LE STRUTTURE DI MEDICINA TERRITORIALE
NON DIVENTINO CATTEDRALI NEL DESERTO

di SANTO BIONDO –  Con la pandemia da Covid 19 sono emerse, in tutta la loro gravità, le carenze strutturali della medicina del territorio.

Questi ritardi stanno provocando, come riflesso immediato e più importante, l’aumento esponenziale dei carichi di lavoro per il personale infermieristico e medico che, dopo anni di grave stress lavorativo, stanno scegliendo di lasciare il Servizio sanitario nazionale per la sanità privata o per trasferirsi all’estero, dove gli stipendi sono più alti e i carichi di lavoro meglio gestiti, determinando così l’ulteriore depotenziamento della sanità pubblica italiana.

Dall’evidenza di tali criticità, è nata la scelta di destinare una quota importante sia di finanziamenti europei, attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza, sia di investimenti pubblici al potenziamento della sanità in Italia e, in particolare, della medicina del territorio. Stiamo parlando di un investimento totale che sfiora i 19 miliardi di euro: risorse, comunque, a debito che graveranno sulle spalle delle italiane e degli italiani.

Il nostro lavoro di analisi e approfondimento, vuole mettere in risalto i rischi che ne deriverebbero per la sanità pubblica, se questo progetto non andasse in porto e se non si potenziasse la medicina del territorio con l’effettivo funzionamento degli ospedali di comunità, delle case di comunità e delle centrali operative.

Il primo elemento di criticità emerge dalle piattaforme online (Regis; Portale Italia Domani; Ministeri competenti per materia; Sigeco; Agenas; OpenPnrr e Regioni) che dovrebbero consentire un’azione di controllo sociale sull’avanzamento del Piano nazionale di ripresa e resilienza nella fattispecie legata alla sanità e, in particolare, alla medicina del territorio. Molte di queste non sono aggiornate costantemente, forniscono pochi e frammentati dati e, in alcuni casi, persino in evidente contrasto tra loro.
Vengono meno così sia il dovere di trasparenza amministrativa sia la possibilità di valutare l’operato delle Istituzioni in materia.

C’è, inoltre, un grande rischio per il futuro delle strutture sanitarie della medicina del territorio. Se anche il piano venisse attuato, dal punto di vista infrastrutturale, gli ospedali di comunità, le case di comunità e le centrali operative territoriali difficilmente potrebbero funzionare, a causa della forte carenza di personale, per il cui pagamento, è bene ricordarlo, le risorse non possono provenire dal Pnrr, ma dai bilanci nazionali.

Incrociando i dati relativi agli standard del personale del Dm77 con il costo unitario medio annuo indicato dal Ministero dell’economia e delle finanze, infatti, si evince che per far funzionare le 1038 Case di comunità, indicate dal piano, servirebbe un investimento in personale stimabile in circa 1 miliardo di euro annui. Mentre per i 307 Ospedali di comunità previsti sarebbero necessari oltre 218 milioni euro. Infine, per coprire le spese per il personale delle 480 Centrali operative territoriali servirebbero 163 milioni di euro.

Il fabbisogno totale stimato, dunque, è pari a 1 miliardo e 366 milioni di euro per circa 30.000 professionisti. Quantità, a nostro avviso, comunque sottostimata per un giusto equilibrio dei carichi di lavoro.

A fronte di questi numeri, invece, l’impegno totale previsto dello Stato è di soli 250 milioni per il 2025 e 250 milioni per il 2026.

Quindi, a meno che non si intenda spostare personale sanitario dagli ospedali, svuotandoli di professionalità necessarie all’erogazione di un servizio sanitario pubblico efficiente e moderno, le strutture della medicina del territorio previste dal Pnrr, una volta costruite o reperite, rischierebbero di diventare delle cattedrali nel deserto.

Il Governo, purtroppo, sta investendo poco in sanità (le stime nazionali parlano del 6% del Pil) e non rimuove il tetto di spesa per l’assunzione di nuovo personale, paralizzando di fatto l’operatività delle strutture dedicate alla medicina del territorio. Se non si realizzasse questo obiettivo, sarebbe il crollo del Servizio sanitario nazionale: non solo il Sud, ma anche il Nord del Paese rischierebbe di arretrare in Europa.

Gli indirizzi da assumere per attuare la Missione 6 prevista dal Pnrr e salvare quindi anche il Sistema Salute del Paese devono essere incastonati all’interno di un SSN che sia effettivamente universale, pubblico e diffuso in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale.

Un Sistema Salute la cui realizzazione passa attraverso una riforma fiscale improntata a principi di equità e progressività, che realizzi una redistribuzione della ricchezza funzionale a costruire uno Stato Sociale a misura della persona. (sb)

[Santo Biondo è segretario confederale della Uil]

CALABRIA POCO PROPENSA AL RISPARMIO
TRA LE PROVINCE CROTONE È PENULTIMA

di MICHELE CONIA – Nel Rapporto risparmio e reddito delle famiglie del Centro Studi Tagliacarne, Unioncamere, la Calabria si assesta nella non invidiabile terzultima posizione mentre, scorrendo la classifica delle province italiane, relativamente all’anno 2022 e mettendo in collegamento i risparmi e il reddito disponibile,  bisogna scendere  all’ 81° posto per trovare una provincia calabrese e cioè  Cosenza con una  propensione al risparmio del 6,5%.

A seguire Reggio Calabria all’88° posto e Catanzaro al 93 esimo con, rispettivamente, il 6,2 % e il 6,1% di capacità di risparmio. Chiude, in penultima posizione, Crotone alla 110° posizione con famiglie che riescono a mettere da parte solo il 4,6% del loro reddito. Se nell’Italia settentrionale la propensione al risparmio è dell’11% scendendo di latitudine, il valore è pressoché dimezzato riducendosi al 6,4%.  Perché al Sud si risparmia meno e non si riesce a mettere da parte un po’ del proprio reddito?

Se il reddito familiare al Sud è di circa il 32% inferiore a quello del Centro-Nord i motivi sono presto detti: le famiglie fanno difficoltà ad accantonare dei risparmi per le necessità future a causa del basso tasso di occupazione, del reddito da lavoro povero e saltuario e per l’impennata dell’inflazione che ha ridotto il potere d’acquisto, inversamente proporzionale alla crescita dei salari. Se il Sud continua a mostrare in maniera consistente budget familiari più ristretti del Nord, conseguentemente anche i comportamenti di spesa delle famiglie saranno più prudenti riflettendosi anche nel tempo libero: meno vacanze e meno intrattenimento.

Ma non solo, si tira la cinghia anche sui prodotti alimentari a causa della brusca accelerazione dei prezzi di questi beni a cui corrisponde una frenata dei consumi delle famiglie. Infatti dal 2014 al 2022, si legge nel report, l’incidenza della spesa media mensile per prodotti alimentari nel Sud è passata dal 21,7% al 23,5% sul totale degli acquisti. Ma non c’è da sorprendersi. L’inflazione erode sempre più i redditi con una progressiva perdita di potere d’acquisto, spingendo verso la soglia della povertà un numero enorme di cittadini e cittadine che non riescono più ad affrontare le spese quotidiane, a pagare l’affitto, rinunciando persino a curarsi. La fragilità economica è stata causata anche dall’aumento generalizzato dei prezzi arrivando all’assurdo paradosso, per cui le famiglie, nel 2023, pur riducendo i consumi, si sono ritrovate a spendere un + 9% rispetto all’anno precedente.

Sono convinto che le sacche di povertà e i fenomeni di vulnerabilità sociale ed economica si accentueranno con l’irricevibile progetto di Autonomia differenziata, calendarizzato alla Camera a partire dal prossimo 11 giugno.

La condizione delle famiglie è lo specchio di un Paese sempre più diseguale, con divari macroscopici che non potranno che ampliarsi sensibilmente dopo l’approvazione del Ddl Calderoli. Noi non ci rassegniamo e proseguiremo le azioni di lotta pacifica e che la Costituzione ci consente accanto ai  Comitati  territoriali per il ritiro di ogni autonomia differenziata. Se il Ddl Calderoli dovesse essere approvato, avanziamo fin da ora la richiesta di impugnazione della legge davanti alla Corte costituzionale da parte delle singole Regioni e il referendum abrogativo se sarà dichiarato ammissibile. (mc)

[Michele Conia è sindaco di Cinquefrondi]

ENI E GOVERNO SCOMMETTANO SU JONIO
LAVORO, DIGNITÀ E FUTURO SONO POSSIBILI

di DOMENICO CRITELLI – Conservo memoria di quando i partiti, nel distinguo delle posizioni di Governo o di opposizione, esercitavano il loro potere di influenza sui livelli Regionali e Nazionali. Vi era rispetto delle regole e, soprattutto, del consenso che essi esprimevano su base territoriale e non sempre in funzione di governo.

Erano i tempi dei partiti di massa, del sistema proporzionale e del peso specifico che il collegio elettorale esprimeva nella formazione del consenso Nazionale. Ebbene, al netto anche dei difetti che quel sistema elettorale generava, i candidati avevano come riferimento i territori, e, l’azione politico istituzionale, imponeva una visione generale.

Come nel caso del processo di deindustrializzazione che ci ha riguardato a partire dagli anni ’80 fino agli anni ’90. Ricordiamo tutti la stagione dei “Fuochi” e lo scontro politico e sindacale che ne scaturì.

Ognuno di noi difendeva posizioni politiche, visioni diverse talvolta contrastanti senza nulla di personale e a poco varrebbe stabilire, oggi, chi avesse ragione o torto nel difenderle.

Sta di fatto, però, che quella crisi trovò ascolto e impegno del Governo Nazionale, oltre che fronte comune del movimento Sindacale e delle Istituzioni Locali e Regionali, pur in presenza di equilibri politici non sempre coincidenti.

Quella crisi assunse una dignità nazionale con la istituzione di un tavolo concertativo (task force) presso la stessa Presidenza del Consiglio. Bisognava ridefinire una prospettiva di sviluppo per un’area, quella Crotonese, che aveva rappresentato un unicum nell’intero mezzogiorno.

Vi era da prevenire oltre che l’impoverimento di un territorio che aveva garantito quasi piena occupazione anche una diversificazione del suo tessuto imprenditoriale e produttivo.

L’autorevolezza di quel livello di interlocuzione che il sistema Politico e Sindacale seppe realizzare, garanti’ un monitoraggio della crisi che generò un’idea di “Contratto d’area e Sovvenzione globale” con le risorse Nazionali adeguate ed un soggetto locale, “Crotone Sviluppo Spa, che sapesse valutare le manifestazioni di interesse di imprenditori locali e Nazionali a raccogliere la sfida del Governo.

In pratica, una lunga e virtuosa stagione di riconversione industriale, ambientale e produttiva. Osservando, oggi, il montare dell’onda protestataria, dopo anni di silenzi, omissioni, rinvii e un fatalistico “quieta non movere” degli ultimi Governi nazionali, escluso l’ultimo, sembra di essere in presenza di un’onda anomala che può trasformarsi in uno tsunami.

Mi verrebbe da suggerire, a tutti i protagonisti in campo, di immaginare che le attività industriali di Pertusola e Montedison non siano cessate, compiutamente, sul finire degli anni 90(oltre 20 anni fa’) ma da appena qualche anno, in coincidenza della Pandemia, giusto per intrecciare, suggestivamente, una fase di cimento globale.

Provo ad usare questo schema per capire se il confronto, sempre fra gli attori locali si concentrerebbe sulle prospettive e le potenzialità da cogliere piuttosto che sul rimpallo di responsabilità di chi ha avvelenato e di chi si è girato dall’altra parte; di chi ha fatto la faccia feroce nei confronti “dell’avvelenatore” e di chi, invece, ha svestito i panni del Masaniello per indossare quelli del Macchiavelli o del “Re Travicello”.

Si tenga conto, oltretutto, che anche le Amministrazioni Comunali che hanno interloquito con “l’avvelenatore”, per i diversi atti concessori e autorizzativi, dovrebbero essere posti sul banco degli imputati, quanto meno per culpa in vigilandi. E a cascata le Direzioni Aziendali piuttosto che i Sindacati che sarebbero venute meno alla funzione di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori.

Un puzzle inestricabile. Un collo di bottiglia che non so’ quanto convenga perpetuare se si intende “Bonificare” piuttosto che tombare che, poi, è poco meglio della realtà fattuale: tutti quei veleni sono a cielo aperto o in fondo al mare.

Al netto del giudizio che si può avere sulle Amministrazioni locali, Comune e Provincia, e su quella Regionale, esiste un punto di caduta che impone di ricreare la stessa “unità-diversita’” degli anni della concertazione sapendo che oggi, meglio di ieri, non vi è la necessità di inventarsi o reperire risorse, strumenti e strategie, perché esistono e si chiamano: Sin (Sito interesse nazionale), Pnrr (Piano nazionale ripresa resilienza); Green Deal (Comm.ne Europea); Zes ( Zona Economica Speciale).

A mio giudizio, e non perché elettore di Roberto Occhiuto, il Governo Regionale ha una guida autorevole, di peso nazionale, anche un po’ solitaria, visto il contesto generale e lo stato di salute dei partiti a tutti i livelli.

Non ho la pretesa di essere condiviso nel mio giudizio su Occhiuto, così come, all’epoca, nessuno poteva contestare il ruolo e il peso specifico che ebbe Riccardo Misasi.

Si converrà che se si ricreassero le stesse condizioni politiche degli anni ’90 di “unità nella diversità” ed il tavolo concertativo, guidato da Occhiuto, chiamasse alle loro responsabilità, il Governo Nazionale ed Eni Corporate, forse si potrebbe immaginare di riscrivere la storia della Calabria Jonica “Ripartendo dall’ultima e dalla Polis”.

L’ho virgolettato perché è l’apertura del documento politico col quale, con un gruppo di amici, proviamo a ridare voce ad un’area politica in grande sofferenza, soprattutto alle nostre latitudini, rispetto alla visione di sviluppo e di rilancio della Città di Crotone e della sua Provincia: quella Popolare Liberale e Riformista.

Ma l’imperativo è per tutti, perché ci stiamo spopolando e non possiamo consentirci pause di riflessione, addirittura di conflitto o di visione monocorde. Ci sono decisioni e iniziative che si sarebbero dovute prendere 20 anni fa.

Ecco perché la storia non assolverà nessuno: né quelli di ieri ma neppure quelli oggi.

Proprio in quell’area dove Crotone ha conosciuto il suo riscatto e il suo benessere, l’ex area industriale, bisogna ricreare le condizioni per ridare speranza ai nostri giovani che un futuro di dignità del lavoro è possibile senza dover emigrare e, magari, dando l’opportunità agli altri anche di ritornare a casa per remare, tutti, nella stessa direzione. Nella diversità. (dc)

«LA REGIONE SBAGLIA SULLA DIRETTIVA UE:
COSÌ NON TUTELA LE SPIAGGE CALABRESI»

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «La scelta della Regione Calabria di applicare la Bolkestein è una decisione sbagliata». È ferma e dura la posizione di Anna Parretta, presidente di Legambiente Calabria, esprimendo la propria contrarietà «perché viola le norme europee e gli orientamenti giurisprudenziali in materia di concessioni demaniali marittime, tutela della concorrenza, diritti dei consumatori e tutela dell’ambiente, aprendo, di fatto, ad una ulteriore, insostenibile, sostanziale privatizzazione delle aree pubbliche».

Una possibilità «insensata» quella di «mettere a gara in Calabria ulteriori spiagge libere limitando i diritti della collettività perché le aree demaniali appartengono a tutti i cittadini», ha detto Parretta, sottolineando come «l’idea che ci siano enormi spazi lungo le coste calabresi su cui si può ulteriormente investire ed aprire nuovi stabilimenti balneari è collegata ad una logica di sfruttamento delle risorse naturali, considerate inesauribili, che è antistorica e scientificamente errata. La Regione Calabria dovrebbe, invece – prosegue Parretta – limitare l’occupazione delle spiagge e le concessioni demaniali esistenti dovrebbero essere assegnate in base a rigorosi criteri di sostenibilità ambientale e sociale, per  salvaguardare gli arenili e le acque marine da ogni causa di inquinamento e degrado. Il futuro del turismo calabrese passa dalla tutela dell’ambiente».

La direttiva Bolkestein ( 2006/123/CE) è una norma approvata nel lontano 2006 dall’Unione europea: gli Stati hanno avuto tempo fino al 28 dicembre 2009 per dare attuazione al suo contenuto; attuazione che in Italia è avvenuta  concretamente con l’emanazione del d.lgs 59/2010. L’obiettivo della direttiva è di promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati dell’Unione europea, per cui concessioni e servizi pubblici possono essere affidati a privati solo con gare pubbliche aperte a tutti gli operatori presenti in Europa al momento della scadenza della concessione.

A dicembre 2020, vista la mancata ottemperanza da parte dell’Italia, la Commissione europea ha aperto una nuova procedura di infrazione contro il nostro Paese per violazione della direttiva Bolkestein con il rischio di gravi sanzioni economiche. Ricordiamo, infatti, che la durata delle concessioni demaniali marittime è stata disciplinata dall’articolo 1 commi 682 e 683 della legge n. 145/2018, che aveva disposto la proroga di quindici anni per quelle vigenti. Proroga ritenuta dalla Commissione europea in contrasto con la direttiva e con gli articoli 49 e 56 del Trattato europeo.

Successivamente, il Consiglio di Stato nel novembre 2021 ha dichiarato la proroga nulla, differendo tuttavia gli effetti della sentenza fino al 31 dicembre 2023 «al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che sarebbe derivato  da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere», senza alcuna possibilità di proroghe ulteriori.

L’Europa chiede, quindi, da molto tempo – almeno 15 anni- a Roma di bloccare i rinnovi automatici delle concessioni agli operatori storici e di aprire il mercato a nuove imprese attraverso dei bandi di gara, così come previsto dalla cosiddetta direttiva Bolkestein. Il governo italiano non si è adeguato alla richiesta, nonostante la procedura d’infrazione aperta da Bruxelles, e dopo aver rinnovato ancora le concessioni fino al 31 dicembre 2024 sta ipotizzando di ampliare le spiagge da assegnare ai balneari, in maniera tale da “salvare” i gestori degli stabilimenti esistenti.

In questo quadro la Regione Calabria, prima fra le Regioni italiane, afferma che non applicherà la direttiva Bolkenstein, sostenendo che non vi è scarsità della risorsa spiaggia, in maniera tale che gli attuali concessionari possano continuare ad operare e contestualmente possano essere messe a bando porzioni delle attuali spiagge libere calabresi. Al contrario la citata sentenza del Consiglio di Stato n. 4481/2024 dovrebbe rappresentare una linea di sbarramento chiara per tutti i tentativi, giudiziari e legislativi, di mantenere in capo ai concessionari uscenti, il cui contratto è in scadenza, la gestione delle zone balneari sinora assegnate senza alcuna procedura selettiva comparativa.

Non solo: anche nel caso di risorse non scarse può sussistere un obbligo di disporre una procedura comparativa, perché l’onere di effettuazione di tale procedura per la concessione di beni demaniali non trova quale sua unica fonte soltanto la direttiva Bolkestein, ma anche l’art. 49 del TFUE e la libertà di stabilimento, dovendo l’assegnazione essere effettuata secondo criteri di trasparenza e imparzialità. La Regione Calabria, con la decisione assunta, sta quindi  entrando nel vicolo cieco del rischio di una nuova infrazione comunitaria con i relativi costi in termini di sanzioni e sta ipotizzando una inaccettabile sottrazione di spiagge attualmente fruite in maniera libera e gratuita dai calabresi e dai turisti.

Secondo il Rapporto Spiagge 2023, pubblicato da Legambiente, la Calabria si colloca tra le regioni più a rischio. La ricerca, che analizza sei indicatori, dalla crisi climatica al rischio di inondazioni, dalle spiagge inaccessibili al mare inquinato, rivela un quadro di fragilità per i territori costieri calabresi poco tranquillizzante. Per consumo di suolo costiero collegato anche al grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, la Calabria segna il quarto valore per crescita a livello nazionale (+6,26 % tra il 2006 ed il 2021)  e il terzo nel rapporto tra consumo di suolo litoraneo e superficie regionale.

A causa del grave fenomeno dell’erosione delle aree costiere destinato ad aggravarsi per effetto dei cambiamenti climatici, anche la Calabria sta perdendo parte delle proprie spiagge: nel complesso oltre il 26% della costa bassa regionale è in erosione. Sempre a livello regionale il rapporto di Legambiente segnala il valore particolarmente elevato – in rapporto alle altre regioni – delle concessioni balneari, che corrispondono al 13,8 per cento del totale italiano. In Calabria – dove ci sono 614 km di spiagge – il totale di concessioni di demanio marittimo è di 4.665, delle quali 1.677 per stabilimenti balneari, per un totale del 29,4 % di costa sabbiosa occupata.

Tutte queste ragioni dovrebbero indurre la Regione Calabria a limitare l’occupazione delle spiagge, alzando il relativo limite regionale, attualmente solo del 30% a fronte del 60% di altre regioni come Puglia e Sardegna. Sarebbe necessario in questa situazione un rigoroso controllo ambientale sulle concessioni, che al momento durano da decenni, con il pagamento di canoni molto bassi e con  stabilimenti balneari che spesso si trasformano in veri e propri locali che occupano il demanio in maniera stabile. La prospettiva verso cui occorre andare, insomma, è ben altra rispetto a quella prospettata dalla giunta regionale.

La Direttiva Bolkestein prevede, peraltro, che gli Stati membri possono tenere conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale della salute e sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi di interesse generale conformi al diritto comunitario. Gli stabilimenti balneari ed i titolari delle  attuali concessioni che hanno ben lavorato ed investito nella giusta direzione non devono avere timore delle gare europee.

Il modello da seguire deve essere costituito da investimenti, sostenibilità e qualità per creare occupazione reale ed al contempo proteggere l’ambiente in base a criteri posti alla base, ad esempio, della prassi Uni per gli stabilimenti accessibili e sostenibili definita da Legambiente. In sostanza si devono tutelare gli imprenditori seri, onesti ed attenti all’ambiente ed alla legalità.

«La soluzione – ha concluso Legambiente – non può e non deve certamente essere quella di cedere ulteriore spiaggia, sottraendola all’uso libero e gratuito della collettività per metterla a bando». (ams)

UN NUOVO INIZIO EUROPEISTA, MA INSIEME
PER UN’EUROPA UNITA, DI POPOLI E LAVORO

di LUIGI SBARRA – Il mondo corre, cambia. Anche l’Europa deve cambiare. Non può arrancare, restare sulla difensiva. Troppo ritardo è già stato accumulato. Troppe questioni, enormi e complesse, dimostrano che così come è strutturata l’Unione europea non riesce, non riuscirà, ad essere protagonista sulla scena globale.

La legislatura che si aprirà tra poco deve dare il via ad una vera fase costituente in Europa. Bisogna accelerare lungo la strada dell’integrazione economica e sociale, verso la realizzazione dell’unità politica e degli Stati Uniti d’Europa. Per rendere l’Unione più efficiente, coesa, solidale e rappresentativa. Più forte, autorevole e incisiva sulla scena politica mondiale. Baluardo contro autocrazie e regimi illiberali che puntano apertamente ad attaccare la democrazia e i nostri valori. È indispensabile che l’Unione si doti di una politica estera, di difesa e di sicurezza comune. Per sostenere con rinnovata energia l’Ucraina, assumere un ruolo per porre fine al conflitto israeliano-palestinese e aprire la strada all’unica soluzione possibile, quella che dovrà condurre a due Stati per due popoli.
E per restare al passo con l’Europa la Cisl ha auspicato per l’Italia un’Agenda che deciderà crescita e futuro del Paese, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, investimenti su politiche attive, formazione e competenze, una nuova politica dei redditi che difenda risparmi, salari e pensioni, il rinnovo di tutti i contratti, una riforma fiscale che sostenga i redditi medi e popolari, un’evoluzione del sistema pensionistico nel segno della sostenibilità e dell’inclusività per giovani e donne, maggiori risorse per sanità, pubblico impiego, scuola, politiche sociali e non autosufficienza, governance partecipata del Pnrr, relazioni industriali che evolvano nel solco della partecipazione, come stiamo contribuendo a fare con la nostra Proposta di legge ora in Parlamento.
Un nuovo inizio europeista. Questo è il grande compito. Cominciando col rendere strutturali gli strumenti pandemici e istituendone altri, come il Fondo sovrano europeo per l’industria, Ma bisogna riformare l’architettura decisionale, dando un ruolo più ampio alla Commissione e al Parlamento europeo. Via il cappio del diritto di veto, sostituendo la regola delle decisioni all’unanimità con il voto a maggioranza qualificata, pressoché in tutti i settori. Decidere e unificare, ha continuato Sbarra, secondo cui si deve puntare a stringere, a livello europeo, un Patto per il lavoro che abbia al centro formazione, occupazione e protezione sociale.
Si proceda alla piena e vincolante inclusione dei principi del Pilastro europeo dei diritti sociali. Per promuovere l’incremento dei salari e delle condizioni di lavoro, costruire uno spazio contrattuale europeo, che valorizzi relazioni industriali e partecipazione transnazionale
La chiave di tutto sta nella parola insieme. Insieme per un’Italia e un’Unione nuove, in grado di fare bene e fino in fondo la loro parte, per ritrovare lo spirito e l’ambizione dei Padri fondatori, per essere protagonisti oggi e domani sulla scena politica ed economica a livello globale. Insieme. Verso una vera comunità dei popoli e del lavoro e l’orizzonte degli Stati Uniti d’Europa.

Il Manifesto della Cisl Insieme per un’Europa Nuova: Lavoro, Coesione e Partecipazione

Di fronte alle trasformazioni in atto dobbiamo aprire una nuova fase costituente e completare il cammino verso un’Europa nuova, unita, partecipata, dei popoli e del lavoro. Occorre uno scatto in avanti, un grande processo di riforma che promuova il modello sociale, i valori democratici, una governance sovranazionale in grado di valorizzare e tutelare gli interessi dei singoli Stati e di rispondere concretamente ai bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, dei pensionati e delle pensionate, dei cittadini e degli immigrati.

Secondo la Cisl l’Unione Europea dovrà salvaguardare e promuovere maggiormente la dignità della persona e il lavoro di qualità, contrastando le disuguaglianze e le marginalità sociali, dando risposte di inclusione in particolare a donne e giovani.
Le grandi transizioni del nostro tempo, un contesto internazionale turbolento e frammentato chiamano in causa la capacità dell’Europa di trovare le giuste risposte, accompagnate da una crescita del proprio ruolo geopolitico.

Da questo punto di vista il nuovo Patto di stabilità e crescita presenta aspetti preoccupanti da affrontare superando l’impostazione eccessivamente rigorista ed evitando, al contempo, che gli effetti di tale impianto gravino sui cittadini attraverso tagli alla spesa sociale e allo sviluppo. Bisogna riconquistare la fiducia delle persone nei confronti del progetto europeo, arginando populismi e nazionalismi e giungendo, anche mediante una revisione dei Trattati, alla costruzione degli Stati Uniti D’Europa quale traguardo ultimo per affrontare la complessità del contesto, promuovendo e facendo progredire pace giusta e coesione, democrazia e sviluppo.

Sono quattro le priorità su cui puntare per dare un nuovo assetto sociale, organizzativo ed economico al vecchio continente:
Realizzare una governance partecipata.

Per la Cisl aumentare il coinvolgimento di sindacati e imprese è fondamentale per affrontare la complessità di transizioni epocali come quelle energetiche, climatiche e digitali, salvaguardando la coesione. Dialogo sociale, contrattazione e partecipazione devono essere i pilastri portanti di una nuova governance europea per far progredire qualità, stabilità e sicurezza del lavoro, incentivare sostenibilità e crescita dei territori, radicare gli investimenti rilanciando e redistribuendo la produttività, elevare l’innovazione e proteggere la persona nelle transizioni. Serve maggior protagonismo negoziale della Confederazione europea dei sindacati alla luce anche delle grandi trasformazioni dell’occupazione dovute alla digitalizzazione e all’avanzare delle intelligenze artificiali. Una maggiore partecipazione dovrà essere collegata anche ad un coinvolgimento delle organizzazioni della società civile per contribuire a politiche orientate al benessere sociale.

Rafforzare la dimensione sociale.

Occorre rendere il mercato del lavoro un luogo di crescita della persona. Va data piena attuazione al Pilastro dei diritti sociali, promuovendo il miglioramento dei livelli salariali, delle condizioni di lavoro e delle protezioni sociali. Va costruito uno spazio contrattuale comunitario che valorizzi la partecipazione transnazionale, a partire dal rilancio del ruolo dei Comitati aziendali europei nelle imprese multinazionali per ridurre il rischio di dumping e delocalizzazioni e sviluppare strumenti di gestione sostenibile d’impresa volti a garantire una responsabilità solidale nell’intera filiera produttiva.

È necessario garantire l’applicazione delle norme sulla mobilità equa dei lavoratori, anche attraverso il rafforzamento dell’Autorità europea del lavoro, e assicurare il principio della parità di retribuzione per le stesse mansioni. Forti vincoli sociali devono orientare i criteri di finanziamento pubblico alle imprese. Bisogna fronteggiare e sradicare il lavoro sommerso, delle società di comodo, dei falsi rapporti autonomi. Il contrasto all’illegalità e alla criminalità organizzata va garantito anche estendendo a livello comunitario i contenuti della Legge La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. Vanno risolti i grandi divari regionali potenziando le politiche di coesione in un’ottica di lungo periodo

Rendere equo il mercato interno.

Rafforzare e completare il mercato interno, puntando all’equità e a una competitività sostenibi e allargandolo ad ulteriori settori come la finanza, l’energia e le telecomunicazioni, è un obiettivo non più rinviabile. Dobbiamo convergere su politiche comuni a partire da quelle industriall e di ricerca e sviluppo, che contribuiscano alla produzione di beni pubblici di cui tutti gli Stati membri possano beneficiare. È necessario aggiornare la politica di concorrenza alle nuove sfide in modo da promuovere gruppi industriali europei salvaguardando la coesione e lo sviluppo territoriale, così come assicurare l’inclusione di clausole sociali negli accordi commerciali per salvaquardare i diritti contrattuali dei lavoratori lungo tutte le catene di fornitura.

Il rafforzamento del mercato interno non può prescindere inoltre da una tassazione armonizzata, per evitare fenomeni di concorrenza al ribasso, e dalla valorizzazione della componente del risparmio mediante strumenti di investimento nel ‘economia reale. Occorre migliorare l’accessibilità di capitali a imprese e cittadini, anche in un’ottica di attenzione ai territori più svantaggiati, e contrastare tutti i fenomeni di finanza speculativa.

Creare un assetto decisionale comunitario.

È necessario promuovere una riforma dell’architettura decisionale europea verso l’obiettivo di un rafforzamento politico e di maggiore legittimazione della Commissione, di un ruolo più ampio del Parlamento europeo e del superamento della regola delle decisioni all’unanimità nel Consiglio nell’ambito di una vera Costituzione europea. Una riforma ancor più necessaria alla luce di un possibile allargamento a 35 Paesi. Occorre aumentare eticacia comunitaria rivedendo le competenze e gli ambiti di intervento, a fronte di un sistema troppo intergovernativo, troppo condizionato da veti e interessi nazionali su aspetti fondamentali come le politiche migratorie, fiscali, estera e della difesa.

Nel contesto di “riglobalizzazione” e di riassetto geostrategico che vede riemergere regimi autocratici, l’Europa deve avere voce forte e autorevole nel campo della difesa e della sicurezza con un conferimento di capacità militari, che da un lato riequilibri le forze in campo e dall’altro consenta sinergie sulle spese dei singoli Stati, con risparmi in grado di aumentare le risorse disponibili per le politiche sociali e di sviluppo. Allo stesso modo è indispensabile che l’Unione adotti una politica estera comune e sia capace di gestire flusso migratori e di asilo con criteri di solidarietà tra Stati, canali legali, parità di trattamento, inclusività e valorizzazione di competenze nel mercato del lavoro.  (lb)

[Luigi Sbarra è segretario nazionale della Cisl]

VIAGGI D’ISTRUZIONE, CI SONO OPERATORI
ABUSIVI CHE DANNEGGIANO LE IMPRESE

di GIOVANNI GIORDANO – Conclusa la stagione dei consueti viaggi di istruzione – in cui le agenzie di viaggio concorrono attraverso uno specifico iter selettivo, fatto di lunghe pratiche e autorizzazioni varie, dove tanta è la responsabilità, sia dal punto di vista organizzativo che economico – si scopre un contesto infestato dalla presenza di alcuni operatori abusivi.

Le istituzioni dovrebbero agire urgentemente con interventi massicci a tutela delle imprese in regola, con controlli più serrati sugli abusivi, proprio come accade per le agenzie di viaggi regolari, estremamente controllate – e aggiungiamo in qualche caso vessate – nonostante la stragrande maggioranza sia in linea con ogni obbligo amministrativo, compresa la tassa per la licenza regionale più volte stigmatizzata. Constatiamo che gli operatori dei viaggi di istruzione sono attenzionati ad ogni partenza dei gruppi scolastici dalle autorità preposte che, pur facendo il proprio giusto dovere, alle volte sembrano proprio esagerare andando alla ricerca di qualsiasi inezia tecnica, mentre un mondo di sommerso, di abusivi, di “pirati” dei viaggi continua ad aggirarsi indisturbato.
Veri e propri venditori di pacchetti turistici senza regolare licenza e regolare codice Ateco (7911), che vendono servizi anche alle scuole. Quest’ultime inconsapevoli di commettere un illecito. Ma ciò non esonera la pubblica amministrazione dalla responsabilità: ci sono “illustri” – fortunatamente pochi – istituti scolastici che non controllano i requisiti degli operatori a cui richiedono la fornitura di servizi, rispetto ad un mondo della Scuola attento e scrupoloso a non intessere rapporti con vecchi e nuovi avventurieri dei viaggi.
Tra i casi verificatisi si potrebbe far riferimento a quello dello scorso anno in provincia di Reggio Calabria: protagonisti ignari studenti di un istituto scolastico, finiti sulle pagine dei giornali perché truffati con una “crociera” venduta da un abusivo, invitato “regolarmente” dalla scuola ad organizzare il loro viaggio d’istruzione.
Siamo sicuri che sul territorio della Città Metropolitana di Reggio Calabria e della Calabria intera non si stiano verificando altri episodi simili nell’ambito dei viaggi di istruzione? Noi di Confapi e Maavi continuiamo a puntare i riflettori verso questi episodi.
E cosa dire dei noleggiatori di pullman? Hanno tutti la regolare licenza di noleggio con conducente (Ncc)? Andrebbe accertato che le compagnie di pullman di linea – che per tale attività percepiscono contributi pubblici – non si dedichino anche alle attività di noleggio con conducente senza gli opportuni adempimenti. Pratica, questa, che ci risulta accadere pur non essendo consentita e che quindi penalizza le imprese legalmente autorizzate al noleggio.
Confapi Turismo Calabria e Maavi chiedono – a gran voce – urgenti interventi, duri e mirati, da parte delle istituzioni verso tutti gli operatori abusivi del settore dei viaggi che inquinano il buon operato delle imprese legali e corrette. Alla fine, tutto ciò non tutela l’utente finale. (gg)
[Giovanni Giordano è Vicepresidente Nazionale Confapi Turismo e Cultura, presidente Confapi Turismo e Cultura Calabria e delegato Regionale Maavi  (Movimento Autonomo Agenzie di Viaggio Italiane]

LA “CORSA” CONTRO IL TEMPO DEL SUD
PER SPENDERE IN TEMPO LE RISORSE PNRR

di PIETRO MASSIMO BUSETTASi può contemporaneamente invitare a correre dando una scadenza molto precisa per raggiungere l’obiettivo  e poi continuare a mettere ostacoli per evitare il raggiungimento richiesto? Si, se si adotta la massima evangelica che recita che la destra non sappia quello che fa la sinistra. Per cui il ministro dell’economia agisce senza consultarsi con quello del Sud. 

«Il taglio previsto per gli enti locali è di 250 milioni quest’anno, prima tranche di 1 miliardo e 250 milioni fino al 2028, ed è già un duro colpo per tutte le amministrazioni locali – spiega Decaro – ma la cosa più grave è che il Mef vuole ripartire questo taglio colpendo i Comuni in misura direttamente proporzionale ai finanziamenti del Pnrr».

I tagli riguarderanno 6.838 Comuni, 78 province e 13 città metropolitane. Le riflessioni che vengono immediate sono che i tagli sono orizzontali e non mirati. Il che vuol dire che i Comuni del Mezzogiorno, in genere più disastrati, saranno colpiti come quelli che hanno risorse più abbondanti, anzi in misura maggiore se l’assunto che il Pnrr dovrebbe finanziare maggiormente le realtà locali del Mezzogiorno é corretto. 

Ora capisco perfettamente che opporsi ai tagli è l’esercizio più facile, e in particolare per l’opposizione. Ma se il Pnrr si pone l’obiettivo di diminuire i divari esistenti, di avvicinare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), come potrà avvenire se i tagli sono uguali per chi gli asili nido li ha già in un numero vicino alla percentuale richiesta dall’Unione Europea e chi invece ne è lontanissimo? 

E in ogni caso non sarebbe stato opportuno concordare i tagli con il Ministro Raffaele Fitto, che ha consapevolezza delle problematiche del Piano di Ripresa e Resilienza? Anche il Ministro Giancarlo Giorgetti, come molti in questo nostro Paese, si comporta come se il Paese fosse uno e non, come ogni evidenza statistica dimostra, due. 

Se è vero che come ha dimostrato il Dipartimento per le politiche di Coesione, su sollecitazione di Carlo Azeglio Ciampi, ogni anno una spesa pro capite uguale tra Centro Nord e Mezzogiorno prevederebbe una maggiore dotazione a favore del Sud di 60 miliardi non sarebbe stato il caso di provvedimenti articolati e differenziati per provare progressivamente a diminuire tale divario?

D’altra parte il pensiero dominante é chiaro: altro che diminuire la distanza esistente tra le due parti nei diritti di cittadinanza, la si vuole invece costituzionalizzare con l’autonomia differenziata, trattenendo un residuo fiscale che esiste solo nella mente di Luca Zaia, ma anche di Stefano Bonaccini, e dei loro ricercatori di corte.    

Lo stesso Raffaele Fitto non potrà che piegarsi rispetto alle esigenze di un bilancio che impongono alcuni aggiustamenti.

 Purtroppo la centralità del Mezzogiorno, sempre di più é solo una grida, rinnovata periodicamente ma contraddetta nei fatti. Per cui l’esigenza che le regioni meridionali facciano fronte comune diventa sempre più importante. 

Anche se operativamente diventa estremamente complicato mettere insieme amministrazioni regionali che hanno maggioranze diverse, alcune  allineate rispetto alle decisioni  del Governo.  Fare fronte comune per ricorrere,  se necessario, come ha fatto recentemente Vincenzo De Luca per i Fondi di Sviluppo e Coesione, all’ autorità giudiziaria non sarà facile. E si continuerà con un atteggiamento che sembra corretto, perché mette tutti sullo stesso piano, con tagli lineari, ma che alla fine è profondamente ingiusto, considerato che i punti di partenza di ciascuno sono diversi. 

L’effetto sarà quello di far permanere le distanze esistenti e, considerato che i Comuni del Centro Nord in genere hanno una dotazione  di risorse maggiori, probabilmente aumentarle. 

Il tema di un diverso trattamento necessario diventa sempre più dirimente rispetto agli obiettivi previsti. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

RISCHIO POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE
È PRIMA LA CALABRIA: CAMBIARE LE NORME

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La Calabria è tra le prime quattro regioni con la quota più alta di persone a rischio povertà ed esclusione sociale: lo afferma Eurostat e questo stato – terribile – è stato confermato dal VI rapporto Ca’ Foscari sui Comuni 2023, presentato nei giorni scorsi a Reggio. In Calabria c’è anche fin troppa disoccupazione, povertà ed esclusione sociale: nella nostra regione, infatti, il tasso di disoccupazione è al 16%, mentre a Reggio al 16,1% – secondo i dati Svimez – quindi emerge in maniera netta il bisogno di prevenzione e di tempestività, a partire dall’attuale quadro normativo che va modificato.

Dopo i saluti istituzionali del Vicesindaco di Reggio Calabria, Paolo Brunetti, che ha rimarcato le novità più recenti che interessano il Comune in tema di gestione del servizio idrico e, in prospettiva anche del settore dei rifiuti, vi è stato il saluto dell’Assessore al Bilancio, Domenico Battaglia, il quale ha sottolineato come eventi di questo genere siano fondamentali per offrire spunti necessari per una riforma. Battaglia ha ricordato come Reggio Calabria, proprio con riferimento alla criticità finanziaria, sia divenuta un caso di scuola.

È toccato al Direttore Generale del Comune, Demetrio Barreca, effettuare un lungo excursus storico delle tappe che hanno segnato la storia recente di Palazzo San Giorgio, a partire dall’ispezione del Mef del 2011, quando furono ravvisate delle criticità da cui emerse il disavanzo delle casse comunali, per giungere alle diverse deliberazioni della Corte dei Conti e poi al piano di riequilibrio.

«Il VI rapporto Ca’ Foscari sui Comuni 2023 è di tipo multidimensionale ed è importante, per i Comuni che esista. Si tratta di un rapporto continuativo, forse anche enciclopedico, che però riesce ogni anno ad affrontare temi differenziati che convergono nell’idea che il Comune è un elemento essenziale della nostra democrazia e della nostra capacità di governo territoriale», ha detto Andrea Ferri, responsabile Finanza Locale della Fondazione Ifel e dell’Anci.

«Uno dei punti di partenza della ricerca che da diversi anni caratterizza la nostra università insieme a Ifel, è la criticità finanziaria che in alcuni territori come la Calabria è molto importante», ha spiegato Marcello Degni, docente dell’Università veneziana.

«Abbiamo cercato di analizzare – ha aggiunto – le cause di tale criticità finanziaria e sono emerse alcune proposte di radicale riforma dell’attuale quadro normativo. Il titolo VIII del Tuel va riformato radicalmente. Il predissesto – ha proseguito Degni – si è rivelato un fallimento. Il dissesto è una procedura vecchia introdotta alla fine degli anni ‘80 che va completamente rivista». Da questa ricerca sono emerse delle proposte che sono state formulate al legislatore: «L’idea è che bisogna introdurre un sistema predittivo della criticità finanziaria che consenta di cogliere i segnali prima che si verifichino i problemi di criticità forte».

«Il secondo elemento – ha proseguito – è un intervento tempestivo, un affiancamento da parte del sistema multilivello dei comuni in difficoltà intervenendo con un supporto organizzativo e finanziario. Non si tratta solo di trovare dei fondi. In molti casi il dissesto è un fatto organizzativo e quindi occorrerebbe intervenire con un affiancamento, individuando professionalità e aiutando i comuni a uscire dalla situazione in cui sono pervenuti. Dunque: modello predittivo, affiancamento, sostituzione nei casi più gravi e tempestività. Le istruttorie che durano anni non sono funzionali al superamento della criticità finanziaria».

A delineare il progetto Ifel, a supporto dei comuni in criticità finanziaria è stato Fabrizio Fazioli, in collegamento audio-video. Questi ha sottolineato come le crisi finanziarie siano «da tempo sotto osservazione. Si tratta di un fenomeno importante perché in espansione. Si registra una tendenza generalizzata del comparto comunale ad una tensione finanziaria, con una grande difficoltà a gestire e svolgere le funzioni assegnate».

Fazioli ha ricordato come, in tal senso, vi sia una forte connotazione territoriale, considerato che gran parte dei comuni in difficoltà si trovi in Sicilia, Calabria e Campania. Situazione causata da «una molteplicità di fattori», fra cui ovviamente difficoltà strutturali a riscuotere le entrate ma anche «organici ridotti all’osso».

Dopo aver ribadito di ritenere il dissesto e il predissesto «strumenti non idonei» a risolvere le problematiche dei comuni, Fazioli ha spiegato come il progetto di Anci e Ifel sia quello di affiancare gli enti, in via sperimentale, con attività di supporto e assistenza. Attualmente sono 71 i comuni assistiti con una task force individuata in base all’esigenza degli enti per un totale di circa 120 esperti.

Francesco Consiglio, invece, dopo aver ringraziato i numerosi rappresentanti di tanti comuni della Calabria presenti all’evento, nel corso della tavola rotonda Esperienze di criticità finanziaria nei Comuni della Calabria, moderato dal segretario generale del Comune di Reggio, Antonio Criaco, ha ricordato come il tema dell’incontro rappresenti una questione «molto seria, una condizione in cui vivono i comuni della Calabria».

«C’è qualcosa che non sta funzionando – ha rimarcato Consiglio – se i comuni sono chiamati ad accantonare delle somme che poi non possono utilizzare». Il dirigente ha ribadito un concetto: «Il dissesto non equivale a un risanamento dei comuni che devono poi capire come andare avanti».

Per Consiglio diventa fondamentale utilizzare i fondi di accantonamento anche con una funzione di risparmio, così da «garantire i debiti tributari dei cittadini. Se il problema è la riscossione – ha evidenziato Consiglio – utilizziamo per una parte i nostri risparmi per aiutarla questa riscossione». Il dirigente si è domandato se i comuni siano organizzazioni complesse e, rispondendo positivamente, ha ricordato come non si sia mai vista una «verifica dell’adeguatezza della struttura amministrativa che dovrebbe essere effettuata obbligatoriamente dallo Stato».

Il dirigente del Settore Bilancio della Città metropolitana, Fabio Nicita, ha posto l’accento sui rapporti con i comuni e le modalità di riscossione passate da un metodo indiretto ad un metodo diretto.

Le conclusioni sono state affidate ad Andrea Ferri, Responsabile Finanza Locale della Fondazione Ifel e dell’Anci. «I comuni – ha spiegato – nel loro complesso rappresentano un comparto sano della pubblica amministrazione. Produciamo accreditamento ma non indebitamento netto per lo Stato. Non aumentiamo il debito pubblico e ci reggiamo su entrate largamente proprie, molto differenziate nel territorio».

Ad oggi, ha rimarcato Ferri, vi sono 450 crisi conclamate e 1300 comuni in sui quali è stata avviata un’iniziativa convergente. «Il rapporto – ha aggiunto – è nato nello scorso decennio con un’analisi sulla crisi in atto.  Oggi si è evoluto in modo multidimensionale».

«È stato attivato – ha detto ancora – progetto per supportare diverse decine di comuni in condizioni di instabilità e di crisi. Questo fa parte della nostra missione e ci fa capire una cosa fondamentale in generale: per risolvere questa fragilità, minoritaria ma importante con quasi tutte le città medie del sud coinvolte, che si integra con un tema di fragilità generale dei comuni, occorre trovare meccanismi perequativi radicalmente diversi che tengano conto di una sperequazione di risorse molto importante».

«La nostra perequazione è formalistica, “statisticistica” – ha aggiunto – basata su dati di ingegneria. Tutto bello e vero, ma poi alla fine inefficace. Il richiamo che ci viene dalla corte costituzionale con la sentenza 115/2020 è che la crisi è anche frutto di una debolezza strutturale. Noi ancora su questo, che riguarda soprattutto Sud e le aree interne, non stiamo intervenendo abbastanza».

«Quando capiremo, come sistema-Paese – ha concluso – che questo è un elemento di forza per tutto il Paese, come dimostrano gli investimenti Pnrr, daremo un forte contributo alla stabilità economica della finanza pubblica». (ams)

VIOLENZA NELLE SCUOLE, SI ISTITUISCA UN
OSSERVATORIO PROVINCIALE SUL DISAGIO

di GUIDO LEONE –  Gli episodi sono ormai all’ordine del giorno ed è una escalation rispetto agli anni scorsi. La scuola non può essere l’unica a dare risposte per risolvere il fenomeno del bullismo e della violenza giovanile. In questa azione di prevenzione è necessario costituire una rete fra tutte le agenzie educative.

Già nel 1996 quando iniziarono i primi studi scientifici sul bullismo si registrò un 40% di alunni vittime di soprusi. Non si tratta sempre di violenze fisiche. Ci sono anche quelle verbali e anche forme che portano all’isolamento sociale del soggetto debole fino all’esclusione e alla diffusione di menzogne su di lui. E in quest’ultimo caso si arriva al ricorso della moderna tecnologia con la diffusione via Internet e on line delle foto o foto dell’atto di violenza. No il problema non è sottovalutato. L’importante è averlo evidenziato e adesso cercare di dare un soluzione immaginando che nessuna campagna avrà efficacia se la scuola non sarà sostenuta da famiglie e istituzioni sul territorio.

Gli ultimi dati sono disarmanti

In Italia più di uno studente su quattro sostiene di essere stato vittima di bullismo. Il dato emerge dallo studio effettuato dal ministero dell’Istruzione riguardante l’anno scolastico 2022/23. Il monitoraggio ha interessato 185 mila studenti delle scuole superiori di tutta Italia e ha l’obiettivo di dare una panoramica generale del fenomeno. Per dare dei numeri precisi, il 27% degli intervistati ha dichiarato di aver subito atti di bullismo, una percentuale in forte crescita rispetto all’ultima rilevazione, considerando che il numero era fermo al 22,3% nel 2020/21. Nella maggior parte dei casi si tratta di episodi isolati e occasionali. Ma sono in aumento anche quelli sistematici, dal 2,9% del 2020/21 al 5,4% del 2022/23.

Il Bullismo origina spesso nelle aule scolastiche

In base all’indagine dell’Osservatorio in difesa, realizzato da Terre des Hommes, insieme a OneDay e alla community di ScuolaZoo, la scuola è il luogo più probabile dove subire violenza. Il 65% dei giovani dichiara di essere stato vittima di violenza a scuola e tra questi il 63% ha subito atti di bullismo e il 19% di cyberbullismo, mentre la percentuale di chi ha subito una violenza, sia fisica che psicologica, sale al 70% se si considerano le risposte delle ragazze e all’83% tra chi si definisce non binario e scende al 56% tra i maschi.

Anche le tipologie di violenza subite sono diverse tra i generi, a eccezione delle violenze psicologiche e verbali che colpiscono in egual misura maschi e femmine (71% in generale e per le femmine; 69% per i maschi).

Bullismo e cyberbullismo, così come le violenze psicologiche e verbali, per il 79% dei casi  prendono di mira soprattutto l’aspetto fisico, poi l’orientamento sessuale (15%), la condizione economica (11%), l’origine etnica e geografica (10.5%), l’identità di genere (9%), la disabilità (5%) e la religione (4%).

Le conseguenze sono abbastanza pesanti

In capo a tutti la perdita di autostima, sicurezza e fiducia negli altri, riscontrata dal 75% dei giovani, mentre il 47% affermi di soffrire di ansia sociale e attacchi di panico e per il 45% è motivo di isolamento e allontanamento dai coetanei. Gli altri effetti negativi sono: difficoltà di concentrazione e basso rendimento scolastico (28%), depressione (28%), paura e rifiuto della scuola (24%), disturbi alimentari (24%), autolesionismo (20%).
Tra le violenze fisiche, di cui è stato testimone il 46.5% dei ragazzi, le più frequenti sono le aggressioni (68%) e gli scherzi pesanti (63%).

Anche il web è percepito come il luogo dove è più probabile essere vittime di violenza, indicato dal 39% delle risposte, segue la strada (41%).

La violenza in classe viene esercitata anche contro il personale scolastico

Docenti accoltellati da studenti, altri presi di mira con pallini di gomma mentre sono in cattedra, presidi schiaffeggiati, personale scolastico aggredito da familiari degli alunni. È solo una parte dei casi di cronaca che si sono verificati nell’ultimo periodo. Le scuole sono diventate, a conti fatti, dei ring. Ad avere la peggio sempre più spesso è il personale. Che le violenze ai danni del personale scolastico siano in aumento lo dicono i numeri. Lo scorso anno sono state in tutto 36. Quest’anno sono già 28. E sempre più spesso gli autori delle aggressioni non sono gli allievi, ma i genitori (casi in aumento del 111% rispetto allo scorso anno).

Secondo una indagine di Skuola.net, che ha coinvolto un campione di 2.000 studenti delle classi secondarie superiori, per oltre un quinto (21%) le aggressioni sono figlie dell’atteggiamento delle famiglie, che oggi tendono a giustificare sempre e comunque i figli. Mentre oltre 1 su 10 (il 14%) sostiene che ciò accade perché gli insegnanti hanno perso il blasone e l’autorevolezza del passato. Ma la fetta più grande (37%) individua nella società nel suo complesso la fonte della violenza: l’aggressività è ovunque e i giovani non sfuggono al “contagio”.

Nonostante un’escalation del genere, però, la risposta di docenti e dirigenti scolastici è sinora stata abbastanza morbida, forse per timore di ulteriori repliche ma anche per la consapevolezza di non avere nelle famiglie degli alleati su cui poter contare ciecamente.

Basti pensare che, in base al racconto degli studenti interpellati dal sondaggio di Skuola.net, quando sono accaduti episodi che hanno avuto strascichi disciplinari, la maggior parte dei genitori non si è schierata apertamente dalla parte dell’insegnante: in circa la metà dei casi (49%) le famiglie solitamente hanno voluto approfondire la questione, mentre in quasi un terzo (29%) hanno optato per la strenua difesa dei figli; solamente il 22% ha invece raccontato che la «denuncia» formale della scuola ha trovato sempre terreno fertile e appoggio da parte dei famigliari dell’aggressore.

La questione educativa interpella, dunque, sempre più il mondo adulto

Oggi più che mai. I giovani sono figli del tempo che vivono e sono la proiezione di quanto il mondo adulto propone e testimonia. Certo ci sono delle responsabilità e sono di quanti in questi decenni hanno condotto un sistematico smantellamento di quella cultura educativa fatta di regole da rispettare, di buoni comportamenti. Gli adulti devono vigilare di più e soprattutto devono ricordarsi di essere modelli per i giovani. Infatti tra i fattori di rischio per il bullismo c’è anche lo stile educativo che alcuni genitori assumono:troppo permissivo o troppo autoritario. Messaggi che lasciano ai ragazzi l’idea che la prevaricazione sia un modello di affermazione sociale.

E poi ci sono  i messaggi della televisione, di trasmissioni televisive che coltivano  il peggio della nostra umanità, di internet, degli stessi videogiochi. Rispecchiano modalità di vita che non fanno passare modelli positivi di responsabilità, di attenzione agli altri, di senso del dovere, di impegno, di onestà.

Come prevenire il bullismo allora?come intervenire di fronte ai comportamenti pre-devianti?

Il bullismo può originare anche dall’esasperazione di conflitti presenti nel contesto scolastico. Il conflitto è da considerarsi come un campanello d’allarme e può degenerare in forme patologiche quando non si hanno gli strumenti che permettono di riconoscerlo, esprimerlo e gestirlo in un’ottica evolutiva dei rapporti. Se non gestito, il conflitto rischia di mutarsi e provocare effetti distruttivi sulle relazioni (prevaricazione e sofferenza) e sull’ambiente (alterazione del clima gruppo).

Prevenire e affrontare il bullismo, dunque, significa non solo identificare vittime e prepotenti, ma affrontare e intervenire sul gruppo dei pari nel suo insieme.

La classe è , nello specifico, il luogo privilegiato in cui, dopo il verificarsi di un caso di bullismo ma anche nell’intento di prevenire il dilagare di certi fenomeni, si deve svolgere l’irrinunciabile azione educativa a favore di tutti gli studenti, coinvolgendo i genitori degli allievi e delle allieve e tutti i docenti.

La cronaca ci  riserva negli ultimi tempi anche  notizie di insegnanti resisi responsabili di episodi sconcertanti

Di fronte a comportamenti di tale gravità la risposta possibile è: tolleranza zero. Migliaia e migliaia di insegnanti seri della scuola italiana non meritano di essere screditati da pochi irresponsabili, sì da parlare di bullismo alla rovescia.

Sottolineare invece che è il caso di ripensare il percorso formativo dei futuri docenti questo sì. Nella formazione necessita più preparazione pedagogica e psicologica. Il mestiere dell’insegnante non può essere omologato agli altri, ha una sua specificità che consiste nel non gestire pratiche di ufficio ma relazioni umane intanto e su queste innescare i meccanismi dell’apprendimento.

Sono spie di un malessere ,di situazioni di inadeguatezza che forse ci fanno capire che è giunto il momento di iniziare a rivedere i meccanismi di selezione degli educatori; ma  che è anche necessario un forte sostegno alla professione docente, riconoscere alla scuola dentro la società l’importanza che merita,  richiamare al senso di responsabilità tutti coloro che hanno un ruolo fuori e dentro la scuola nel percorso di formazione dei nostri ragazzi.

È arrivato, dunque, il momento in cui si giochi la partita tutti insieme. Quali proposte intanto?

La scuola è comunque  testimone di ciò che avviene al suo interno e, dunque, anche delle situazioni di difficoltà, disagio, disadattamento, sofferenza dei propri studenti e, perché no, dei propri insegnanti ,che, ancorché non prodotti da fatti-reato, ovvero prodotti da reati non procedibili, dovrebbero tuttavia mobilitare interventi di sostegno e di rieducazione da parte delle istituzioni. Va riconosciuta la necessità di rimotivare l’azione della scuola nei confronti del disagio, coinvolgendo i servizi sociosanitari del territorio per istituzionalizzare il servizio di counseling scolastico non solo per gli allievi, anche per docenti e genitori.

Magari un servizio strutturato di psicologia scolastica, frutto di una intesa inizialmente sperimentale tra Assessorati Regionale alla Sanità e alla P.I.,Ufficio scolastico regionale e Ordine regionale degli psicologi, presso istituti secondari riconosciuti come scuole a rischio per contesto sociale o per consistente numero di popolazione scolastica (è il caso di Reggio), o altro significativo indicatore sociale.

La presenza dello psicologo contribuirà al miglioramento della vita scolastica, supporterà anche le famiglie, migliorerà la qualità dei servizi offerti dalle istituzioni scolastiche e fronteggerà, prevenendoli, i fenomeni di insuccesso formativo, di abbandono, di dispersione e, di disagio giovanile, in particolare il bullismo.

Così come va rilanciata la creazione di un organismo di studio e di analisi, come potrebbe essere un Osservatorio provinciale sul disagio minorile e giovanile, in grado di monitorare il fenomeno e tracciare delle linee guida di intervento, con iL coordinamento di tutte le agenzie educative del pubblico e del privato sociale da parte della Prefettura. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico USR Calabria]

PNRR, LE SCELTE DELL’ALGORITMO HANNO DANNEGGIATO IL SUD: SOTTRATTI 25 MLD

di PIETRO MASSIMO BUSETTASolo un algoritmo! Nessun intervento particolare tanto che molti Paesi hanno avuto risorse maggiori rispetto all’Italia. Gli 800 miliardi di euro di fondi europei del Pnrr furono assegnati “in base a un algoritmo” e «non sono state negoziati dai Capi di  Governo». E anche sul “sacco di soldi” ricevuti «c’è un po’ di retorica italiana».

«L’Italia è il settimo Paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil. Ci sono altri che in termini relativi hanno portato a casa molto di più, dalla Spagna alla Croazia. Sempre grazie all’algoritmo». 

Le dichiarazioni di Paolo Gentiloni innescano una polemica con il Movimento Cinque Stelle, che accusa il Commissario Europeo all’Economia di “riscrivere la storia” e di “manipolare la genesi” del Recovery Fund «provando a minimizzare il ruolo» del Governo guidato all’epoca da Giuseppe Conte

Ma cosi si parlò il Commissario Europeo, con una dichiarazione  tranciante rispetto al racconto dei Cinque Stelle, che attribuivano al loro leader, Giuseppe Conte, il merito di aver avuto risorse importanti per il nostro Paese. 

In realtà “secondo un algoritmo” sembra una cosa talmente complicata da non essere facilmente compresa. Invece è tutto molto semplice: le risorse sono state assegnate ai singoli Paesi in rapporto a tre variabili: il reddito pro capite, l’ampiezza demografica e il tasso di disoccupazione.

Una distribuzione in Europa fatta in base a un algoritmo, quindi senza alcuna possibilità di interferire con i numeri rispetto a contrattazioni o possibili pressioni.

Queste risorse in Italia, invece di essere redistribuite sui territori in funzione dello stesso algoritmo, come sarebbe sembrato logico, si cambia registro e si procede con sistemi differenti che alla fine della fiera portano al Sud un importo inferiore rispetto a quello che sarebbe stato dato con il calcolo effettuato in sede europea. 

Cioè se il Mezzogiorno fosse stato una delle nazioni dell’Europa, con i suoi 20 milioni di abitanti, con il suo tasso di disoccupazione e il suo reddito pro capite,  avrebbe avuto diritto a una percentuale maggiore delle risorse assegnate col Pnrr. 

La distribuzione delle risorse all’interno del Paese è stata distorta a favore della  sedicente locomotiva settentrionale, in una logica che avrebbe previsto importi rilevanti per una parte che, se fosse stata separata dal Sud, ne avrebbe usufruito in modo molto contenuto, come è successo a Germania e Francia.

L’Italia ha avuto 68,88 miliardi di euro a fondo perduto. Doveva averne invece in base alla popolazione 48,95. Vuol dire che ha avuto una differenza di 19,93 miliardi in più per l’esistenza del Mezzogiorno, considerato che gli altri due parametri sono stati il tasso di disoccupazione e il reddito pro-capite.

E allora siccome i fondi teorici erano 48,95 miliardi, il 33%, cioè 16,153, devono essere assegnati al Mezzogiorno in base alla popolazione, la differenza di 19,93 è dovuta al fatto che c’è un Mezzogiorno con i suoi pessimi parametri. Arriviamo a 36,08 su 68,88 assegnati che corrispondono al 53% del totale risorse a fondo perduto. Poiché il nostro Paese ha deciso di assegnare  al Mezzogiorno il 40%, vuol dire che ha sottratto, di ciò che l’Europa aveva destinato, il 13%. Se estendiamo la stessa percentuale anche ai fondi a prestito, su 191,5 miliardi il 13% sottratto corrisponde a 25 miliardi. Una bella cifra.

D’altra parte è la logica che in Italia è stata sempre sottostante alle risorse comunitarie che, invece di essere state aggiuntive rispetto a una distribuzione di risorse equa per la spesa ordinaria, sono andate a sostituire la stessa, ottenendo un risultato inaccettabile che, complessivamente, anche sommando quella che avrebbe dovuto essere la spesa straordinaria, ha portato a una spesa pro capite assolutamente differente tra Nord e Sud, con una prevalenza decisa di quella assegnata al Nord. 

Di tale devianza ha sofferto la distribuzione per anni, che si riassume nel riferimento alla spesa storica. Quindi prima distorsione nell’assegnazione delle risorse, ma sono  consapevole che tale fase  è solo un primo passo rispetto all’effettuazione della spesa. 

Per far sì che le risorse arrivino sui territori sono necessari tanti passaggi, che riguardano progetti adeguati, strutture che riescano ad assegnare, in tempi compatibili con le problematiche da affrontare, le risorse ai progetti che si presentano, e infine un monitoraggio dei lavori, che vengano completati nei tempi previsti.

Tutto questo al Sud non ha funzionato ed è probabile, al netto di interventi dirompenti, che continuerà a non funzionare, in particolare se le risorse vengono assegnate a bando, come nel caso degli asili nido, che solo recentemente hanno avuto una correzione, per cui i Comuni più attrezzati riuscivano ad avere le risorse, indipendentemente dalle effettive esigenze. 

A metà del cammino del Pnrr, mentre l’Europa continua a liquidare le tranche previste, asseverando un corretto funzionamento dello strumento, la sensazione invece è che nemmeno quel 40% previsto alla fine arriverà sui territori meridionali. 

 E se non si approfitta del Pnrr per estendere gli stessi diritti di cittadinanza, quelli che sono misurati dai livelli essenziali delle prestazioni, i cosiddetti Lep, prodromici all’attuazione delle autonomie differenziate chieste dalle regioni del Nord, come potranno livellarsi in futuro? Rimane una domanda senza risposta.

Ma al di là degli importi dovuti all’una e all’altra parte, in ogni caso quel 40% individuato vogliamo che arrivi sui territori?

Compito della struttura del ministro Raffaele Fitto è controllare che almeno questo avvenga. E di intervenire nel caso in cui i ritardi accumulati rischino di far perdere le risorse alla realtà del Sud. 

Mentre è chiaro che non è cosa semplice fare spendere risorse importanti a chi non ha alcuna struttura amministrativa non si può accettare il principio che hanno proposto Giuseppe Sala e Luca Zaia di trasferire i soldi a loro perché sono più bravi a spendere. 

Ma non solo perché sarebbe ingiusto ma perché non conviene al Paese, che oggi deve puntare tutto sulla carta vincente che ha a disposizione. Quel Sud che al di là delle iperboli sul fatto che sia diventato la locomotiva è necessario che venga adeguatamente sviluppato per contribuire allo sviluppo complessivo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]