaio meno importanti; tuttavia il blocco per alcune opere porta, addirittura, alla perdita dello stanziamento comunitario, per altre sicuramente produce un danno non di migliaia di euro ma sicuramente di milioni di euro. E tutto questo non è una eredità del passato Governo ma di questo Governo che ormai è operativo da oltre diciotto mesi e la responsabilità, in particolare, è solo di un Dicastero quello dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.

Mi soffermo un attimo sull’intervento relativo al Ponte sullo Stretto di Messina: e davvero grave che dopo aver rispettato scadenze inimmaginabili quali: la ricostituzione della Società dello Stretto nella Legge di Stabilità 2023, la approvazione di un apposito Decreto Legge per la realizzazione dell’opera e l’inserimento nella Legge di Stabilità 2024 della copertura finanziaria, tutto si fermi per la mancata nomina, nei tempi giusti, di una Commissione; dico solo che tutto questo è davvero strano e, a mio avviso, prende corpo un grande e incomprensibile paradosso: un Ministro delle infrastrutture e dei Trasporti della Lega, entusiasta della infrastrutturazione organica del Paese, viene ostacolato da una Vice Ministra dell’Ambiente, pure lei della Lega.

Un esempio classico di fuoco amico, quel fuoco amico che, da sempre, mette in crisi la crescita e lo sviluppo del Paese e, soprattutto, delude tutti coloro che ancora possiedono una coscienza dello Stato. (ei)

SCUOLA MEDIA, GLI ESAMI A DATE VARIABILI
E A BREVE ARRIVA IL TEST DELLA MATURITÀ

di GUIDO LEONECi siamo. Con la chiusura dell’anno  scolastico fissata per sabato 8 giugno arrivano le vacanze lunghe per i 73.300 e più allievi delle  scuole di ogni ordine e grado della provincia di Reggio Calabria . L’ultima campanella non suonerà, però, per i 9.800 piccoli allievi della scuola dell’infanzia, che termineranno le loro attività educative il prossimo sabato 29 giugno. 

Sarà vacanza per i più fino al 16 settembre 2024, inizio del nuovo anno scolastico, tre mesi pieni lontani da compiti, interrogazioni e libri, anzi no qualche buona lettura è sempre consigliata per arricchire il lessico dei nostri ragazzi che, come si sa, difetta alquanto secondo i risultati delle ultime prove Invalsi. Però, non per tutti sarà così. Per i ragazzi di terza media la fine delle lezioni di fatto è sinonimo di esami di Stato. Per i quattordicenni le vere vacanze scatteranno il 29 giugno, ultimo giorno utile fissato dal Ministero della P.I. per gli esami di Stato. I diciottenni, invece, saranno alle prese con gli esami almeno fino a metà luglio.

Intanto, ora è tempo di scrutini e i prossimi giorni saranno dedicati nelle scuole alle valutazioni finali:scrutini per le ammissioni alla classe successiva e agli esami di Stato.

L’anno scorso il totale degli alunni reggini ammessi a sostenere gli esami di licenza media fu del 98,8%. È presumibile che anche per il corrente anno il dato sarà eguagliato.

A cominciare, dunque, per primi saranno i cinquemila  alunni di terza della scuola secondaria di primo grado, cui si aggiungeranno un po’ di candidati esterni, che affronteranno la loro ultima fatica, il conseguimento della cosiddetta ‘minimaturità’. A seguire i quasi 5.300  e più maturandi circa delle scuole secondarie superiori che inizieranno i loro esami di stato mercoledì 19 giugno.

La minimaturità

La valutazione rappresenta da sempre un momento di particolare rilevanza, non solo perché conclude un ciclo scolastico, ma perché al tempo stesso dà l’avvio ad un nuovo percorso di formazione culturale e personale per ciascuno studente.

L’ammissione agli esami di terza media compete al Consiglio di classe con giudizio di idoneità (espresso in decimi) per gli alunni che hanno ottenuto, con decisione assunta a maggioranza dal consiglio di classe, un voto non inferiore a sei decimi in ogni disciplina, voto sul comportamento compreso.

I requisiti di ammissione all’esame finale di terza media sono i seguenti: avere frequentato almeno tre quarti del monte ore annuale personalizzato secondo regolare ordinamento della scuola. Fanno eccezione situazioni legate alle particolari condizioni epidemiologiche.

E poi non essere incorsi in sanzioni disciplinari molto pesanti.

Infine, avere partecipato alle prove nazionali di italiano, matematica e inglese predisposte dall’Invalsi, ma la valutazione delle prove non inciderà sul voto dell’esame di terza media. La votazione tiene conto del percorso scolastico compiuto. 

L’eventuale non ammissione è deliberata a maggioranza. Così come nel caso di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline, il consiglio di classe può deliberare, con adeguata motivazione, la non ammissione all’esame conclusivo del primo ciclo.

Il calendario degli esami

Tutte le prove si devono sostenere nel periodo di tempo compreso tra l’ultimo giorno di scuola e il 29 giugno. Diversamente da come accade per l’esame di Stato conclusivo dell’ultimo ciclo di studi le date dell’esame di terza media 2024 non vengono stabilite dal MI, ma in autonomia da ogni singola scuola. Infatti abitualmente gli esami iniziano dopo gli scrutini ed è presumibile che la riunione preliminare di insediamento delle commissioni avvenga il giorno successivo.

Tre prove scritte e un colloquio

Per l’esame del primo ciclo sono previste tre prove scritte, una di italiano e una sulle competenze logico-matematiche; la terza di lingue articolata in due sezioni(una relativa all’inglese  e una alla seconda lingua straniera studiata). Le tracce delle prove verranno predisposte dalla commissione in sede di riunione preliminare.

La prova scritta di italiano dovrà accertare la padronanza della lingua, la capacità di espressione personale, il corretto uso della lingua e la coerente e organica esposizione del pensiero da parte dei candidati e fa riferimento alle seguenti tipologie: testo narrativo o descrittivo, testo argomentativo, comprensione e sintesi di un testo.

Per la prova di matematica ogni traccia preparata dai docenti prevede problemi su due diverse tipologie di compito: problemi matematici con una o più richieste e quesiti a risposta aperta. Gli argomenti del compito sono quelli trattati durante l’anno, come: numeri; spazio e figure; relazioni e funzioni; dati e previsioni. Le tracce potranno inoltre fare riferimento anche ai metodi di analisi, organizzazione e rappresentazione dei dati, caratteristici del pensiero computazionale.

Infine, la prova di lingue comprende domande ed esercizi di inglese e dell’altra lingua straniera studiata durante l’ultimo anno. Le tracce che la commissione può sottoporre ai candidati sono diverse:dalle lettera all’amico ad un questionario di comprensione del testo, dalla sintesi di un documento alla produzione di un dialogo.

L’ultimo step degli esami è la prova orale è quella più temuta dagli studenti che, in quest’ultima fase, verranno interrogati dall’intera sottocommissione d’esame che valuterà le competenze e le abilità acquisite dai candidati ponendo attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio. Gli alunni verranno poi interrogati sul programma svolto durante l’anno e sulle competenze acquisite nell’ambito degli studi di Educazione Civica.

La valutazione finale

Il punteggio dipenderà non solo dalle valutazioni ottenute nelle prove scritte e nell’orale, ma anche dal voto di ammissione allesame di terza media. I l punteggio finale sarà calcolato come la media tra il voto di ammissione e la somma delle valutazioni ottenute nelle prove, con l’arrotondamento per eccesso nei casi in cui i punteggi decimali siano pari o superiori a 0,5.

La lode è un riconoscimento speciale riservato solo a coloro che ottengono un punteggio perfetto, ovvero dieci su dieci, all’esame. Tuttavia, la decisione di assegnare la lode sarà presa dalla commissione d’esame, tenendo conto del merito dell’aspirante. Questa distinzione viene solitamente riservata agli studenti che si sono distinti durante i loro tre anni di scuola media. In generale, per superare con successo l’esame di terza media, gli studenti dovranno ottenere un punteggio pari o superiore a 6/10.

Inoltre, a tutti gli studenti candidati interni che supereranno l’esame di Stato verrà rilasciata la certificazione delle competenze.

Come è andata lo scorso anno

Stabile, invece, il numero dei ragazzi che hanno  superato l’esame: 99,8%.La distribuzione percentuale dei diplomati all’esame conclusivo del I ciclo per voto è stata la seguente:il 12,4 dei candidati ha avuto il sei, il 25,4% il sette, il 26,4% l’otto, il 21,4% il nove, il 9,6% il dieci e l’8,9% il dieci e lode. Da sottolineare che per quest’ultima votazione la distanza dalla media nazionale che è stata del 5,5% è di ben 3,4 punti percentuali.

Il gap della Scuola Media

Per l’Istat i ragazzi che frequentano l’ultimo anno delle scuole di primo grado il 35% di loro arriva alle superiori con gravi insufficienze. Infatti, non raggiunge la sufficienza nelle competenze alfabetiche, riportando gravi difficoltà nella comprensione dei testi, mentre il 40,1% ha seri problemi con la matematica.

Tutti i test, scientifici e oggettivi, nazionali e internazionali, lo certificano. Il rendimento degli alunni della scuola dell’obbligo crolla nel passaggio dalla primaria alla secondaria di I grado, con ripercussioni negative sul biennio delle scuole superiori.

Le due aree principali , perciò ,su cui lavorare nell’immediato futuro sono gli apprendimenti in  italiano e matematica; è un gap territoriale che parte sin dalla e si accentua nella scuola media, il ventre molle o se vogliamo l’anello debole del nostro sistema educativo. 

La scuola media, una terra di mezzo, è da molti anni alla ricerca di una sua identità, attratta dalla scuola superiore (il piano alto della “secondaria”), scuola primaria ma poi richiamata alla comune appartenenza alla scuola di base (il c.d. “primo ciclo” dell’istruzione). L’alternarsi di diverse denominazioni (scuola – di volta in volta – media, secondaria I grado, del primo ciclo, di base) da l’imprinting a questa vera e propria sindrome pirandelliana, nella non risolta ambiguità della sua secondarietà – di accesso ai saperi formali e al pensare per modelli – o di completamento della formazione primaria, quindi di consolidamento dell’alfabetizzazione strumentale.

Occorre affrontare presto e con energia questa profonda crisi della scuola media, che da molti anni ha smarrito la propria identità e il senso della sua missione. Occorre ridarle una missione chiara aggiornando le sua offerta pedagogica e didattica, attraverso  un forte orientamento alla personalizzazione dell’insegnamento da realizzarsi attraverso un’estensione del tempo scuola con una vera “scuola del pomeriggio”. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

IL TRIONFO DELLA VICEPRESIDENTE PRINCI
MA HANNO VOTATO SOLO 4 ELETTORI SU 10

di SANTO STRATI – Con 84mila preferenze, la vicepresidente Giusi Princi trionfa e conquista il seggio di Strasburgo: la Regione perde un ottimo elemento, ma guadagna una presenza importante e significativa per l’Europa. Il consenso, inaspettato per l’ampiezza, premia qualità e competenza (merce rara di questi tempi) e non offre spazi a valutazioni discrezionali che prescindano dal merito. Se quando venne nominata VicePresidente da Occhiuto, le voci malevole la indicavano come “cugina di Cannizzaro” (come se ci fosse una sorta di inevitabile nepotismo), oggi, con un sorriso, si può dire di Cannizzaro che è “cugino” della VicePresidente. In altri termini, l’ex preside del liceo Scientifico Leonardo da Vinci, che ha inventato – tra le tante cose – il liceo biomedico che prepara l’accesso ai ragazzi che intendono studiare Medicina ha calcato le scene da protagonista conquistando simpatie e consenso.

È un segnale importante per un partito (Forza Italia) che in moltissimi davano per spacciato e che invece da queste elezioni rivela di avere una vitalità incredibile: significa voglia di centro, tradotto dal sentiment della gente, significa che contro gli estremismi e gli infantilismi di una politica sempre più distante dal territorio, c’è chi – da non politica – ha saputo non solo tessere una tela di relazioni e gradimento per le tante iniziative intraprese e le scelte di cultura, ma anche mostrare che la “politica del fare” è possibile e premia. Con buona pace di un’opposizione che si arrampica sugli specchi invece di produrre proposte alternative o complementari col solo fine del bene comune dei calabresi.

Non tutto quello che la Princi ha fatto merita un plauso incondizionato – sia chiaro – però un merito glielo deve riconoscere anche l’opposizione: la disponibilità al dialogo. La tentazione di superare schemi prefissati e guardare ai risultati, con l’ovvia predilezione per il merito.

Più volte si è detto che una terra dimenticata e trascurata come la Calabria avrebbe bisogno di intese trasversali, oltre lo schematismo dei partiti: bisogna rimboccarsi le maniche, dimenticando l’appartenenza politica, pur nel rispetto delle singole posizione e idee, e costruire insieme proposte e favorire realizzazioni a tutto vantaggio della comunità, afflitta, peraltro, da un astensionismo inarrestabile (hanno votato solo 4 elettori su 10 in Calabria).

La Calabria a questa tornata europea manda quattro suoi figli: dal prof. Pasquale Tridico, già Presidente dell’INPS mandato via dalla Meloni mentre stava rivoluzionando (in bene) l’Istituto di previdenza, che ha raccolto oltre 118mila preferenze, a Mimmo Lucano, già sindaco di quella Riace simbolo di accoglienza, con 76mila preferenze, fino all’europarlamentare uscente Denis Nesci che di preferenze ne ha prese 74 mila. Quattro pedine importanti per l’Europa che verrà e per la Calabria di domani e di dopodomani ma, soprattutto, degli anni a venire. (s)

DOPO LE ELEZIONI, QUALE EUROPA SERVE
PER LO SVILUPPO DI TUTTO IL MERIDIONE

di PIETRO MASSIMO BUSETTAQualche anno fa Giorgia Meloni affermava che Roma avrebbe tutte le carte in regola per essere capitale d’Europa. Ma la realtà è invece che il centro dell’Unione si è spostato verso Nord. 

Mentre i centri decisionali dell’Europa sono sempre più in realtà Berlino e Parigi, più che Bruxelles e Strasburgo. Ma forse per il Mezzogiorno che l’asse si sposti verso Nord è pure più conveniente, considerati i risultati acquisiti da 162 anni di governo romanocentrico.  

E infatti al Sud serve una governance meno nordista e disattenta alle sue problematiche. Al di là delle colpe degli scarsi  risultati acquisiti, non vi è dubbio che siamo di fronte a un fallimento delle azioni per il Sud. Di fronte a un Paese spaccato in due, economicamente e socialmente, che si avvia, con l’autonomia differenziata, anche verso una spaccatura normata costituzionalmente. 

Per questo la speranza che rimane è quella di più Europa. Perché accada quello che non si è verificato, e cioè quello  che potrebbe sembrare semplicissimo, di riuscire a dare i diritti di cittadinanza a una popolazione di 20 milioni di abitanti. 

Oggi che il Mediterraneo è ridiventato centrale, l’interesse sull’area diventa sempre più evidente, ma anche il pericolo che venga sfruttato soltanto senza che sul territorio rimanga nulla. 

Il concetto propalato di batteria del Paese va in questo senso. Pale eoliche che deturpano le bellissime colline di vigne, impianti solari che sostituiscono alle verdi colline grigie distese metalliche, impianti di rigassificazione a fianco delle Valle dei templi come nel passato la raffineria di Gela a fianco delle mura puniche. E in cambio il nulla in termini di occupazione. 

Forse l’Europa, ormai bloccata ad Est dalla guerra con la Federazione Russa, può diventare un interlocutore più attento e meno predatorio. 

Ma in realtà cosa chiede il Mezzogiorno alla Europa che sta rinnovando il suo Parlamento. La prima richiesta riguarda il controllo sulla destinazione dei fondi strutturali. Troppe volte essi sono stati utilizzati in Italia per sostituire la dotazione delle risorse ordinarie. 

Anche la destinazione dei fondi del Pnrr, che sembrava avesse l’obiettivo di ridurre i divari economici e quindi dovessero essere destinati ad aumentare la base produttiva, visti gli indicatori utilizzati per la distribuzione delle risorse, tasso di disoccupazione, popolazione complessiva e reddito pro capite, in realtà in buona parte andranno a finanziare l’equiparazione dei diritti di cittadinanza, perdendo di vista il vero problema del Sud che è il diritto al lavoro. Diritti che dovevano essere finanziati con le risorse ordinarie. 

Una seconda richiesta riguarda la sostituzione del disimpegno automatico con la sostituzione dei poteri, in modo da evitare la penalizzazione dei destinatari degli interventi.

È l’approccio utilizzato con il Pnrr che dovrebbe essere esteso a tutti i fondi strutturali. L’opportunità di collegare la erogazione delle risorse al raggiungimento di obiettivi meno aleatori e più quantitativi, come incremento del Pil e aumento del numero di occupati, è un terzo obiettivo. 

Per troppo tempo si è giocato con approcci del tipo sviluppo dal basso o investimenti a pioggia che, più che avere obiettivi di bene  comune, servivano   a soddisfare le clientele fameliche di una classe dominante estrattiva, affamata di risorse pubbliche. Un altro obiettivo importante per non penalizzare i territori delle realtà industrializzate, dove esistono aree a sviluppo ritardato, come in Italia,  é una armonizzazione europea della imposizione fiscale. Perché mentre una tassazione più favorevole può essere adottata più facilmente da Paesi piccoli come l’Irlanda, diventa più complesso per Paesi grandi che se vogliono adottarla solo per aree limitate rischiano di incorrere nell’accusa di concedere aiuti di Stato.      

Un’altra richiesta sarebbe quella di incrementare più possibile gli accordi di cooperazione con il Nord Africa facendo diventare Napoli e Palermo gli avamposti culturali del rapporto con i Paesi Arabi, considerato peraltro gli interscambi che nei secoli hanno caratterizzato le due sponde. 

Magari istituendo una Agenzia Europea per promuovere tali collegamenti e incrementando  i rapporti  nel settore della formazione, della sanità, della collaborazione ai grandi progetti infrastrutturali. 

Se l’idea è quella di evitare di continuare nei rapporti di colonizzazione predatoria, un simile intervento potrebbe essere non solo opportuno ma anzi indispensabile. E certo è più facile che tali collaborazioni possano localizzarsi in realtà frontaliere piuttosto che a Bruxelles o Helsinki. 

Se la vocazione mediterranea dell’Europa vuole diventare azione e non solo sfoghi di vento è necessario che il Mediterraneo ridiventi un lago che unisce e non un cimitero che divide. 

Ma una richiesta su tutte va soddisfatta; quella di chiarire  alla Commissione che i Paesi in Italia sono due, economicamente e socialmente. Allora molti blocchi che sono legittimi quando si parla di Francia di Spagna e oggi persino di Germania, per l’Italia, ancora profondamente divisa in due parti,  non devono valere. 

E per non rimanere nel vago e dimostrare l’assunto, basta verificare con cluster adeguati come le regioni meridionali, al di là di piccole differenze, si raccolgono per quanto attiene la maggior parte degli indicatori, come tasso di disoccupazione, reddito pro capite, export  pro capite, presenze turistiche per km quadrato, km di alta velocità, numero di posti in asili nido per popolazione, e potrei continuare per molte altre variabili, nello stesso nucleo. 

Cosi come accadrebbe per il Centro Nord. Situazione analoga non esiste in nessun altro  Paese europeo. Se viene accettato tale principio di conseguenza potranno essere adottate misure differenziate,  che per altri Paesi sarebbero inconcepibili. 

L’Europa ha un interesse estremo che le differenze territoriali diminuiscano tanto da finanziare con il debito comune il Pnrr, ma lo ha in particolare quando riguarda un territorio che se fosse uno Stato indipendente sarebbe il quinto per popolazione. Dopo solo Germania, Francia, Spagna, Italia del Nord e Polonia.  (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

EUROPA, UN VOTO IMPORTANTE E DECISIVO
MA RISCHIA DI VINCERE L’ASTENSIONISMO

di SANTO STRATI – Anche se i partiti, in via preliminare, hanno volutamente dato una valutazione modesta sull’importanza del voto europeo a cui sono chiamati ben oltre 370 milioni di elettori, in realtà questa consultazione ha particolare rilevanza. Soprattutto per il nostro Paese.

In primo luogo, al contrario di quanto sostiene Giuseppe Conte (M5S), è un test importante per il Governo e – se vogliamo – una misura precisa di distacco tra la Meloni e la Schlein. Difatti, stasera, quando cominceranno gli exit-poll e domani quando avremo le cifre del voto, sarà evidente che il “referendum” destra-sinistra avrà vincitori e vinti.

Il vero problema è, in realtà, un altro. Qualcuno ha sentito parlare di Europa durante questa campagna elettorale? Sì, vagamente, ma soprattutto in chiave partitica con lo spettro dei sovranisti a seminare timori sul trionfo del più becero nazionalismo, quando, in realtà i cittadini avrebbero voluto ascoltare dai leader – quasi tutti impegnati in prima persona a raccattare voti (tanto nessuno, a partire da Giorgia per finire alla Schlein, passando per Tajani, Calenda, Renzi e via discorrendo) ha la benché minima intenzione di andare a Bruxelles.

Non si pensi a una presa in giro dell’elettorato, che è molto più intelligente di quello che credono i politici, e ha immediatamente capito la mossa “acchiappa-voti” dei principali player del quadro politico italiano: la gente non va a votare per tante ragioni, prima di tutto perché delusa dalla politica e stufa di promesse date e poi mai mantenute, in lotta perenne (la stragrande parte) con i soldi che non bastano più e una povertà strisciante che sta insidiando il ceto medio. Hanno un bel dire che l’inflazione si è abbassata, sotto livelli apprezzabili: andassero i nostri amministratori, governanti, ministri a fare direttamente la spesa al supermercato. Da gennaio a oggi il cittadino medio ha visto aumentare i costi del 30-40-50 % (a essere generosi, per in verità qualche volta i prezzi sono raddoppiati). E il Governo in carica – come del resto tutti i precedenti – si trova a fare i conti della serva rosicchiando ove possibile sulla pelle, però, dei cittadini-sudditi (ed elettori), ma dimenticandosi di stanare i veri evasori e tagliare le spese inutili dei tantissimi enti a  loro volta fin troppo inutili.

Non si può giocare con mancette elettorali: una social card da 500 euro, da spendere a settembre, non basta nemmeno a fare una spesa decente di un mese, salvo a tagliare anche i generi di prima necessità. Il pane costa quanto le brioches, la carne è inavvicinabile per molte categorie di pensionati, il pesce nemmeno a parlarne, per non dire poi del latte, dei pannolini dei bambini, persino degli assorbenti intimi (sui quali è ritornata l’iva “pesante”, con buona pace dei buoni propositi di una politica a favore di donne e famiglie).

Se i nostri politici leggessero il Manifesto di Ventotene che un gruppo di intellettuali antifascisti, capitanati dallo straordinario Altiero Spinelli, scrisse nel 1941 con una visione di futuro formidabile, capirebbero che è quella l’Europa che gli italiani (ma non solo loro, bensì tutti i cittadini europei) sognerebbero di avere. Non un monumento stabile alla burocrazia che penalizza produttori e consumatori con ridicole imposizioni su dimensioni, formati, prescrizioni, etc, bensì una federazione di Stati in grado di esprimere, in unità, i valori fondanti del vivere civile, ovvero pace e libertà.

Due concetti in grande affanno da due anni a questa parte: il conflitto russo-ucraino non mostra soluzioni immediate e lo stesso si può dire per la “guerra” Israele-Hamas che ha colpito e continua a colpire palestinesi (e israeleliani)inermi che hanno soltanto capito quanto vale già la parola stessa “libertà”, senza la quale nessuna pace è possibile.

E l’Europa di fronte a questi due drammi che hanno già a dismisura riempito i cimiteri di vittime civili cosa ha fatto, cosa fa, cosa farà? Sarebbe stato utile per gli elettori ascoltare dai “contendenti” idee, programmi, progetti. Invece la campagna elettorale si è svolta nella più triste sceneggiata del voto: “se non vuoi la destra al potere vota a sinistra; se non vuoi far tornare la sinistra al potere vota a destra”. Elementare, direbbe monsieur de la Palisse, scompisciandosi dalla risate. Ma non c’è stato alcun confronto serio sui temi del vivere quotidiano, sulla necessità di affrontare in maniera seria la crisi della sanità (che non è nei guai solo  in Calabria), la crisi del lavoro che non c’è (per i nostri giovani laureati che se ne vanno all’estero o al Nord, per non tornare più), la crisi degli immigrati.

La scelta – discutibilissima – di inviare in Albania a nostre spese gli sventurati che s’avventurano nel Mediterraneo, privi di un qualsiasi permesso di soggiorno è certamente contraria ai principi di accoglienza e fraternità nei confronti dei profughi che la nostra Carta costituzionale, ha previsto. E pensare che con la stessa cifra prevista per la “deportazione” si potrebbero avviare programmi di formazione e avviamento al lavoro dei migranti, il cui numero autorizzato è sicuramente inferiore ai reali bisogni del Paese.

I migranti vanno considerati una risorsa, non un problema, e invece vengono trattati – quelli intercettati prima di poggiare piede in Italia – come carne da macello. Peggio delle infelici storie di schiavitù dei secoli scorsi che aiutano solo a giustificare il senso di pena per quei derelitti del Mediterraneo, ma nulla di più.

E l’Europa cosa ha fatto? Cosa fa, cosa pensa di fare a proposito dei migranti? Al di là delle volgari idee razziste di qualche imbecille che ha persino la faccia tosta di difendere, non c’è alcun piano programmatico, alcuna visione di aiuto.

La Calabria – lo abbiamo scritto tante volte – è stata un modello di inclusione e accoglienza con l’esperienza  (mai sopportata o supportata) di Mimmo Lucano.

Restiamo, come calabresi, un modello di fraterna accoglienza e di aiuto sincero nei confronti dei disperati che tentano la sorte affrontando un Mediterraneo che è sempre più un vergognoso e non più sopportabile cimitero di migranti, ma il Governo centrale malvede questo genuino slancio di generosità e di voglia di inclusione.

L’Europa, quella che uscirà dalle urne, domani mattina, richiede una visione che non pensi soltanto al giorno dopo, ma programmi a lungo termine interventi e iniziative che facciano sentire i cittadini d’Europa, orgogliosi della loro appartenenza.

Ecco perché il voto di ieri e di oggi è importante: andiamo tutti a votare, facciamo sentire questo bisogno di rinnovamento contestando antistoriche posizioni o illusorie e disastrose promesse. La Calabria è Europa, ma l’Europa siamo noi.

TUTTI A VOTARE PER L’EUROPA: NON VINCA
L’ASTENSIONISMO MA LA PARTECIPAZIONE

di SANTO STRATI – Se, ancora una volta, il vero vincitore di una tornata elettorale sarà l’astensionismo, possiamo considerare persa una buona occasione per dare il giusto peso all’idea di Europa. Vale per tutte le elezioni (il calo dei votanti è irrimediabilmente costante) ma, in questo caso, c’è l’opportunità di mostrare che si crede nell’Unione Europea e  nel ruolo che essa deve avere di fronte ai due terribili conflitti che, in vario modo, ci riguardano, e a una visione di futuro guardi fondamentalmente ai giovani e ai loro anni futuri.

Proprio i giovani, ahimè, sono quelli che – apparentemente – mostrano il maggior disinteresse non solo verso le elezioni europee, ma persino nei confronti dell’Unione, almeno questo dicono i sondaggi: nei fatti – crediamo, invece – c’è una forte domanda di partecipazione politica e il desiderio di poter puntare a un’Europa come una reale unione di Stati anche dal punto di vista politico (e non soltanto monetario).

I due conflitti in corso hanno fatto notare in maniera evidente la mancanza di un “ministro degli esteri” europeo, in grado di esprimere una comune visione contro la guerra  (contro ogni guerra) e di assumere una funzione negoziatrice in nome e per conto di 27 Paesi.

Un’illusione, forse, ma ai nostri giovani, già delusi da una politica nazionale quasi inesistente, come facciamo a offrire una così modesta idea dell’Europa se non esprimendo – compatti – un voto che equivale al senso di partecipazione e e di fiducia. Non importa chi votate, ma andate a votare: è un segnale quello che serve all’Europa dei popoli e ai suoi futuri rappresentanti, perché prendano atto che Bruxelles non sia un posto di potere (come tanti altri) ma una cabina di regia che finalmente possa accogliere e, quando possibile, soddisfare le richieste dei cittadini di uno Stato comune europeo, che pur nelle singole e inevitabili differenziazioni esprime i valori della libertà e del viver bene che sono la base fondante dei padri costituenti di quella “Comunità” (CEE) che sarebbe poi divenuta “Unione”.

Quando, il 25 marzo 1957, venne firmato il Trattato di Roma che istituiva la Comunità economica europea e l’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica), i padri costituenti di questa grande realtà “comune” mostravano una visione che rivelava la grande fiducia nel progetto europeo.

Un’idea nata nel 1941 ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi durante il confino a Ventotene (erano fieri oppositori del regime fascista): un progetto nato dalle riflessioni sui trent’anni di conflitti, dal 1914 al 1945, che cercavano di individuare un percorso comune per i cittadini di una “nuova” Europa.

Il cosiddetto Manifesto di Ventotene (poi curato e pubblicato da Eugenio Colorni) indicava la necessità di un radicale mutamento nel paradigma europeo, all’insegna di uno slogan che poi è il titolo originale del documento: “Per un’Europa libera e unita”. Scrivevano Spinelli e Rossi già nelle prime righe il concetto ispiratore dell’Unione: “La civiltà moderna ha posto come fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita”. No al cittadino suddito (naturale condizione dei regimi totalitari) ma protagonista della vita politica, sociale ed economica del suo Paese nel nome della libertà.

È in base a questo concetto, della libertà, che il voto rappresenta la conferma della stessa libertà.

Andiamo a votare: è un diritto conquistato, consideriamolo un dovere verso le nuove e future generazioni, che – magari – potranno anche dire grazie. Non solo all’Europa, ma soprattutto a chi ci ha creduto. (s)

COESIONE SOCIALE PARTE DA CATANZARO
CHE AMBISCE A DIVERTARNE LA CAPITALE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Catanzaro vuole essere la Capitale della Coesione Sociale. E lo fa attraverso la prima edizione di Coso – Giornate della Coesione Sociale, con cui si vogliono mettere al centro il futuro di una comunità più coesa e solidale, adottando un approccio che pone al centro le relazioni e in programma oggi, al Complesso Monumentale del San Giovanni e organizzato dalla Cooperativa Kyosei.

La scelta di far partire dal Capoluogo di regione la manifestazione non è del tutto casuale, come non lo è il panel dal titolo Catanzaro Capitale della Coesione Sociale: come spiegato dal sindaco Nicola Fiorita, nel corso della conferenza stampa di presentazione, che non è solo il tutolo di un panel, ma «l’obiettivo di questa amministrazione. Aumentare la coesione sociale è un impegno costante».

Così come non è casuale la scelta del nome della kermesse: CoSo perchè incarna non solo l’acronimo delle parole coesione e sociale, ma che è anche un termine familiare che evoca un senso di mistero e meraviglia di fronte a qualcosa di ignoto. Nelle nostre vite quotidiane, spesso ci imbattiamo in oggetti o concetti che ci sfuggono, che ci sono sconosciuti o che semplicemente non riusciamo a nominare all’istante. Proprio come la coesione sociale, un concetto tanto importante quanto complesso, che non è immediatamente comprensibile.

I temi portanti di CoSo saranno la rigenerazione territoriale e lo sviluppo di comunità, che saranno declinati in tre plenarie, tre panel formativi con 120 presenze, in cui professionisti, esperti del settore non profit, delle istituzioni, docenti universitari che si alterneranno per condividere una riflessione collettiva sulla necessità di rendere protagoniste, coese le comunità territoriali.

«Volevamo un evento – ha spiegato la Cooperativa – che trattasse temi specifici e che lo facesse senza fermarsi alla superficie, ma calandosi nelle questioni. Un evento organizzato coinvolgendo professionisti del settore non profit, delle istituzioni e docenti universitari per confrontarsi, lavorare insieme alla comunità».

E, infatti, i temi portanti della prima edizione di Coso saranno sviluppo di comunità, rigenerazione territoriale quali strumenti di coesione sociale. Per lavorare con la comunità e non su o per la comunità.

Ma non solo istituzioni ed esperti. Largo spazio, infatti, è stato dato ai giovani perché, come ha spiegato la Cooperativa Kyosei, «il punto di vista dei giovani è importante».

A loro, infatti, è dedicata la Plenaria A, in cui una rappresentanza degli studenti dell’Istituto “E. Fermi” dirà la sua sulla Coesione Sociale, confrontandosi con Giuseppe Manzo dell’ufficio comunicazione di Legacoopsociali e Carlo Andorlini, del comitato promotore nazionale della Biennale della Prossimità.

E lo faranno basandosi sulle idee raccolte durante l’incontro con una delle tecniche che la Cooperativa ha usato per coinvolgere attivamente le persone nelle comunità.

«La cosa che mi ha colpito di più è stata la maniera in cui siamo riuscite a esprimere il nostro pensiero, poiché si è creata un’aria tranquilla e un clima amichevole. Sembrava quasi di affrontare una discussione tra amici. Ci siamo sedute tutte intorno a un tavolo. Ognuno di noi ha espresso il proprio parere su quello che è la coesione sociale, utilizzando colori, post-it. Siamo riusciti a portare sulla carta quelli che sono i nostri pensieri e credo sia una cosa molto positiva», ha raccontato Sara, una studentessa del Fermi.

Nelle plenarie, dunque, si parlerà di Pon Metro plus, delle biblioteche e dello sviluppo delle comunità. I panel dedicati al Pon Metro Città medie Sud e allo sviluppo di quartiere attraverso le biblioteche di comunità saranno facilitati da Graziano Maino e Marco Cau della cooperativa sociale Pares.

«Ciascun panel – viene spiegato – ha una durata di due ore e ha un facilitatore. Abbiamo coinvolto voci autorevoli in materia di rigenerazione territoriale e sviluppo di comunità. Con taglio pratico e modalità exploring a situation, professionisti di diversi settori (terzo settore, Pubblica Amministrazione, Università) racconteranno e si confronteranno su come promuovere una crescita equa, sostenibile e intelligente per pensare in modo nuovo le comunità e il futuro».

L’intera manifestazione sarà introdotta dall’incontro dal titolo Catanzaro, la città della Coesione Sociale. Intervengono Danilo Ferrara, presidente dell’Ordine degli Assistenti sociali della Calabria, Nicola Fiorita, sindaco di Catanzaro, Giancarlo Rafele, presidente della Cooperativa Kyosei, che si concluderà, poi, con una riflessione sugli scenari e prospettive emerse dai panel.

Una nuova prospettiva di Coesione sociale, dunque, parte dalla Calabria. O meglio, da Catanzaro, che vuole essere apripista di un nuovo metodo in cui la comunità è protagonista. (ams)

IL MEZZOGIORNO MAI PIÙ “PALLA AL PIEDE”
PER LA CRESCITA E LO SVILUPPO DEL PAESE

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna cambierà tutto. Così Chevalley si rivolge al Principe di Salina Don Fabrizio, che non vuole accettare l’offerta del Regno di diventare senatore e che manifesta tutte le sue perplessità sul nuovo corso prospettato dai nuovi regnanti.

Era il 1860 e da poco i mille garibaldini, aiutati dalle baronie che volevano liberarsi dai Borbone e dagli Inglesi che non volevano competitori nel Mediterraneo, avevano “liberato” il Meridione d’Italia. Vi credevano invece i “ picciotti” e i “cafoni” che rimarranno delusi da promesse che non si avvereranno. 

Dopo la seconda guerra mondiale, con la sconfitta e la distruzione di molte parti del Paese e  qualche dubbio sulla correttezza della conta del verdetto, si ha la Repubblica. Un ragazzo napoletano, dopo le votazioni, chiedeva al nonno, noto monarchico borbonico, come mai avesse votato per la Repubblica. E il nonno rispose deciso: cosi ci siamo liberati dai Savoia.  

E nasce quella Repubblica fondata su una Costituzione che afferma nel suo incipit: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. 

Sappiamo come è andata. Potremmo dire che tale assunto é simile a quello della pasta con le sarde dei poveri di Palermo. Chiamata pasta con le sarde …a mare. Nel senso che le sarde non le potevano comprare e mettevano lo stesso condimento nella pasta senza le sarde. L’Italia diventa una repubblica fondata sul lavoro… all’Estero o al Nord per quanto attiene il Sud.  

Ma il discorso è analogo per tutti i diritti di cittadinanza. L’unificazione politica risale al 1860, quella economica non è ancora avvenuta. E l’approccio più recente di chi ci governa è quello di statuire che tutto questo si può costituzionalizzare con l’autonomia differenziata, che in realtà si potrebbe chiamare “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”.  

Perché la teoria del mantenere le risorse nelle Regioni che le incassano presenta molti limiti. A parte tutta la problematica del soggetto che alla fine paga le tasse vi è il grande contributo dato dal Sud alla cosiddetta locomotiva, dal piano Marshall in poi.  

In termini di risorse, concentrate tutte in una parte, destinataria di grandi interventi per esempio per l’Autostrada del Sole e l’Alta Velocità Ferroviaria, al grande apporto di 100.000 persone all’anno formate trasferite al Nord, con un costo per le Regioni di provenienza di 20 miliardi l’anno. Alla spesa storica che prevede ogni anno un trasferimento dal Sud verso Nord di oltre 60 miliardi, se l’attribuzione pro capite fosse uguale. E al contributo culturale a un Paese repubblicano che diventava protagonista della nuova Europa, voluta da Spinelli, rilanciata da Ventotene.  

Non si sono fatti tanti sacrifici, anche umani, per consentire a pochi furbetti del quartierino senza visione  di spaccare il Paese tenendo il malloppo accumulato negli anni, investito nei grandi trafori, nel Mose di Venezia, nella Tav da completare, nella infrastrutturazione complessiva fatta per consentire alla locomotiva di correre con le risorse della fiscalità generale.       

Che tanto, era nella convinzione di molti, avrebbe trainato tutto il resto. Adesso che la locomotiva si é fermata e accumula ritardi incredibili rispetto ai grandi Paesi europei qualcuno ha pensato bene di sganciare i vagoni, perché ritiene che sono quelli che rallentano la corsa, non capendo che invece serve una seconda locomotiva che spinga da dietro tutto il convoglio.  

Solo degli inadeguati possono pensare che un Paese possa competere lasciando il 40% del territorio e il 33 % della popolazione fuori dal circuito produttivo. Lo ha capito così bene la Germania che ha riversato un mare di marchi nella ex Ddr, da avviare a soluzione un problema incancrenito da decenni di comunismo. 

Lo avevano capito prima gli Stati Uniti d’America che hanno fatto diventare la California una realtà produttiva importante. E invece noi ci accontentiamo di avere una colonia interna, che poco produce e poco dà a tutto il Paese, lasciandola nella mani di una classe dominante estrattiva locale, con la quale si è stabilito un accordo scellerato che tiene il Sud in una condizione di sottosviluppo.  

Per questo la Repubblica è stata tradita, per questo i meridionali sono stati gabbati con la promessa di uno Stato nel quale essere cittadini alla pari di tutti gli altri.

Per questo è necessario un cambio di passo per completare l’unificazione del nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale, queste cose le ha dette nell’ultimo periodo molto decisamente. Ma bisogna che se ne rendano conto anche i Ministri che spesso più che giocatori della squadra Italia sembrano appartenere a un un team virtuale che si chiama Nord. 

Adesso che il Mediterraneo è ridiventato sempre più centrale, ci si rende conto che una parte ha bisogno dell’altra, così come l’Europa ha bisogno dell’Africa. Ma non in termini estrattivi, ma per moltiplicare con la collaborazione i risultati desiderati. Riuscire a capire che il gioco può prevedere che si perda tutti o che si vinca la battaglia insieme non è né semplice né scontato, ma è assolutamente necessario. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]