DECRETO COESIONE, LA SVIMEZ PERPLESSA
SUI LIVELLI DI PREVISIONE DELLA SPESA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Ci sono forti criticità, secondo la Svimez, nel decreto Coesione. Il presidente Adriano Giannola e il direttore Luca Bianchi, nel corso dell’audizione in Commissione Bilancio al Senato sul decreto, hanno sottolineato diverse incongruenze che andrebbero sanate: se da una parte con la nuova governance il decreto riesce a rendere effettivi gli obiettivi legati alla politica di coesione, dall’altra non soddisfa a livelli di previsione di spesa.

Nello specifico, per l’Associazione «livelli inadeguati di spesa ordinaria in conto capitale nel Mezzogiorno hanno reso sostitutiva (e solo parzialmente) la spesa della politica di coesione europea e nazionale, indebolendone le finalità di riequilibrio territoriale», in quanto «fissa al 40% la quota delle risorse ordinarie in conto capitale che le Amministrazioni centrali dello Stato sono tenute a destinare agli interventi da realizzare nelle regioni del Mezzogiorno. Si tratta di una maggiorazione rispetto a quanto introdotto dal decreto-legge n. 243 del 2016, convertito nella legge n. 18/2017, che prevedeva la cosiddetta «clausola del 34%».

Il Dl, infatti, contiene disposizioni dirette a dare attuazione alla riforma 1.9.1 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) – come modificato con decisione del Consiglio dell’Ue dell’8 dicembre 2023 – che mira all’accelerazione e al recupero di efficienza della politica di coesione.

Con tali finalità, nel quadro dell’Accordo di partenariato e per tutti i programmi europei in corso, si prevede di rafforzare il coordinamento tra Amministrazioni e di promuovere la complementarietà e le sinergie dei progetti attuati con i fondi europei per la coesione con gli investimenti finanziati dal Pnrr e dalla coesione nazionale (Accordi per la coesione), tenendo anche conto del Piano strategico della Zes Unica per il Mezzogiorno, quest’ultimo da adottare entro il prossimo 31 luglio.

Tuttavia, per la Svimez, «l’effettiva attuazione della riforma dipenderà inoltre dall’incisività delle misure di rafforzamento della capacità amministrativa degli enti decentrali previste dello stesso “Decreto Coesione”. Le accresciute responsabilità dei presidi tecnici centrali, inoltre, dovranno accompagnarsi a una nuova e maggiore capacità di verifica e controllo da parte delle strutture di recente interessate da un processo di profonda riorganizzazione ancora in fase di completamento».

E, attualmente, il Decreto che «fa riferimento esplicito alle «amministrazioni centrali dello Stato», restringendo l’ambito di applicazione della clausola rispetto alla Legge di Bilancio per il 2019, che lo aveva esteso anche ai contratti di programma tra il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e Anas SpA e a quelli tra il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e Rete Ferroviaria Italiana SpA. Ciò rappresenta una rilevante criticità, dal momento che la quota del 40% si applica a un ammontare di risorse inferiore».

In questo modo per l’Associazione, «si smarrirebbe l’impostazione opportunamente accolta nella norma della Legge di bilancio per il 2019: è l’intensità dell’azione dell’operatore pubblico nella sua interezza e nella complessità dei suoi soggetti e delle sue funzioni che determina effetti sul territorio, sia in termini di erogazione di spesa pubblica che di dotazione di servizi per il cittadino. Sarebbe, perciò, opportuno integrare il dispositivo per estendere l’ambito di applicazione alle imprese a controllo pubblico e introdurre adeguati strumenti di monitoraggio».

Nella nuova governance, infatti, per rendere effettivi tali ambiziosi obiettivi, viene rafforzato il ruolo dell’Autorità politica per la coesione. Quest’ultima – attualmente, il Ministro per gli Affari europei, il Sud, le politiche di coesione e per il Pnrr – presiede la Cabina di Regia con funzioni di: coordinamento tra programmi nazionali e regionali della coesione europea; promozione della complementarietà tra interventi del Pnrr e della coesione europea e nazionale; verifica delle attività di monitoraggio sull’implementazione dei programmi, delle quali è responsabile il Dipartimento per le politiche di coesione.

L’ambito di applicazione delle nuove disposizioni del “Decreto Coesione” – ha rilebvato la Svimez – riguarda le azioni dei programmi nazionali e regionali attuativi del ciclo di programmazione 2021-2027 ricadenti nei seguenti settori strategici: risorse idriche; infrastrutture per il rischio idrogeologico e la protezione dell’ambiente; rifiuti; trasporti e mobilità sostenibile; energia; sostegno allo sviluppo e all’attrattività delle imprese, anche per le transizioni digitale e verde.

L’Autorità politica viene investita di rafforzati poteri di indirizzo e controllo, presidiando al coordinamento con le Amministrazioni (Ministeri, le regioni e le province autonome) responsabili dei programmi, che è previsto si realizzi attraverso la condivisione di un elenco di interventi prioritari per ciascuno dei suddetti settori strategici, da selezionare in base a stringenti criteri, anche tenendo conto delle previsioni del Piano strategico della Zes Unica.

In coerenza con la dichiarazione di principio di adottare un «approccio orientato al risultato», per tutti gli interventi prioritari concordati, le Amministrazioni sono tenute a seguire cronoprogrammi procedurali e finanziari modificabili solo nel caso di impossibilità di rispettarne le tempistiche a causa di circostanze oggettive.

«I cronoprogrammi – ha ricordato l’Associazione – devono prevedere il conseguimento di obiettivi iniziali, intermedi e finali, individuati in relazione alle principali fasi di realizzazione degli investimenti: completamento delle procedure di selezione delle operazioni e di individuazione dei beneficiari;  assunzione di obbligazioni giuridicamente vincolanti; completamento dell’intervento. La verifica del rispetto dei tempi previsti per l’attuazione degli interventi e del conseguimento dei relativi risultati, viene svolta dal Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud, al quale le Amministrazioni trasmettono relazioni semestrali sulla realizzazione degli interventi prioritari».

La riforma introduce poi un meccanismo di premialità per le Amministrazioni regionali adempienti rispetto a tempistiche e conseguimento degli obiettivi. La premialità, in particolare, consiste nell’utilizzo delle (eventuali) economie delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione (Fsc) – maturate in relazione agli interventi conclusi nell’ambito degli Accordi per la coesione – per coprire integralmente la parte di cofinanziamento regionale dei programmi europei Fesr e Fse Plus. Ciò si traduce nella possibilità di coprire con risorse FSC l’intera quota del cofinanziamento nazionale posto a carico delle regioni (30% del totale), in misura doppia rispetto all’attuale valore massimo di 15 punti percentuali.

Il «Decreto Coesione» richiama, inoltre, la possibilità del ricorso ai poteri sostitutivi nei casi di inerzia, inadempimento o mancato rispetto delle scadenze dei cronoprogrammi da parte delle Amministrazioni responsabili, per scongiurare rischi di disimpegno automatico dei fondi erogati dall’Unione Europea.

Infine, vengono introdotte nuove disposizioni in materia di utilizzazione delle risorse 2021-2027 del Fsc. Si prevede, in particolare, la possibilità di assegnare con delibera del Cipess le risorse del Fondo, quale anticipazione, anche alle Regioni con le quali non sia stato ancora sottoscritto l’Accordo per la coesione (Campania, Sicilia, Sardegna e Puglia).

Nello stesso Decreto si dà corso a tale possibilità nella previsione contenuta all’art. 14, dove si prevede che a copertura degli interventi previsti per il Risanamento del sito industriale di Bagnoli-Coroglio, concorrano le risorse finanziarie indicate in via programmatica per la Regione Campania dalla delibera del Cipess n. 25 del 2023 (1,2 miliardi di euro per il periodo 2024-2029).

Per la Svimez, dunque, «nel complesso l’azione governativa risponde alle esigenze di coordinamento maturate successivamente all’avvio del Pnrr, rese ancor più cogenti alla luce delle criticità attuative e delle successive revisioni del Piano. Trasversalmente alle innovazioni di governance, emerge il disegno di rafforzamento dell’Autorità politica della coesione, nei ruoli di indirizzo della programmazione, selezione degli interventi prioritari e monitoraggio dell’attuazione dei programmi nazionali e regionali».

«La scelta di accrescere i poteri centrali – viene evidenziato ancora – è coerente con l’obiettivo dichiarato di rafforzare il livello di efficacia e di impatto degli interventi della coesione europea in raccordo con le altre programmazioni con finalità di riequilibrio territoriale. Questa impostazione risponde alle intenzioni della riforma di adottare un approccio orientato al risultato. In tal modo, il governo pare voler recepire già nella programmazione in corso a livello nazionale, le indicazioni emerse nel dibattito sul futuro della coesione nel post-2027: uniformare la coesione europea «tradizionale» al modello performance based del Pnrr».

«La riformata governance multi-livello nazionale che ne deriva segna un positivo ritorno di assunzione di responsabilità del governo nazionale sugli interventi orientati alla coesione territoriale», scrivono nella loro relazione Giannola e Bianchi, sottolineando come «le Amministrazioni responsabili, nel momento in cui presentano l’elenco degli interventi prioritari, vengono poste di fronte a una duplice e impegnativa sfida attuativa: rispettare le tempistiche europee di certificazione della spesa e quelle nazionali di raggiungimento dei risultati fissati dai cronoprogrammi».

Nonostante questo, «va rimarcato – si legge nel testo – che il verificarsi delle condizioni necessarie per dar corso all’attivazione dei meccanismi premiali non è privo di incertezze. L’accesso alla premialità, infatti, richiede alle Amministrazioni di essere adempienti sia sui cronoprogrammi degli interventi finanziati dalle europee, sia su quelli inclusi negli Accordi per la Coesione. L’applicazione di tale previsione richiederà dunque una tempestiva verifica degli stati di avanzamento e completamento degli interventi FSC, storicamente caratterizzati da procedure complesse e tardive. A ciò si aggiunge l’ulteriore di criticità dei ritardi già maturati dalle quattro Regioni del Mezzogiorno con le quali non è stato ancora sottoscritto l’Accordo per la Coesione».

«Si è detto, poi – continua la nota della Svimez – che la premialità introdotta dalla riforma si basa sulla possibilità per le Amministrazioni regionali di avvalersi delle risorse FSsc  a copertura del cofinanziamento regionale di spese di investimento dei programmi regionali cofinanziati dai fondi europei Fesr e Fse Plus, liberando le relative risorse nei bilanci locali. Andrà però verificato se le Amministrazioni valuteranno l’incentivo finanziario commisurato allo sforzo amministrativo aggiuntivo richiesto per accedervi».

«Un’ultima considerazione – si legge – merita un aspetto che interessa tutte le programmazioni degli investimenti con finalità, diretta o indiretta, di riequilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture e nei livelli dei servizi offerti a cittadini e imprese. La nuova governance ha restituito al presidio politico centrale una maggiore responsabilità di indirizzo e monitoraggio dei programmi nazionali e regionali. Per rendere monitorabile l’efficacia del nuovo modello e valutabile l’avanzamento finanziario del complesso delle programmazioni, andrebbero fissati obiettivi di spesa di breve e medio termine. Nel caso dei fondi europei, ad esempio, per valutare in itinere quanto il nuovo modello sia in grado di conseguire l’obiettivo dell’accelerazione, gli obiettivi andrebbero fissati rispetto ai dati di attuazione del ciclo di programmazione 2014-2020. Analogamente, si potrebbe procedere nel caso dell’Fsc».

Il Decreto, inoltre, interviene anche sulla materia di perequazione infrastrutturale, sia per gli interventi finanziati con le risorse aggiuntive destinate a colmare il gap infrastrutturale delle regioni in ritardo di sviluppo, sia per quelli coperti da risorse ordinarie senza vincoli ex ante di destinazione territoriale.

il Decreto rinomina in «Fondo perequativo infrastrutturale per il Mezzogiorno» il «Fondo perequativo infrastrutturale» istituito dall’art. 22 della legge delega n. 42 del 2009. Le regioni del Mezzogiorno saranno dunque esclusive beneficiarie degli interventi che si prevede di finanziare nei seguenti ambiti: infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, idriche, nonché a strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche, coerenti con le priorità indicate nel Piano strategico della Zes unica. Per la Svimez «si tratta, però, di una ridenominazione di un Fondo esistente interessato di recente da un rilevante definanziamento».

Per dirla in parole povere, «il Decreto introduce una riforma del Fondo che, da un lato introduce una destinazione esclusiva per le regioni del Mezzogiorno, dall’altra però non interviene sull’esiguità delle risorse disponibili».

Per la Svimez, infine, un «tema ancora più decisivo» rimane, infatti, quello dell’effettiva capacità di monitoraggio ex ante, di verifica ex post e, infine, delle sanzioni per le Amministrazioni che non raggiungono la quota. In questi anni, in assenza di criteri di cogenza, la clausola non ha mai trovato concreta attuazione da parte delle Amministrazioni e, nel tempo, si è anche ridotta la disponibilità di basi informative in grado di offrire tempestivamente un quadro sull’allocazione territoriale della spesa ordinaria in conto capitale. A tal proposito, il «Decreto Coesione» non introduce meccanismi di monitoraggio degli stanziamenti e delle risorse per investimenti effettivamente spese nei territori dalle Amministrazioni, né meccanismi di compensazione degli scostamenti dalla quota fissata.

A tal proposito, è utile il riferimento a quanto a suo tempo previsto per il finanziamento aggiuntivo dei cosiddetti «progetti speciali» della Cassa per il Mezzogiorno. (ams)

 

MOBILITÀ IN CALABRIA, UN PROBLEMA A CUI
SERVONO STRUMENTI E UNA SERIA POLITICA

di GIOVANNI MACCARRONE – Negli ultimi tempi la discussione sul ponte di Messina ha accesso nuovamente il dibattito sulle politiche di mobilità e trasporti nel Meridione.

La letteratura in questo senso si è di recente arricchita di scuole di pensiero e di diverse teorie sulla possibilità di rendere più sostenibile la mobilità all’interno delle nostre città o tra città appartenenti alla nostra regione.

Ogni mattina, gran parte delle persone esce di casa per dirigersi in qualche posto.

Pensiamo ai lavoratori che si recano al proprio posto di lavoro oppure agli studenti che vanno a scuola per svolgere le attività didattiche. È emerso che i mezzi pubblici sono utilizzati assai di rado, mentre l’auto o lo scooter privato risultano essere i mezzi di trasporto più scelti in Calabria.

A Catanzaro, in particolare, ci si sposta quasi sempre con veicoli a motore anche se il luogo di lavoro o la scuola sono abbastanza vicine alla propria abitazione. In Calabria, quindi, si registra una percentuale bassissima dell’uso dei mezzi pubblici e una percentuale altissima dell’uso dei veicoli a motore.

Questi spostamenti – che nel tempo si sono intensificati ed evoluti nelle forme e nei modi – avvengono per la maggior parte in città, o tra città della nostra regione.

Inoltre riguardano anche gli spostamenti dalla propria regione per comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza e motivi di salute.

Per questo quella della mobilità è una delle sfide più impegnative e determinanti per la nostra regione, non solo in una prospettiva di sostenibilità ambientale, ma anche economica e sociale.

Pensate ai pericoli sulla strada e alle spese extra che tutte le famiglie devono affrontare/sopportare tutti i giorni.

Pur comprendendo la consistenza e complessità del problema e dopo diverse sollecitazioni informali, la mancanza di risposte, a circa 50 anni di distanza alla richiesta dei cittadini calabresi di attivare un confronto tra le parti sociali per rendere più efficiente la mobilità urbane ed extraurbana in Calabria, appare essere del tutto sorprendente.

La totale indifferenza e la completa sottovalutazione della problematica da parte dei diversi protagonisti sociali, politici, istituzionali ci lascia francamente sgomenti.

Non si può più aspettare, né tantomeno tergiversare. Devono immediatamente essere messi in atto strumenti e politiche per rendere più vivibili ed efficienti i servizi.

Ciò significa anche “produttivizzare” il territorio in senso logistico per promuovere un aumento dell’occupazione e delle esportazioni.

Queste ultime ricoprono un ruolo fondamentale per la ripresa dell’economia calabrese.

Non è dubbio, infatti, che investire nelle autostrade, nell’alta velocità, nei collegamenti tra l’aeroporto di Lamezia e il resto del territorio e nei porti significa sfruttare meglio la posizione poco privilegiata della nostra terra.

Soprattutto, permette di condividere servizi logistici fra le imprese presenti sul territorio e quelle che si trovano altrove, attraendo nuovi investimenti e traffici internazionali.

Attualmente, invece, i binari ferroviari sono pochi, l’Alta Velocità arriva fino alla Regione Campania, tram e metropolitane sono praticamente inesistenti e il grado di soddisfazione per bus e pullman è nettamente più basso rispetto alle altre aree del Paese.

Inoltre, l’autostrada che collega Salerno a Reggio Calabria passando per Cosenza Vibo Valentia (Autostrada A2, detta anche autostrada del Mediterraneo oppure Salerno – Reggio Calabria), a parte i crolli, presenta strade impervie e dall’asfalto non perfetto.

È sempre piena di cantieri, deviazioni, buche e rattoppi o a lunghi tratti a doppio senso di marcia. Pur essendo a doppia corsia per senso di marcia, per lunghi tratti di strada si presenta perennemente ad una sola corsia.

L’A3 passa da Lauria e Lagonegro, dove ogni anno, d’inverno, si moltiplicano i disagi provocati dal freddo e dalla neve. Il progetto originario dell’autostrada, realizzato nel 1961, prevedeva un tracciato litoraneo, lungo la costa del basso Tirreno.

Invece, alla fine si è preferito farla passare dalla Valle del Crati e da Cosenza, vale a dire dalla catena montuosa della Sila, con tutte le conseguenze che abbiamo sopra evidenziato.

Potrebbe essere utile ai cittadini e agli operatori economici, quindi, una rivisitazione sostanziale della rete autostradale finora utilizzata in modo da evitare tutti i disagi che sono costretti ad affrontare tutte le volte che viaggiano in direzione Salerno oppure verso Reggio Calabria.

Così come sarebbe altrettanto utile prevedere la realizzazione di reti di trasporto metropolitano leggero tra l’aeroporto internazionale di Lamezia Terme e l’autostrada e tra questo aeroporto e Catanzaro.

Come giustamente è stato osservato «Solo trenta km dividono Lamezia da Catanzaro: un piccolo spazio da superare che, tuttavia, pesa enormemente nella dinamica complessiva. Una città Capoluogo di regione, collegata malamente alle strutture di trasporto regionale e internazionale, aeroporto e autostrada, senza stazione ferroviaria adeguata a Germaneto. Scarsi e inefficaci i collegamenti ferroviari».

Insomma, quasi certamente è un vero e proprio disastro

E non parliamo della situazione relativa alla tratta Catanzaro lido – Crotone – Sibari.

Binario unico, poche corse, treni fatiscenti e vetusti e in più spesso la sorpresa di apprendere durante il viaggio dal capotreno che il treno proveniente da Lamezia verso Catanzaro Lido non troverà alcuna coincidenza per Crotone.

Un complimento è dire che è roba da “Far West”, seppure comico. In realtà sembra di respirare, nel 2024, sempre più un’aria da Terzo mondo.

Non dimentichiamoci, poi, l’Alta Velocità programmata da Rfi (Rete Ferroviaria Italiana).

Sappiamo che essa si ferma a Napoli, per poi procedere lentamente, con passo da lumaca, a tentoni, nel resto del Mezzogiorno. In altri termini, per arrivare in treno a Reggio di Calabria Centrale da Napoli Centrale bisogna affrontare mediamente circa 5h e 24 minuti, quando per la tratta Milano – Roma si impiegano soltanto 3h e 10 minuti.

Servirebbe, quindi, un urgente confronto tra Governo, enti, istituzioni regionali, imprenditori interessati e opinione pubblica per trovare soluzioni legate alle innovazioni infrastrutturali, tecnologiche e organizzative necessarie.

Solo garantendo una maggiore organizzazione delle azioni di tutti gli attori interessati in un sistema logistico, è possibile favorire uno sviluppo compatibile a livello settoriale e territoriale, che sia in grado di conferire efficienza e competitività territoriale delle regioni del Mezzogiorno, di ottimizzare la mobilità urbana ed extraurbane e, soprattutto, di migliorare la vita dei cittadini. (gma)

UNIVERSITÀ MAGNA GRAECIA: CATANZARO
ATTRAE STUDENTI IN CERCA D’ECCELLENZA

di GIOVANNI CUDADesidero fornire alcune precisazioni sulla nostra Università, soprattutto per infondere fiducia ai giovani e rassicurarli sull’ottimo stato di salute del nostro Ateneo che è in grado di offrire una didattica moderna, multidisciplinare e di qualità e una ricerca di elevato spessore.

Ritengo necessario fare questa precisazione fornendo i dati obiettivi relativi agli ultimi 15 anni di attività, proprio per mettere a tacere le incomprensibili polemiche e le insinuazioni apparse in questi ultimi mesi sugli organi di stampa relative alla nostra Università che possono confondere i giovani calabresi favorendo la loro emigrazione per motivi di studio in altre Regioni italiane.

Se ciò accadesse sarebbe un danno irrimediabile per la nostra Regione tale da compromettere definitivamente la crescita economica e sociale della nostra popolazione.

Ecco, dunque, i dati più rilevanti relativi agli ultimi 15 anni (2009-2023) sui principali indicatori espressione di qualità e di crescita dell’Ateneo Magna Graecia di Catanzaro.

Corsi di Laurea: siamo passati da 19 Corsi di Laurea nell’anno 2009/10 a ben 38 nel corrente anno accademico con un significativo incremento nel numero e nella qualità dell’offerta formativa caratterizzata da una forte multidisciplinarietà. Solo per fare un esempio, vale ricordare l’attivazione di nuovi corsi di studio come Psicologia cognitiva, psicologia forense e criminologica, biotecnologie molecolari per la medicina personalizzata, scienze biologiche per l’ambiente che si aggiungono ai Corsi di studio più tradizionali che comprendono le scienze giuridiche, storiche, economiche e sociali, l’area ingegneristica (triennale e magistrale) e l’area biomedico-farmacologica.

Il significativo incremento dei Corsi di Laurea e la varietà dell’offerta formativa hanno determinato una forte crescita delle immatricolazioni che sono passate da 2.171 nell’anno 2010 a ben 3.372 nel corrente anno con un incremento del 55%. Un risultato straordinario e in controtendenza rispetto al resto del Paese che ha visto un decremento del numero di iscritti nelle Università.

Dottorati di ricerca: siamo passati da 4 Corsi di Dottorato con 45 iscritti/anno nell’anno 2009/10 a ben 13 Corsi di Dottorato con un totale di 99 iscritti/anno. Anche in questo caso, il nostro Ateneo ha aumentato in modo significativo il numero e la multidisciplinarietà dei Corsi con l’obiettivo alto di preparare i giovani laureati all’inserimento nel mondo del lavoro e, in particolare all’inserimento nel mondo accademico. I giovani dottori di ricerca, molti dei quali sono calabresi che hanno studiato con noi, saranno infatti i professori del domani che contribuiranno alla crescita della nostra bella Università.

Assegni di ricerca: siamo passati da 42 nel 2009/2010 a 150 nel corrente anno. Gli assegni di ricerca sono stati prevalentemente conferiti a giovani laureati calabresi per consentire loro il proseguimento dell’attività di ricerca nell’Ateneo, indispensabile per la formazione scientifica e la futura carriera accademica. Ne è testimone, il significativo numero di nuovi ricercatori assunti nel nostro Ateneo, tutti con una brillante attività scientifica.

Scuole di Specializzazione: siamo passati da 19 Corsi di Specializzazione nel 2009/2010 con 83 iscritti a ben 32 Corsi di Specializzazione con 798 iscritti nel corrente anno. È un risultato eccezionale se si tiene conto delle normative attuali molto rigorose sulle Scuole di Specializzazioni, che è stato possibile raggiungere anche grazie all’intervento illuminato della Regione Calabria e, in particolare del Presidente Occhiuto, che hanno dato un contributo notevole all’ampliamento dei posti di Specializzazione.

Si tratta di un’opportunità molto importante, specie in un momento drammatico come l’attuale che vede una carenza marcata dei medici nel territorio calabrese. Mi piace sottolineare che la maggior parte degli specializzandi del nostro Ateneo sono stati e saranno assunti negli Ospedali per tamponare la carenza dei medici e al tempo stesso migliorare l’offerta sanitaria.

Personale docente: siamo passati da 224 professori (74 ordinari, 39 associati, 111 ricercatori nell’anno 2009/2010) a ben 345 professori (86 ordinari, 136 associati, 123 ricercatori) nel corrente anno accademico. Questi numeri testimoniano il grande sforzo fatto dall’Ateneo per rispondere alle esigenze dei giovani e del territorio, con l’obiettivo forte di garantire una formazione adeguata e di qualità. Il dato più clamoroso è la creazione di un’Università calabrese in cui la maggior parte del corpo docente è di origine calabrese che si è formata presso il nostro Ateneo e vive e lavora in Calabria.

Pubblicazioni scientifiche: siamo passati da 335 nell’anno 2009 a 1331 nell’anno 2023. Si tratta di un numero enorme di pubblicazioni scientifiche peer-reviewed che esprime molto bene la multidisciplinarietà della ricerca nel nostro Ateneo e al tempo la rilevanza dei progetti scientifici in corso. Ormai in tutto il mondo la qualità delle Università è misurata sulla base delle pubblicazioni prodotte che sono il risultato tangibile dell’attività scientifica della comunità accademica.

La rilevanza dell’attività scientifica della nostra Università è testimoniata dalla classifica della Via Academy che censisce gli scienziati più prestigiosi che abbiano almeno 30 di H-index. In questa classifica pubblica (https://topitalianscientists.org/top-italian-scientists-by-university), la nostra Università è in ottima posizione a livello nazionale e prima tra gli Atenei calabresi con 55 Top Italian Scientists (Tis). Questo risultato, già clamoroso in sé, diventa ancora più eclatante se il numero dei Tis viene rapportato al numero totale dei docenti dell’Ateneo (nel nostro caso, 55/345 pari al 15,9%). Questa proporzione assume una particolare rilevanza nel confronto con le altre prestigiose Università: si pensi che l’Università Federico II di Napoli, prima tra le Università meridionali per numero di Tis, ha un rapporto Tis/docenti pari al 5,2%, una proporzione di gran lunga inferiore a quella del nostro Ateneo che risulta così la prima Università del Sud.

Mi piace concludere questo breve ma chiarificatore intervento con un messaggio ai giovani calabresi: ragazzi non date ascolto alle maldicenze ma guardate ai dati obiettivi. Solo così riuscirete ad avere un’opinione corretta sull’Università Magna Graecia di Catanzaro che Vi permetterà di studiare con fiducia nella nostra Regione acquisendo una formazione moderna, innovativa e di qualità, unica possibilità per avere successo nella vita. (gc)

 

[Giovanni Cuda è Rettore dell’Università Magna Graecia di Catanzaro]

IL PONTE SIA “OPERA TERRITORIALE” E NON
DI INTERESSI DI PRIVATI AI DANNI DEL SUD

di GIOVANNI MOLLICA e ALBERTO PORCELLI – Nelle ultime settimane, i media nazionali hanno evidenziato che alcune società considerate probabili partner di Eurolink per i lavori del Ponte sullo Stretto hanno visto crescere il loro valore. Ne siamo lieti: vuol dire che il mercato crede nell’effettiva realizzazione del sogno di tanti calabresi e siciliani.

Il compiacimento è però appannato dal ricordo di quanto pubblicato nell’ottobre scorso, quando OpenEconomics – azienda specializzata nell’analisi delle politiche d’investimento – pubblicò i risultati dell’indagine relativa al Ponte sullo Stretto.

I 12,3 miliardi di spesa complessiva si trasformeranno in 19,7 mld di Pil, ma i loro effetti saranno molto diversi nelle varie regioni italiane. La Lombardia ne intercetterà 5,6 (28,43%, con 9.337 occupati su 33 mila) e il Lazio 3,7 (18,78% con 6.628 occupati). A Sicilia e Calabria toccheranno 2,1 e 1,9 mld (10,66 e 9,64%), per un totale di circa 6.000 posti di lavoro. In sintesi, sostiene l’azienda romana, oltre il 79,7% dei benefici atterrerà al di fuori dalle due regioni che subiranno il trauma dei lavori. Che sono anche le più povere d’Italia e tra le più arretrate dell’Ue.

Né crediamo che basti appellarsi al “libero mercato” per giustificare quella che appare una grave carenza  di visione politica, sanabile solo mediante interventi perfettamente compatibili con il riformismo di matrice liberale, che Tocqueville, nel 1840 (!!!), chiamava  “scelte pubbliche in campo economico”.

In altre parole, ci farebbe piacere vedere la Politica nazionale e locale sostenere lo sforzo della Società concessionaria di dare al Ponte la qualifica di “opera territoriale”. Cioè quella funzione di stimolo che avvia lo sviluppo sostenibile dell’area interessata ai lavori e fa sì che la crescita non sia solo economica, ma anche sociale e culturale. Condizione fondamentale per la concessione dei contributi europei.

Ed è proprio a tale proposito che apprendiamo con preoccupazione come proceda a grandi passi quanto abbiamo sempre temuto, cioè che – constatata l’inerzia della politica e le esitazioni del sistema imprenditoriale locale – il Contraente generale si organizzi nel proprio esclusivo interesse.

Come sta accadendo.

Non c’è altro modo, infatti, di interpretare le notizie sulla prossima creazione dei campi base, cioè delle “cittadelle” che, in Sicilia e Calabria, ospiteranno le centinaia di lavoratori approdati sulle rive dello Stretto per lavorare nei cantieri del Ponte.
E’ ovvio che, se la manodopera fosse locale, non ci sarebbe bisogno di un’organizzazione logistica destinata a chi viene da altre regioni d’Italia, se non dalla Romania e dal Bangladesh. Un luogo ove passerà anche gran parte delle sue giornate fuori dall’orario di lavoro. Trovando tutto ciò che è indispensabile a una quotidianità di fatica e di sacrifici. Una dotazione logistica ampiamente collaudata nei cantieri di tutto il mondo che assicura alloggio, vitto, servizi igienici e sanitari e perfino il tempo da dedicare allo svago. Rendendo quantomeno improbabile spendere soldi fuori dal perimetro dei cantieri.

Come diceva Agatha Christie, «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, tre indizi fanno una prova”. La prova che il Contraente generale non sembra affatto interessato a collaborare col territorio.
“Ringraziate il cielo che vi stiamo facendo il Ponte” è una delle frasi più sentite a nord della Linea Gustav.

Che fine faranno le speranze dei Tavoli Ponte di Reggio e di Messina?
Si concretizzeranno le timide e incerte proposte di collaborazione degli Ordini professionali, le intenzioni (ancora non materializzate) di costituire consorzi e associazioni di imprese per fornire servizi confortevoli e adeguati alle maestranze, i corsi di Formazione per i lavoratori locali, le Scuole di Alta specializzazione, i tour di visita ai cantieri dell’Ottava Meraviglia del Mondo e le cento altre cose a corredo di un’opera fuori scala rispetto al territorio in cui sorge?

Cosa ne pensano le associazioni datoriali, i sindacati dei lavoratori, gli Ordini professionali e le associazioni di categoria?
Inoltre, chi avvierà un’indagine per verificare se le imprese metalmeccaniche, i cantieri navali, gli studi notarili e legali, gli istituti di vigilanza reggini e messinesi sono in grado di assolvere ai bisogni di Eurolink?

Cresce il rischio che il contributo del territorio sia pressoché nullo; né ci consola l’obiezione – pur validissima – che ci viene ripetuta da più parti in questi giorni: «Il Contraente generale non si è degnato di dirci cosa gli serve».

È vero ma non è arroccandosi in una orgogliosa difesa della propria dignità che si avvia una collaborazione che non riesce a diventare un bagaglio culturale.

La Politica sembra non averlo capito – forse perché non ha la maiuscola -, l’ha compreso, invece la Stazione appaltante, Stretto di Messina, pronta a fare da catalizzatore per innescare la reazione chimica che può far fare l’agognato balzo in avanti a Calabria e Sicilia.
Ma, da sola può fare poco.

Ancora una volta, abbiamo perso troppo tempo in chiacchiere e il mondo non si è fermato ad aspettarci.
L’ennesima occasione perduta? Forse sì. O forse no. Dipende dalla possibilità di organizzare, subito, un piano operativo che metta insieme le imprese aderenti al Tavolo Ponte di Reggio, la società concessionaria e (chissà ?) una Politica locale che comprende che stiamo perdendo l’ennesimo treno.
Un motore che dimostri al Contraente generale che realizzare i Campi base non è “conveniente” rispetto ad “aprirsi” al territorio. Ma deve capirlo, per prima, la Politica, se vuole meritarsi il consenso della gente.

Sappiamo con certezza che, in Sicilia come in Calabria, esistono imprese in grado di competere e vincere la concorrenza delle – certamente più note ma non più efficienti  – aziende di altre parti d’Italia; sappiamo anche che trasportare un modulo dell’impalcato  pesante dalle 50 alle 150 ton – costa meno se l’assemblaggio è stato fatto in uno yard vicino al luogo dove deve essere agganciato ai cavi portanti.
E sono sotto gli occhi di tutti i rischi che si corrono ad allungare oltre ogni logica la filiera degli appalti e subappalti.

Lo sappiamo noi e lo sa la Stazione appaltante, pronta a farsi interprete attiva di quelle finalità sociali che dovrebbero essere la bandiera della politica nazionale e locale.

Cosa aspettiamo?

Abbiamo la pessima abitudine di essere chiari: Presidente Occhiuto, dove sei? (gm e ap)

[Giovanni Mollica e Alberto Porcelli sono Coordinatori dei Tavoli Ponte di Messina e Reggio Calabria]

IL PROBLEMA DEL MARE NON È SOLO ESTIVO
TUTELARE QUESTA RISORSA OGNI GIORNO

di GIOVANNI MACCARRONE – Ho avuto la fortuna di vivere gli anni ’70e ’80. Erano gli anni più spensierati. Vi ricordate quando ad agosto si andava al mare e poi si pranzava sulla spiaggia? Le vacanze per molte famiglie cominciavano a giugno e finivano a settembre. Non esistevano Bandiere Blu, né tantomeno monitoraggi delle acque. Non si sapeva nemmeno cosa fosse. All’epoca, però, si faceva il bagno in un mare azzurro e cristallino che rendeva possibile l’avvistamento di un gran numero di pesci.

Si potevano osservare i fondali incontaminati, ricchi di stelle marine, ricci di mare e una grande varietà di pesci. Si facevano lunghe passeggiate sulla sabbia fine in cerca di qualsiasi oggetto portato dall’alta marea. Si sentiva anche il fragore del mare, le onde impetuose, il profumo del mare. 

Nei decenni successivi è cambiato tutto. Siamo stati costretti ad assistere ad una lenta ed inesorabile cementificazione che ha stravolto l’intero aspetto costiero. Si sono succeduti in rapida sequenza alti e grandi edifici tra loro allineati, costituendo di fatto una muraglia di fabbricati.

Tutto questo ha determinato l’afflusso al mare di acque di fogna a cui si sono aggiunti i fiumi inquinati, canali e torrenti contaminati, depuratori che non funzionano.

Sono decenni, infatti, che il mare è divenuto una sorta di sversatoio, con evidenti danni sull’ecosistema e palesi ripercussioni sulla salute umana.

Sarà capitato a tutti di vedere sia d’inverno che in estate una schiuma gialla che ricoprire un tratto più o meno ampio della superficie del mare. Uno spettacolo di certo sgradevole, che ci fa sempre sorgere dubbi sulla salubrità di uno specifico lembo di costa. 

Dai giornali apprendiamo con vivo stupore che essa non è altro che il prodotto della decomposizione delle alghe marine che, favorita dalle alte temperature, rilasciano nell’acqua una sostanza giallognola e viscosa, trasformata in schiuma dal moto ondoso. 

Ed in effetti, secondo gli studi del famoso James Hansen, climatologo e direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, negli ultimi anni si sta assistendo ad un aumento della temperatura terrestre che prima o poi toccherà i 2°C 

C’è da dire, però, che spesso la produzione di tale spuma non è generata dalle alte temperature dell’aria e della superficie dei mari. Invero, secondo taluni, la presenza di quella schiuma può far supporre che in quel tratto di mare siano stati sversati fertilizzanti utilizzati in agricoltura, i quali costituiscono una fonte di nutrimento per le alghe favorendone perciò lo sviluppo.

Molti prodotti creati dall’uomo vengono riversati nel mare: pesticidi, erbicidi, concimi, detersivi, petrolio, prodotti chimici industriali e acque reflue.

Alcuni di essi vengono depositate nell’ambiente a monte rispetto alle linee costiere. I concimi ricchi di sostanze nutritive utilizzati in agricoltura, ad esempio, spesso vengono riversati nei corsi fluviali locali e finiscono per depositarsi in mare. Questo eccesso di nutrienti scatena la proliferazione di massa di alghe che derubano l’ossigeno acqueo e provocano zone morte in cui solo pochi organismi possono sopravvivere. 

Alcuni di questi organismi vegetali sono dotati di una tossicità tale da pregiudicare sia le specie marine che l’essere umano. Fra queste, va annoverata la “Ostreopsis Ovata”, originaria di ambienti tropicali ma recentemente rinvenuta anche nel Mediterraneo (si veda il monitoraggio di Arpa Puglia 15 – 30 settembre 2023). Si tratta di un organismo di piccole dimensioni la cui presenza nel mare è segnalata da fenomeni quali: Superficie dell’acqua lattiginosa e iridescente; Formazione di schiuma; Fondali coperti da una patina di colore bruno; Piccole specie marine (come stelle di mare o ricci) senza vita o in precario stato di salute.

Questa tipologia di alga può causare problemi alla pelle (tramite contatto), nonchè alle nostre vie aeree, mediante inalazione delle sue microparticelle che il vento aiuta a disperdere nell’ambiente

Non di rado capita di imbatterci anche con chiazze di colore bruno, che per uno spazio più o meno ampio ricoprono un tratto di mare

Per alcuni, esse sono dovute all’azione naturale del fitoplancton (alghe e batteri presenti nell’acqua) favorita dalle elevate temperature della stagione estiva. Per altri, invece, queste disgustose presenze sono il chiaro segno di un sistema fognario mal funzionante (se non del tutto assente) come tale inidoneo a garantire la corretta gestione dei reflui. A prescindere dalla loro origine, la presenza di queste macchie fa sorgere nei bagnanti il dubbio sulla qualità del mare. Dubbio che, talvolta, viene tramutato in certezza dal divieto di balneazione disposto dalle autorità competenti. 

Durante tutto l’anno (e non solo d’estate), dunque, il mare appare spesso molto sporco. E non solo per le schiume e il fitoplancton, ma anche per le scie di rifiuti solidi alla deriva che vengono frequentemente abbandonati dagli incivili.

Non dimentichiamoci, poi, gli scarichi abusivi, la rete fognaria e la depurazione che non funzionano e  – come è stato dimostrato negli ultimi mesi – lasciano andare a mare acque reflue non trattate.

Insomma, da quanto sopra, si può desumere che, a distanza di tanti anni, appare quasi da sognatore ricordare gli anni ’70 e ’80.

La colpa di questa situazione non è da attribuire semplicemente alle Istituzioni che non sono state in grado di gestirla nel modo dovuto e neppure a coloro che fino a non molto tempo fa hanno pensato che il mare è talmente vasto e profondo da credere che, per quanti rifiuti e residui chimici vi venissero versati dall’uomo, gli effetti sarebbero stati irrisori.

La colpa è da attribuire anche a chi come noi (ragazzi degli anni “70” e “80”) ha permesso che tutto ciò accadesse. Ci accorgiamo del mare e dei suoi problemi solo nei mesi estivi quando siamo in vacanza. Invece dovremmo soffermarci sulle questioni di cui sopra tutto l’anno e soprattutto quando facciamo le nostre considerazioni in merito ad un futuro più sostenibile

Per il momento dobbiamo solo sperare che il Progetto Pnrr Mer (Missione Missione_2 rivoluzione verde e transizione ecologica Componente_4 tutela del territorio e della risorsa idrica investimento 3.5 ripristino e la tutela dei fondali e degli habitat marini) vada in porto.

Si tratta del più grande progetto sul mare nell’ambito del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, che vede Ispra come soggetto attuatore e il Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica come amministrazione titolare del finanziamento di 400 mln di euro per il 2022-2026.

Il Mer prevede interventi per il ripristino e la protezione dei fondali e degli habitat marini, il rafforzamento del sistema nazionale di osservazione degli ecosistemi marini e costieri e la mappatura degli habitat costieri e marini di interesse conservazionistico nelle acque italiane con l’acquisizione di una nuova unità navale oceanografica, dotata di apparecchiature altamente tecnologiche in grado di sondare i fondali fino a 4000 m e strumentazione acustica ad altissima risoluzione.

E’ un’opportunità storica che non ritornerà più. Per cui speriamo che vada bene e non rimanga semplice lettera morta.

Infine, speriamo che dia qualche risultato anche la legge 10 maggio 2023, n. 53 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (Guri) del 18 maggio 2023, n. 115 che finalmente ha istituito la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su altri illeciti ambientali e agroalimentari.

Comunque vada, ricordatevi che il mare non è solo “nostrum” come pensavano i romani. Speriamo bene. (gm)

LO SVILUPPO SOSTENIBILE IN CALABRIA
PASSA DALL’AGRICOLTURA E DAL TURISMO

di DOMENICO MAZZA – Anche quest’anno è stata celebrata la consegna dell’ambito riconoscimento della Bandiera Blu. La Calabria, condivisa la terza posizione insieme alla Campania, sale sul podio delle Regioni insignite del prestigioso riconoscimento. Nello specifico, l’Arco Jonico sibarita e crotoniate, in soli 200km di costa, conferma l’attivazione di ben 7 vessilli.

Un suffragio che palesa la qualità di buona parte delle spiagge del nord-est calabrese. Si pensi, un terzo delle Bandiere Blu assegnate alla Calabria (20 in totale) é localizzato in un quarto degli 800km di costa regionale. Un dato importante e da non sottovalutare. Vieppiù, la particolare condizione, si inquadra in un contesto territoriale che già oggi materializza la più grande offerta turistico-ricettiva della Regione e fra le più cospicue del Mezzogiorno d’Italia. Quanto detto amplifica le prospettive di crescita e le aspettative attese dall’area in questione sotto una nuova luce, aprendo ad una serie di opportunità.

Non è la prima volta che intervengo sull’argomento. Già negli anni precedenti ho avuto modo di esprimere la mia soddisfazione per i risultati annualmente conseguiti dalle Comunità calabresi. Lo scorso anno l’ingresso di Isola Capo Rizzuto e il reintegro di Rocca Imperiale fra le Località celebrate. Adesso, la conferma dei sette Comuni già promossi l’anno passato: Rocca Imperiale, Roseto, Trebisacce, Villapiana, Cirò Marina, Melissa e Isola Capo Rizzuto. Un risultato significativo che comprova il lavoro fatto dalle locali Amministrazioni comunali e che certifica l’indiscussa qualità territoriale dell’esterno levante calabrese.

Purtuttavia, manca ancora una visione d’insieme, più ampia e articolata. Latita una prospettiva, coerente e funzionale, che certifichi questo lembo di Calabria come uno dei principali poli attrattivi a livello turistico e implementi detto settore su standard elevati. Al contrario, continuiamo ad avviare sterili battaglie di campanile sul perché del riconoscimento ad una Comunità piuttosto che ad un’altra. Inoltre, disconosciamo che le spiagge celebrate rappresentano quasi il 50% del totale di costa compresa tra Capo Rizzuto e il confine lucano.

Senza l’adeguata consapevolezza, poi, ad una innata inclinazione turistica a cui l’ambito risulta naturalmente vocato, contrapponiamo scriteriate scelte relative a nuovi impianti di termovalorizzazione, rigassificazione e dissennate politiche di abbanco rifiuti e scorie industriali in area già all’uopo altamente sfruttate.

Dovremmo darci una regolata e capire verso quale direzione abbiamo intenzione di spingerci. Sarebbe opportuno comprendere che turismo e sfruttamento invasivo ed intensivo del territorio, raramente vanno a braccetto.

È giunto il momento per consapevolizzare che il rispetto dell’ambiente è alla base di un ecosistema sano. Con quanto su riportato non voglio asserire una mia contrarietà al settore industriale o più precisamente all’industria green. Piuttosto — ritengo — sarebbe opportuno comprendere che un ambito non può essere sottoposto a scelte politiche satrape e non rispettose delle sue attitudini vocazionali.

Tre sono i fondamenti che consentirebbero al nostro territorio di viaggiare spedito verso lo sviluppo sostenibile: agricoltura, turismo e rigenerazione industriale.

Il primo non potrà mai essere ritenuto settore realmente trainante se si persevererà in una gestione familistica e concentrata nelle mani di succinte oligarghie. Bisogna guardare al modello emiliano, dove le cooperative e la nascita dell’industria trasformativa collegata al settore primario hanno reso la richiamata Regione una delle più efficienti d’Europa.

Il turismo non può essere un mero pennacchio da esibire per promuovere i risultati di una Comunita a scapito di un’altra. Il turismo è sistema! E’ necessario avviare, quindi, processi politici volti alla creazione di consorzi delle Comunità rivierasche che si affacciano sul golfo di Taranto. Quanto detto, per rassettare la grande offerta ricettiva, diportistica e naturalistica creando una destinazione che rappresenti un brand di rilancio per tutta la porzione d’affaccio territoriale sulla baia jonica.

Rigenerare i siti industriali non significa togliere polvere dal pavimento per nasconderla sotto un tappeto. Le bonifiche, alludo alla situazione delle aree industriali dismesse a Crotone, ma anche alla condizione relativa all’ex stabilimento produttivo Enel a Corigliano-Rossano, non possono essere fatte sul suolo calabrese. Esistono aree specifiche e dedicate nel territorio nazionale, che si prestano allo scopo. La politica deve pretendere il trasferimento, da parte dei Players nazionali, dei rifiuti pericolosi in aree esterne al contesto regionale. Inoltre, qualora le modifiche recentemente attuate al Paur (Provvedimento autorizzatorio unico regionale) mettessero in discussione la destinazione extraregionale delle scorie provenienti dal sito Sin Crotone-Cassano-Cerchiara, la Regione dovrà correggere il tiro ritornando sui propri passi.

Non possiamo trasformare un’area che avrebbe tutte le carte in regola per candidarsi a diventare “Destinazione turistica” a ricettacolo di nuove ed ulteriori discariche pericolose. Tantomeno, possiamo immaginare di creare una insensata commistione tra i richiamati settori: non collimerebbero e porterebbero il territorio jonico ad un’implosione sociale. (dm)

ELEZIONI EUROPEE: PROIEZIONI SUI FLUSSI
I PRIMI DATI PREMIANO GIORGIA, M5S E PD

Le prossime elezioni europee dell’8 e 9 giugno che sembravano, inizialmente interessare poco le forze politiche, hanno assunto una valenza importante, visto che tutti i leader cercano di portare a casa, esponendosi in prima persona, il più alto numero di voti possibile. Non potrà essere considerato una specie di “referendum” sul governo: non ci sono le condizioni  per una valutazione politica a tutto tondo, ciò non toglie che il risultato potrà fare chiarezza tra le forze di destra e centro-destra della coalizione.

Come andrà, dunque, a finire in Calabria l’8 e 9 giugno nel voto europeo? Lo studio elaborato in esclusiva per Calabria.Live è in grado di indicare, con sufficiente grado di precisione, le tendenze che potrebbero registrarsi in una consultazione molto importante per i principali partiti, impegnati a “contarsi” anche in vista dei futuri appuntamenti, ma anche per stabilire nuovi equilibri all’interno delle coalizioni.

È opportuno ribadire, ancora una volta, che siamo in presenza di uno studio sui flussi e non di un sondaggio. sulle intenzioni di voto. dei 76 eurodeputati italiani che andranno in Europa, 18 saranno eletti nella Circoscrizione Sud  (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Puglia).

Il dato stimato dell’affluenza è del 40% (dovrebbero andare alle urne 600.000-650.000 calabresi) una percentuale più bassa di quella di cinque anni fa (43,99%), di quella delle regionali (44,36%), decisamente inferiore al 50,80% delle politiche.

PROIEZIONI
FLUSSI EUROPEE 2024

Le tendenze 1. Testa a testa per il primato tra Cinquestelle e Fratelli d’Italia

Il Movimento Cinquestelle ha buone possibilità di confermarsi primo partito della Calabria, sia pure perdendo parecchi punti rispetto alle elezioni politiche del 2022. I Cinquestelle dovrebbero attestarsi tra il 21 e il 22%, anche grazie alla presenza carismatica dell’ex presidente dell’Inps, il calabrese Pasquale Tridico, molto attivo in questa campagna elettorale.

A insidiare questo primato è il partito di Giorgia Meloni, distante appena un punto dai Cinquestelle, e che dovrebbe conquistare una percentuale leggermente superiore a quella delle politiche.

Le tendenze 2 – Il PD tallonato da Forza Italia che quasi doppia il suo dato nazionale

Ancora un testa a testa per la terza e quarta posizione, tra Partito Democratico, in leggera crescita rispetto alla Camera, e Forza Italia che in Calabria veleggia quasi al doppio della percentuale attribuita nazionalmente al partito di Tajani. Anche tra questi due partiti la differenza è di appena un punto.

Le tendenze 3 – Incubo Lega che tenta un recupero con le candidature territoriali

Rischia molto la Lega in grande difficoltà in tutto il Meridione. Il Carroccio dovrebbe essere tra il 4 e il 5%, in linea o leggermente in calo rispetto alle politiche. Alcune candidature territoriali, come la cosentina Simona Loizzo e il catanzarese Filippo Mancuso, sposterebbero la lancetta più verso il 5%.

Le tendenze 4 – VerdiSinistra sperano nell’”effetto Lucano”

L’alleanza VerdiSinistra può attestarsi al 4%, risultato di tutto rispetto, fruendo dell’effetto traino della candidatura di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace. Nelle regionali del 2021, Lucano riuscì a conquistare ben diecimila preferenze in una delle liste a sostegno di Luigi De Magistris.

Le tendenze 5 – Il “derby” Renzi-Calenda vede in leggero vantaggio Stati Uniti d’Europa

La lista Stati Uniti d’Europa, che vede assieme Italia Viva, +Europa e PSI, dovrebbe avere un punto di vantaggio su Azione di Carlo Calenda. Il cartello di Renzi e Bonino può contare anche sul residuo consenso dei socialisti calabresi, valutabile in almeno l’1%, e quindi arrivare con una certa comodità al 4,5% complessivo. Azione, che si è radicata sul territorio, spera nella candidatura del consigliere regionale Francesco De Nisi per alzare l’asticella che dovrebbe fermarsi al 3,5%.

Le proiezioni sui seggi nella Circoscrizione Sud (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria)

Tutti i principali sondaggi  indicano questa possibile ripartizione dei seggi nella Circoscrizione Meridionale con una larga forbice:

Fratelli d’Italia 3-5; PD 3-4; Cinquestelle 4-7; Forza Italia 1-3; Lega 0-2; Stati Uniti d’Europa, AVS, Azione 0-1.

I potenziali eletti calabresi

Sono solo due i candidati calabresi che hanno ottime possibilità di essere eletti direttamente al Parlamento Europeo, senza aspettare il valzer delle opzioni e delle rinunce che interesserà molte liste. Si tratta del pentastellato Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps, e di Denis Nesci, deputato europeo uscente di Fratelli d’Italia. Considerando l’alto numero di seggi che conquisteranno i Cinquestelle, bisognerà vedere quale candidato calabrese si piazzerà nei primi 4-5 posti.

Sperano nel gioco delle opzioni e della ripartizione dei seggi la leghista Simona Loizzo, teoricamente terza o quarta dopo il generale Vannacci e gli uscenti Patriciello e Grant; la forzista Giusy Princi, teoricamente quarta dopo Tajani, Martusciello e Alessandra Mussolini; Luciana De Francesco di Fratelli d’Italia, teoricamente quarta dopo Meloni, Nesci e Sgarbi; Jasmine Cristallo, teoricamente sesta nella lista del PD dopo Annunziata, De Caro, Picierno, Ruotolo e Topo; Mimmo Lucano, capolista AVS che ovviamente attende di sapere se la lista supera il quorum; stesso problema nella lista Stati Uniti d’Europa dove Filomena Greco mira a piazzarsi al terzo-quarto posto dopo Renzi, il socialista Maraio e lady Sandra Mastella e in quella di Azione dove Francesco De Nisi fa la sua corsa su Calenda, Bonetti e soprattutto l’ex presidente della Basilicata Marcello Pittella. (rrm)

LA CALABRIA HA LA SUA LEGGE CONTRO LA
POVERTÀ EDUCATIVA: È LA PRIMA IN ITALIA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – È una «pagina storica per la Calabria», l’approvazione del Sistema Integrato Istruzione Zero-Sei contro la povertà educativa. Una legge tanto attesa ma che, da adesso, dovrebbe contribuire a migliorare la grave situazione nella nostra regione, permettendo a tanti bambini e bambini, ragazze e ragazze, di avere le stesse opportunità dei loro coetanei del resto d’Italia.

Un risultato brillante – e che ha anche il suo primato, essendo la Calabria la prima regione ad aver approvato questa legge – e tanto atteso, raggiunto grazie alla vicepresidente della Regione, Giusi Princi, perché, «la questione del sistema educativo zero-sei è stata fin da subito attenzionata da questo governo regionale».

Adesso, «dopo 11 anni, abroghiamo la legge regionale 15 del 2013 che ha impedito di dare attuazione al sistema integrato di istruzione e, fino ad ora, di allinearci alla normativa nazionale e di usufruire delle relative risorse», ha detto ancora Princi, sottolineando come «ora, infatti, dopo i 15 milioni di euro cofinanziati dalla Regione Calabria che hanno permesso di accedere allo stanziamento complessivo ministeriale che ammonta ad 80 milioni di euro e che saranno destinati ad attivare asili nido, sezione primavera e centri educativi per l’infanzia, per i prossimi anni, nell’ambito del piano d’azione del Dipartimento istruzione, abbiamo previsto 22 milioni di euro che implementeranno le sezioni primavera nelle aree interne e prevedranno voucher da destinare a famiglie meno abbienti per poter usufruire della gratuità degli asili».

Questa legge, infatti, contribuirà a colmare il gap della povertà educativa territoriale legata all’infanzia: in Calabria, infatti, solo il 3% di bambini e bambine usufruisce di asili nido o servizi educativi per l’infanzia. L’Osservatorio Regionale Istruzione e Diritto allo Studio, infatti, ha rilevato come «solo 54 comuni su 404 presentano un reddito pro capite superiore a quello medio regionale. Se analizziamo la percentuale dei contribuenti con reddito superiore a 15 mila euro solo in 14 casi risulta essere superiore del 50,1%».

«I comuni maggiormente vulnerabili dal punto di vista economico, ovvero che si caratterizzano per la presenza di una quota rilevante di contribuenti con un reddito inferiore a 15 m€, sono Platì (Ats Locri) e Verbicaro (Ats Praia a Mare/Scalea) in cui la quota si attesta rispettivamente ali’ 81 % e ali’ 80%. Seguono, poi, 114 Comuni afferenti a 25 Ats (su 32) in cui più del 70% dei contribuenti ha dichiarato un reddito inferiore a 15 m€; e 221 comuni afferenti a 18 Ats, in cui la quota è compresa tra il 60% ed il 70%».

Per l’Osservatorio, poi, «un’altra variabile da considerare è, certamente, il tasso di occupazione femminile», da cui è emerso che «nel 2020 in Calabria risultano occupate 527.050 persone, di queste solo il 35,4% sono donne. Dal 2018 al 2020 il numero di donne occupate ha subito una flessione di 1,5 punti percentuali corrispondente in valore assoluto a -16.504 persone».

Quello dell’occupazione femminile, infatti, è un dato chiave, in quanto, come rilevato dalla Svimez, infatti, nell’ultimo numero di Informazioni, dedicato ad asili nido e infrastrutture scolastiche, «stime recenti della Banca d’Italia confermano che nelle province italiane il tasso di attività delle madri di bambini con meno di tre anni tende a crescere con la disponibilità di servizi di assistenza alla prima infanzia a parità di caratteristiche individuali delle madri (età, titolo di studio, nazionalità). La qualità delle infrastrutture scolastiche favorisce l’accumulazione di capitale umano determinando il successo dei processi di apprendimento sin dalle prime fasi dei percorsi di studio. A tale riguardo, numerosi studi evidenziano come la frequenza dell’asilo nido promuova lo sviluppo delle abilità cognitive e non cognitive dei bambini, soprattutto nei contesti di fragilità familiare».

Nella nostra regione, infatti, al 31 dicembre 2022 risultano attivi in Calabria 309 servizi per l’infanzia con una disponibilità complessiva di 5.838 posti autorizzati al funzionamento. Complessivamente i Comuni nei quali risultano servizi attivi sono 118 (pari al 29,2% dei comuni calabresi), mentre i Comuni senza sono 286 (pari al 70,8%). Per quanto riguarda la titolarità, dalla rilevazione realizzata dalla Regione Calabria è emerso che il 25,6% dei servizi afferisce al settore pubblico, che offre all’utenza il 30, 7% dei posti complessivi.

Dall’analisi per Ats, poi, sono emersi cinque gruppi, in cui «Ats in cui l’offerta è solo privata (6 Ats): Amantea, Mesoraca, Rosarno, Serra San Bruno, Soverato, Villa San Giovanni; Ats  in cui l’offerta è solo pubblica (2 Ats): Cariati e Soveria Manelli; Ats misti ma con prevalenza della componente privata (18 Ats) (superiore al 50% ): Castrovillari, Catanzaro, Caulonia, Cirò Marina, Corigliano-Rossano, Cosenza, Crotone, Locri, Montalto Uffugo, Paola, Polistena, Praia a Mare/Scalea; Reggio Calabria, Rende, San Marco Argentano, Spilinga, Taurianova, Vibo Valentia; Ats misti ma con prevalenza della componente pubblica (3 Ats) (superiore al 50%): Rogliano, San Giovanni in Fiore, Trebisacce; Ats in cui l’offerta è omogenea (50 % pubblica e 50% privata) (1 Ats): Lamezia Terme».

«L’offerta – viene rilevato – si compone principalmente di nidi (143 servizi censiti, pari al 46,3% dei servizi per l’infanzia) con il 54% dei posti autorizzati; seguono i micronidi (I 06, pari al 34,5%) con il 28, l % dei posti autorizzati e le sezioni primavera (25), che rappresentano 1’8, 1 % dei servizi per l’infanzia con 7,4% posti autorizzati. Rispetto al 31.12.2021 si rileva: un incremento dei posti autorizzati per i micronidi (da 1.041 a 1.643) e un decremento dei posti autorizzati sia per i nidi (da 3.506 a 3.153) che per le sezioni di primavera (da 457 a 434).

Dall’analisi dei dati fomiti dai comuni sui posti autorizzati emerge che in Calabria la copertura dei posti disponibili rispetto al potenziale bacino di utenza – ovvero i bambini residenti da O a 2 anni di età – si attesta al 31.12.2022 al 14,4% (al 31.12.2021 era pari al 13,5%), ben distante, quindi, dall’obiettivo per raggiungere l’obiettivo del 33% previsto (D.LGS. 65/2017, art. 4, c. I, lett. a.). Analizzando i dati per Ats, emerge che solo l’Ats di Cirò Marina con il 56,6% raggiunge l’obiettivo.

Gli Ats che registrano valori superiori a quello regionale, seppur lontani dal parametro fissato al livello europeo e nazionale del 33%, sono: Rogliano (25,9 %), Castrovillari (23,2%), Rende (21,8%), Caulonia (20,7%), Montalto Uffugo (20,2%). Gli Ats che presentano una bassa copertura sono: Melito Porto Salvo – che come abbiamo evidenziato al 31.12.2022 non presenta servizi per l’infanzia – Spilinga (4,6%), Trebisacce (5,6%), Lamezia Terme (6,9%).

Numeri e dati che indicano come la Calabria sia lontana dal parametro fissato al livello europeo e nazionale del 33%3, dei bambini sotto i 3 anni che dovrebbero usufruire dei servizi per l’infanzia. A questo deve necessariamente legarsi anche la problematica connessa alle proroghe sistematiche della legge regionale n.15 del 2013 circa l’adeguamento dei requisiti strutturali ed organizzativi previsti dalla stessa legge e dal relativo regolamento di attuazione.

«Il mancato adeguamento di molte strutture ha certamente inciso sui procedimenti di autorizzazione e accreditamento quindi, per l’effetto, sulla determinazione dei posti complessivamente disponibili», si legge nel testo del disegno di legge, composto da 28 articoli ed elaborato  Tavolo di lavoro, appositamente istituito presso il Dipartimento regionale istruzione e coordinato dalla dirigente di settore Anna Perani, rappresentato dall’Ufficio scolastico regionale (Usr), dalla Federazione italiana scuole materne (Fism), dall’Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), dai rappresentanti degli ambiti territoriali sociali, da una rappresentanza di dirigenti scolastici in quiescenza e non.

«L’obiettivo – ha spiegato la vicepresidente Princi – è di definire il sistema integrato per conseguire la continuità del percorso educativo dallo zero ai sei anni, attraverso il potenziamento dei servizi di nido, micro nido, sezioni primavera, servizi integrativi per l’infanzia. Si vuole, pertanto, consolidare e ampliare l’offerta del numero dei posti, prevedendone la gratuità per i meno abbienti, per il progressivo raggiungimento della copertura del 33% della popolazione nella fascia di età zero tre anni, così da ridurre il gap esistente con le altre regioni, attraverso la ridefinizione dei requisiti strutturali ed organizzativi. È previsto, altresì, il miglioramento della qualità del sistema attraverso la formazione permanente di tutto il personale in servizio».

«Questo nuovo disegno di legge – ha concluso – si propone, inoltre di realizzare una governance di sistema tra Regioni, Comuni e Ufficio scolastico regionale, con azioni di raccordo e collaborazione interistituzionale, in continuità del percorso già avviato con i Protocolli d’intesa sottoscritti tra Regione, Usr e Anci». (ams)

IL PAESE CRESCE MA IL SUD S’IMPOVERISCE:
IN 20 ANNI PERSI QUASI 1 MLN DI RESIDENTI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Quasi un milione  in meno nel Sud, dal 2004 al 2024, in un Paese che complessivamente cresce nello stesso periodo  di poco più di un milione di residenti. Crescono infatti tutte le ripartizioni tranne Sud e Isole. 

 Le regioni più esteticamente dinamiche la Lombardia, ( +847.000), il Lazio (+534.000), il Veneto (+229.000), l’Emilia-Romagna (+375.000); quelle più penalizzate la Sicilia (-183.000), la Puglia (-144.000), la Campania(-141.000). 

Dicevo esteticamente dinamiche perché il loro tasso di crescita è sempre molto basso e l’aumento della loro popolazione deriva da una forma di cannibalismo nei confronti del sud del Paese, che nasconde il problema importante di una realtà  in declino. 

Le motivazioni che stanno alla base della decrescita delle due parti non sono totalmente differenti. In realtà vi è una base comune ed è la mancanza di politiche attive per la famiglia, che rendono la procreazione non un interesse collettivo ma esclusivamente un bisogno del singolo, che poco interessa alla società. 

Politiche attive totalmente dimenticate e che ci rendono differenti dagli altri grandi paesi europei. Francia, Gran Bretagna e Italia che  fino a qualche anno fa avevano la stessa popolazione. Oggi le altre due cugine si avviano verso i 70 milioni, anche per una maggiore presenza di extracomunitari, mentre noi ci discostiamo sempre più dai 60 milioni raggiunti nel 2010( 60.626. 000). 

Capire che la famiglia non è solo un bene dei singoli ma anche un bene collettivo è un passaggio che solo recentemente ha  cominciato ad essere un pensiero condiviso. Fino a soli pochi anni fa sembrava che lo Stato dovesse essere indifferente alle nascite  e quindi non dovesse assistere e proteggere le coppie nella fase procreativa.  

Con lo sviluppo economico, come accade in tutti i paesi del mondo, si pensi che addirittura in Cina hanno legiferato per imporre alle famiglie un solo figlio quando erano poveri, sono cominciate a diminuire le nascite. Per cui tutti i paesi occidentali, industrializzati, hanno cominciato con politiche di protezione delle famiglie e di assistenza alle giovani coppie per incoraggiarle a procreare. 

Tra tali provvedimenti vanno ovviamente compresi quelli relativi alla disponibilità di posti pubblici  negli asili nido, che  aiutano le famiglie a crescere i figli con costi più contenuti, e che al Sud sono stati sempre molto carenti. 

Per fortuna con il Pnrr, modificato recentemente,  adesso gli asili nido non dovrebbero andare più al bando, come era stato previsto nella prima fase, ma come é corretto le nuove strutture vengono assegnate alla realtà che ne sono più carenti, cioè inferiore al livello essenziale di prestazione fissato dal 2022 a 33 posti ogni 100 bambini di età 3-36 mesi. Finalmente un provvedimento che recupera 735 milioni di euro e li mette a disposizione di 401 Comuni, con l’obiettivo di realizzare oltre 30mila nuovi posti.

Al Sud ai tassi di fecondità, che andavano diminuendo, e che portavano a una diminuzione delle nascite si é  aggiunto l’effetto dei tassi di emigrazione,  che sono progressivamente aumentati. 

Ogni anno ci dice la Svimez che 100.000 mila ragazzi formati, con un costo complessivo per le realtà di riferimento di oltre 20 miliardi, vanno via dal Mezzogiorno, con un “regalo” a carico delle realtà regionali meridionali, che si ritrovano a dover affrontare i costi che vanno dalla procreazione fino al momento in cui i ragazzi diventano produttivi, per poi regalare il frutto di tanti sforzi alle regioni settentrionali e spesso anche a molti altri paesi comunitari, che offrono condizioni complessive di diritti di cittadinanza più interessanti. 

D’altra parte pensare di trattenere i giovani nelle loro realtà di provenienza quando non trovano lavoro, non hanno un diritto alla mobilità, né ad una sanità adeguata ,diventa impossibile. 

Non si vive di solo sole, mare e aria pulita. Complessivamente il Paese, pur avendo discreti incrementi nelle regioni settentrionali, perde peso all’interno dell’Unione Europea sia in termini demografici che di conseguente Pil prodotto. 

Ma è un ragionamento che parte dal Nord, che poi è la  classe dirigente che indirizza il nostro Paese, che non riesce a capire e che pensa di salvarsi guardando al proprio giardino di casa, esaltando una loro supposta etnia di Veneti o di Lombardi o di Emiliani Romagnoli, con la ricerca di un’autonomia differenziata che pensano potrà salvarli, non capendo che in realtà il processo sul quale siamo incamminati fa affondare tutti. 

La risposta vera al declino demografico del nostro Paese va data su due piani: il primo è quello di politiche attive per la famiglia che rendano la procreazione una gioia così come dovrebbe essere e non un impegno economico che la impoverisce.

Il secondo piano è quello relativo ad un migliore equilibrio economico che aiuti i giovani meridionali a rimanere nelle loro realtà, dove peraltro hanno una rete familiare di aiuti, costituita anche dai nonni.

L’occasione del Pnrr, che è stata data al nostro Paese fondamentalmente per diminuire i divari, malgrado una vulgata interessata che tenta con azioni conseguenti di distorcere gli obiettivi per riportare le risorse alla, una volta chiamata, locomotiva del Paese, costituita dall’apparato Tosco, Emiliano Romagnolo, Lombardo, Veneto, va, con azioni simili a quella recente sugli asili nido, che supera le difficoltà dell’amministrazione periferiche meridionali.

Oltre che a fare in modo di potenziare le tre gambe su cui dovrebbe basarsi lo sviluppo del Mezzogiorno costituite dalla logistica, dal manifatturiero e dal turismo, in modo da offrire a molti più giovani la possibilità di un progetto di vita, eliminando la tentazione sempre presente di essere estrattivi rispetto ad un territorio che, grazie anche agli ascari abbondanti presenti, non riesce a difendersi adeguatamente. 

Guardare al positivo che nasce non ci deve far dimenticare che i problemi strutturali sono talmente rilevanti e riguardano un territorio così ampio che il rischio della sindrome delle eccellenze, che vanno adeguatamente raccontate e valorizzate, può diventare estremamente pericolosa. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

 

FRONTE DEI PORTI: GENOVA, TANTI MILIONI
AL SUD, PER GIOIA TAURO, POCHI SPICCIOLI

di MASSIMO MASTRUZZOLe ultimissime vicende che stanno coinvolgendo politici e industriali che gravitano attorno al Porto di Genova, non fanno altro che rimarcare quanto evidentemente non vuole vedere solo chi è palesemente intellettualmente disonesto.

Erano gli anni 90 e, il porto di Gioia Tauro era destinato a diventare il più grande porto di scambio marittimo-ferroviario. C’erano grandi progetti che probabilmente davano fastidio a certe latitudini. Ed infatti l’allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti della Repubblica Claudio Burlando (già dirigente di partito del Pci, Pds, Ds, Pd) veniva intercettato mentre si rivolgeva all’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci, con queste parole: «Se fai partire un solo treno da Gioia Tauro ti caccio!».

A pensar male si fa peccato, male spesso si indovina, Burlando è stato: Consigliere comunale a Genova dal 1981 al 1993, dove ha ricoperto gli incarichi di assessore ai trasporti dal 1983 al 1985; Vicesindaco dal 1990 al 1992;Sindaco di Genova per 6 mesi, dal 3 dicembre 1992 al 19 maggio 1993; Ministro dei trasporti e della navigazione nel primo governo Prodi dal 1996 al 1998; Presidente della regione Liguria dal 2005 al 2015.

Il 6 Agosto 2015, poi, fu inaugurato il nuovo canale di Suez: il canale che collega il Mar Rosso e il Mediterraneo fu “raddoppiato”. Il progetto, realizzato in tempi da record sotto il governo di Abdel Fattah al Sisi, risultò fin da subito estremamente promettente: ogni giorno il canale poteva essere attraversato da un numero doppio di navi, con un tempo di transito minore e senza più limiti per la grandezza degli scafi.

Il raddoppio del canale di Suez, quindi, non rappresentava semplicemente un’opportunità per l’economia egiziana, ma una vera e propria svolta per tutto il Mediterraneo, che tornava ad essere il centro delle rotte commerciali intercontinentali.

Ad accaparrarsi il titolo di primo porto del Mediterraneo per traffico container fu Algeciras, una città dell’Andalusia di appena 170.000 abitanti. La forza di questa nuova potenza portuale non è la semplice vicinanza con Gibilterra: grazie al giusto investimento dei fondi Europei, la Spagna è riuscita a trasformare una città più piccola di Salerno nel punto di partenza del cosiddetto Corridoio del Mediterraneo, ovvero una linea di grande comunicazione che arriva a Lione per poi proseguire per il centro Europa.

Nel frattempo l’Italia come pensa di cogliere le opportunità offerte dal nuovo canale?

Non lo fa, o meglio, non lo fa prendendo in considerazione i porti più prossimi al canale di Suez: i porti del Sud Italia.

Allora, così come ancora adesso, infatti, i porti di Gioia Tauro e Taranto sono adibiti esclusivamente al trasbordo su altre navi, poiché non dispongono dei collegamenti via terra adeguati alle nuove esigenze commerciali:

la circolazione di treni di almeno 750 metri, a  Napoli  infatti, nessun treno merci supera i 400 metri. E dopo Napoli? Il buio a Mezzogiorno.

Tutti i vari partiti, infatti, hanno governato vedendo come unico porto strategico quello di Genova (che riceve continuamente miliardi), e come nemico giurato quello di Gioia Tauro (che si permette di movimentare 3 milioni di container annui, 900 treni senza neanche un vero interporto) e quasi 200.000 autovetture. Più del cumulato di tutti i porti liguri e con circa un centesimo degli investimenti pubblici rispetto a Genova. 

Nel frattempo, quasi come un anticipo delle odierne inchieste sul porto di Genova, a fine 2022 scoppiava lo scandalo della nuova diga foranea (diga progettata per consentire al Porto di Genova di ospitare in navi più grandi…mentre Gioia Tauro ha già fondali adatti a navi da 20 mila Teu, e Augusta i fondali più profondi del Mediterraneo) con le clamorose dimissioni del Project Manager che ha denunciato costi e tempi reali doppi o tripli rispetto alle stime: “ci vorranno almeno 2 miliardi di euro e 15 anni di lavori”.

Nel frattempo il porto di Gioia Tauro, adibito esclusivamente al trasbordo su altre navi, poiché non dispongono dei collegamenti via terra adeguati, che ha già fondali adatti a navi da 20 mila Teu (ovvero con fondali adatti alle grande navi senza quindi la necessità di dover scavare i fondali marini come a Genova), aspetta quei collegamenti via terra adeguati alle nuove esigenze commerciali. (mm)