CORIGLIANO ROSSANO E IL POTENZIALE PER
ESSERE SIMBOLO DI RISCATTO E RESTANZA

di GIOVANNI B. LEONETTINon è mai semplice raccontare un sogno, soprattutto quando si parla di politica. Non è semplice, perché spesso i sogni e la politica da molti sono visti come concetti contrapposti.

Eppure credo che, dopotutto, la politica non sia altro che il percorso verso la realizzazione di sogni collettivi. Cos’è oggi Corigliano-Rossano?

La nascita della città ha indubbiamente sconvolto la geografia della nostra regione, ponendo finalmente anche l’area dello Jonio cosentino tra le realtà politiche, economiche e commerciali del Sud Italia.

Non dimentichiamo che Corigliano-Rossano è oggi la terza città della Calabria per popolazione e la prima per estensione (29° comune d’Italia per superficie). Vantiamo il tasso di occupazione maggiore e quello di disoccupazione minore della Provincia di Cosenza, con dati migliori anche rispetto all’area Cosenza/Rende/Castrolibero.

È questo, dunque, un momento cruciale per il nostro territorio; siamo sul punto di recuperare lo svantaggio che ha sempre caratterizzato questo pezzo di Calabria.

Abbiamo la possibilità di rappresentare un modello di sviluppo per le aree svantaggiate del Mezzogiorno, consapevoli di essere stati sempre penalizzati nella distribuzione delle risorse e degli investimenti statali, regionali e provinciali. Al contempo, però, dobbiamo continuare ad avere il coraggio di essere all’altezza delle nostre legittime aspirazioni, imparando a rivendicare i nostri diritti e a non permettere più che quanto ci spetta ci sia concesso per favore, per preghiera o per carità.

È necessario, ora, un nuovo patto sociale tra politica e cittadini. Potremo e dovremo, nei prossimi anni, giocare un ruolo da protagonisti a livello regionale. Sono maturi i tempi per costruire una realtà più aperta alla classe imprenditoriale, pur con la consapevolezza che la politica deve essere sempre libera di dire di no agli indebiti interessi dei pochi.

La nostra identità comune dev’essere ancora completata e sviluppata con progettazione a lungo termine e lungimiranza. Non possiamo solo essere sulla carta la terza città della Calabria, dobbiamo avere l’ambizione di continuare a guidare e non subire i percorsi politici.

Urge un nuovo patto sociale che veda cittadini, imprese e politica co-protagonisti nello sviluppo del territorio. Ogni cittadino deve sentirsi detentore di diritti, ma anche destinatario di doveri e obblighi verso la propria comunità.

È importante istituzionalizzare e diffondere maggiormente i patti di collaborazione tra enti, associazioni, comitati e Comune.

Mi permetto di far notare che esistono già meravigliosi esempi di collaborazione e cura degli spazi comuni, tra i quali il progetto del Bosco Urbano, curato da Auser con il contributo de “Gli amici del bosco urbano” o gli altri interventi a cura delle associazioni Ri-bellezza e SosteniAmo. È opportuno promuovere il modello della concertazione e codecisione nell’assunzione delle scelte strategiche, con un dialogo permanente tra Comune e cittadini.

Certamente, sul punto, sarà utile procedere con l’attuazione di forme di decentramento amministrativo, con la suddivisione del territorio comunale in quartieri o municipi.

Ma non basta.

Devono essere istituiti forum permanenti tra il Comune e le imprese turistico/ricettive, l’imprenditoria giovanile e gli operatori sociali (seguendo gli esempi virtuosi di Emilia Romagna e Puglia), anche con la partecipazione dei sindacati.

Ancora, è da favorire il dialogo tra istituti scolastici (in particolare quelli a vocazione professionale) e imprese, sfruttando le opportunità di alternanza scuola/lavoro o l’istituzione di indirizzi di studio più vicini al fabbisogno economico/industriale, anche mediante il decentramento di parte della didattica nelle sedi d’impresa.

Sarebbe anche auspicabile rafforzare la collaborazione con l’UniCal, mettendo a disposizione dell’Università immobili comunali da destinare a facoltà legate alla vocazione agricola, agroalimentare, turistica e marittima del territorio.

Questa è l’ultima occasione per permettere “la restanza” a noi giovani, per credere nel nostro futuro, investire risorse, tempo e ambizioni nella nostra comunità.

Questa è, davvero, l’ultima occasione per consentire “la ritornanza” dei nostri studenti, imprenditori, professionisti e operai costretti a spostarsi per cercare altrove migliori condizioni lavorative.

Per tutti questi motivi Corigliano-Rossano merita continuità, premiando il lavoro svolto dall’attuale amministrazione, capace di intercettare ingenti fondi per la realizzazione di opere strategiche e di essere uno dei principali comuni della Calabria fruitori dei fondi Pnrr. 

Non è mai semplice raccontare un sogno, soprattutto quando si parla di politica. Forse le riflessioni che precedono non sono altro che i desideri di un trentenne che ha deciso di restare e credere nella sua città e nei suoi cittadini.

Contribuiamo, perciò, tutti insieme a trasformare i sogni in obiettivi e gli obiettivi in risultati concreti. Con la consapevolezza che “chi non ha mai avuto un sogno forse ha solo sognato di vivere”. (gbl)

LA SOLUZIONE TRIDICO: SPESA SANITARIA
SIA SOTTRATTA ALL’OBBLIGO DI PAREGGIO

di PASQUALE TRIDICOUn’incertezza fissa accomuna il ponte sullo Stretto e l’Alta velocità ferroviaria per la Calabria, che ancora non ha il proprio tracciato. Il ministro Salvini parla con enfasi smodata di entrambe le infrastrutture previste, segnate da una storia di rinvii in successione e finanziamenti aggiuntivi, di dubbi e problemi gravi ancora pendenti.

A dispetto delle tesi di Matteo Salvini, segretario di una Lega bifronte, secessionista nella sostanza e nazionalista nella forma verbale, ripensare i collegamenti all’interno del territorio calabrese costituisce una priorità assoluta, anzitutto per ragioni economiche e di tutela della salute. Migliorare la viabilità intraregionale è un’esigenza macroscopica, però non colta, tematizzata e discussa a dovere, né a livello locale né da parte del governo in carica, riluttante rispetto ai dati, all’analisi obiettiva.

Nel centrodestra prevale il discorso a effetto sul ponte di Messina, segnato da una retorica celebrativa di vecchio stampo, strumentale a eludere il dibattito sullo stato dei Servizi sanitari e sulle possibilità di sviluppo economico delle regioni che l’opera dovrebbe collegare. 

La sanità calabrese è vittima di una progettazione a tavolino delle reti assistenziali, strutturate a Roma sulla scorta di modelli che da quasi 15 anni prescindono dalle specificità delle aree costiere e interne della Calabria, dalle condizioni stradali e climatiche, dai dati epidemiologici e dalla maggiore insistenza, nella regione del Sud, di patologie croniche, con percentuali di comorbilità superiori alla media nazionale. 

Molte realtà locali della Calabria hanno risentito della suddetta impostazione standard, in parte ricavata su elementi delle regioni benchmark del Centro e del Nord, che però hanno minore isolamento geografico, viabilità migliore e mobilità agevolata. Tra le zone calabresi penalizzate, per esempio, si annoverano, oltre a quelle montane, di cui dirò più avanti, quelle disagiate di Trebisacce sullo Ionio e di Praia a Mare sul Tirreno, luoghi di frontiera, simboli di una sanità pubblica lungamente negata, nella fattispecie a due porzioni dell’Italia meridionale spinte negli anni verso un arretramento infondato, illogico, ingiusto: la prima servita dalla Statale 106 delle troppe morti per incidente; la seconda dalla Statale 18 della cementificazione selvaggia, simbolo di modernità apparente, ambigua, illusoria.

Queste due strade sono state lasciate al loro destino, al pericolo pubblico, alla percorrenza variabile in relazione al periodo, al traffico, al caso; abbandonate alle corse in auto, agli urti violenti tra i veicoli, agli inevitabili ritardi delle ambulanze e spesso all’impossibilità di soccorsi efficaci, come la cronaca ha riportato molte volte. 

Ubicati in territori con pesanti difficoltà di spostamento, i due ospedali di Trebisacce e Praia a Mare subirono la chiusura con l’avvio effettivo del Piano di rientro dai disavanzi sanitari regionali. Questi presìdi hanno poi vissuto vicende giudiziarie e amministrative antitetiche: sentenze di riapertura sistematicamente ignorate nel concreto, con resistenze all’adempimento da parte dello Stato e della Regione, assieme a incredibili lungaggini che non hanno permesso di recuperare i servizi presenti prima del riassetto della rete ospedaliera, firmato nel 2010 dall’allora presidente regionale e delegato del governo, Giuseppe Scopelliti, che tagliò 18 dei 73 ospedali calabresi, un migliaio di posti letto nel pubblico e circa 1700 nel privato.

Tuttavia, nel tempo fu obnubilata, se non addirittura sepolta, la lezione – derivante dallo smantellamento degli stabilimenti ospedalieri di Trebisacce e Praia a Mare – sull’importanza di avere nosocomi attrezzati al servizio di aree disagiate e frontaliere in senso lato; da ultimo anche per la premura, a livello centrale dopo la pandemia da Covid-19, di rilanciare l’assistenza sanitaria territoriale. Tuttavia, per raggiungere tale obiettivo, sarebbe servita un’interlocuzione profonda in Conferenza Stato-Regioni, purtroppo mancata, volta a riordinare le reti ospedaliere e quelle territoriali sulla base delle peculiarità delle singole aree regionali: epidemiologia, viabilità, clima, deprivazione sociale e così via. 

Ancora, in sede di ultima definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato massicciamente dall’Ue grazie alla capacità negoziale del presidente Giuseppe Conte, non si è tenuto conto delle differenti condizioni tra le regioni italiane, che il centrodestra vorrebbe archiviare per sempre con il ddl Calderoli.

Per l’effetto, in Calabria si è prevista una nuova assistenza sanitaria territoriale che, oltre a essere stata concepita all’ultimo momento, letteralmente in «zona Cesarini» e solo per non perdere i circa 130 milioni disponibili al riguardo, non può soddisfare le esigenze e i bisogni primari dell’utenza. 

Non solo: se si dà una lettura veloce all’aggiornamento della rete ospedaliera predisposto di recente dal commissario governativo attuale, il presidente Roberto Occhiuto, si intuisce il destino delle aree più svantaggiate, cioè quelle montane, i cui ospedali – di Acri, San Giovanni in Fiore, Serra San Bruno e Soveria Mannelli – sono lasciati, anche in forza di una fiducia ideologica sulla telemedicina, alla progressiva dismissione finale; ridotti da anni a semplici strutture di Pronto soccorso con reparti di Medicina poco utilizzati e con pensionamenti in vista degli ultimi medici colà in servizio. 

Eppure, la normativa vigente sugli standard ospedalieri consentirebbe di attivare, proprio in questi ospedali montani unità operative che, trattenendo i Drg, potrebbero produrre salute ed economie sanitarie, a partire da reparti di Chirurgia con posti di degenza e terapia intensiva. Lo stesso ragionamento si può svolgere per l’ospedale di Cariati, che serve pure zone montane ed è ormai simbolo nazionale di lotta civile per il diritto alla salute, grazie alle battaglie dell’associazione locale “Le Lampare” e dei cittadini residenti, come al coinvolgimento del musicista internazionale Roger Waters.

Negli anni, invece, la Regione Calabria ha seguito politiche differenti, rinunciando a riqualificare tali presìdi montani – o, come quello di Cariati, utili ad aree montane – e strizzando l’occhio alle cliniche private, che in generale non danno molte prestazioni integrative nell’ambito del Servizio sanitario ma in larga misura si sostituiscono al pubblico, sino a supplirlo, per come il sistema è ciecamente organizzato. 

La verità, allora, è che le zone disagiate e montane della Calabria sono – e in prospettiva lo saranno sempre di più – private di un’assistenza sanitaria efficace sul posto, spesso indispensabile e insostituibile, di là dalle mistiche correnti sull’elisoccorso, che non può essere una soluzione strutturale, per quanto utile. Nel frattempo, le difficoltà dei cittadini, residenti nei riferiti territori, di spostarsi verso altri centri sanitari della regione restano tali e quali, ponte sullo Stretto e Alta velocità ferroviaria a parte. 

A questa ingiustizia inaccettabile, si aggiunge il vulnus della ripartizione del Fondo sanitario. Dal 1999, il criterio prevalente è fondato sul calcolo della popolazione pesata, che penalizza in generale le regioni meridionali, in particolare la Calabria, che, come qui già detto, ha molti più casi di patologie croniche e comorbilità.

Secondo i calcoli di Mediass, un’attiva Associazione di medici di famiglia che opera nel Catanzarese, per questo motivo la Calabria riceve circa 150 milioni in meno all’anno, rispetto al fabbisogno di cure per i pazienti cronici: cardiopatici, ipertesi, diabetici eccetera. A mia memoria, i dati di Mediass sono addirittura confermati da un decreto commissariale del 2015, in cui nero su bianco si riportano le maggiori percentuali di pazienti cronici che la Calabria ha in rapporto alla media nazionale. Allora c’è un problema di natura strutturale che viene sistematicamente eluso; rispetto al quale, come i fatti ci dimostrano, il commissariamento del Servizio sanitario regionale non è affatto una soluzione.

Per quanto qui esposto, bisognerebbe: 1) modificare i criteri di ripartizione del Fondo sanitario in base ai fabbisogni di cure nelle singole regioni; 2) riformare l’istituto del commissariamento sanitario, come già aveva proposto il Movimento 5 Stelle; 3) nelle aree montane, incentivare il lavoro nella sanità pubblica con misure e risorse statali aggiuntive; 4) sottrarre le spese sanitarie dall’obbligo del pareggio di bilancio, aspetto che andrebbe discusso nelle sedi europee e per cui è fondamentale avere parlamentari dell’Ue informati, avveduti e decisi; 5) modificare le reti assistenziali della Calabria sulla scorta delle omogeneità territoriali e non sulla base di schemi inutili del passato, per cui oggi vi sono ospedali funzionalmente collegati che distano addirittura 150 chilometri l’uno dall’altro.

6) Responsabilizzare e sostituire i dirigenti della sanità che non diano risultati o che a vario titolo risultino inadempienti, come nei casi di datato aggiornamento dei Registri dei tumori; 7) dare spazio, a livello dirigenziale, ai nuovi laureati, ai giovani, ma con trattamenti economici congrui e investimenti mirati, magari recuperando le somme occorrenti con una legge nazionale che riporti in Calabria – come nel resto del Sud, che ne condivide la sorte – parte degli importi che la regione non ha avuto in virtù del vigente criterio di riparto del Fondo sanitario. (pt)

[Pasquale Tridico è già presidente dell’Inps]

LA SANITÀ CALABRESE TRA CRITICITÀ E LA
MANCANZA DI UNA “VISIONE” STRATEGICA

di ANTONIO DI VIRGILIO – La crisi del nostro sistema sanitario, iniziata col suo definanziamento decennale, attestatosi secondo le stime della Fondazione Gimbe a 37 miliardi di euro, è ormai chiara a tutti. L’accesso alle cure e la prevenzione sono negate soprattutto nelle regioni più deboli, tanto che la salute è ormai un diritto differenziato per residenza. La Regione Calabria  dopo 13 anni è ancora sottoposta al Piano di Rientro dai Disavanzi Sanitari Regionali ed al Commissariamento per l’attuazione del suddetto piano, che ha prodotto solo disastri.

Abbiamo assistito a tagli indiscriminati dei posti letto, alla chiusura di 18 ospedali, al blocco del turnover del personale sanitario, all’impoverimento dell’offerta di salute. Risultato? Allungamento delle liste d’attesa, aumento della emigrazione sanitaria, e ciò che più fa male, una riduzione inaccettabile dell’aspettativa di vita. L’attuazione inoltre della autonomia differenziata rischia di acuire ulteriormente tale emergenza al Sud.

La struttura commissariale in Calabria non ha perso la capacità di produrre, come per gli anni passati, decreti (Dca) zeppi di dati, analisi, tabelle complicatissime, criptiche per i non esperti, senza concretezza programmatica né una visione strategica della sanità regionale valida per almeno i prossimi 5 anni.  Sono di questi giorni la polemica e gli attacchi trasversali sulla questione del riordino della rete ospedaliera, il Dca n° 78 pubblicato dal Commissario ad Acta il 26 marzo 2024, avrebbe integrato con 2 tabelle (prese dal Dca 198/2023!) il Dca n°69 del 14 marzo 2024, intervenuto a modifica del Dca n°64/2016 e del Dca n°198/2023. Questo decreto rischia concretamente di diventare il libro dei sogni, tra proposte contraddittorie, posti letto immaginari, Unità Operative fittizie, dotazioni organiche sulla carta, mancanza di coperture finanziarie, con una rete assistenziale territoriale inesistente, che dipingono una realtà sanitaria drammatica.

Mancano 951 posti letto ancora da attivare rispetto al Dca del 2016, e oltre 2000 operatori sanitari e come se non bastasse abbiamo appreso di chiusure e riaperture parziali di reparti qua e là, accorpamenti incomprensibili, ridimensionamenti di unità operative e demansionamenti di dirigenti medici, con la scomparsa di decine di unità semplici, in una regione da cui i giovani medici scappano dal pubblico, rimpiazzati da medici stranieri. Saltano all’occhio il depotenziamento della Nefrologia e della Pneumologia di Corigliano, il ridimensionamento del ruolo strategico del polo ospedaliero di Lamezia Terme e dell’ospedale di Acri, il sottodimensionamento della Cardiochirurgia della Dulbecco di Catanzaro, priva della rianimazione cardiochirurgica dedicata, la chiusura della Terapia Intensiva Neonatale a Cosenza, l’allocazione di reparti di Orto-geriatria in Dea di II livello senza prevedere reparti di Riabilitazione e recupero fisico, il reparto di Recupero e riabilitazione a Cosenza con 11 posti letto senza Primario, mentre si confermano altrove reparti con 2 posti letto ed un primario.

Confermata anche la chiusura progressiva di 35 reparti. Nessun accenno, infine, alla nuova Facoltà di Medicina di Cosenza, dove procede il reclutamento dei professori e che dovrebbe garantire ai laureandi l’accesso ai reparti di degenza; ne saranno istituiti altri nell’ospedale, fotocopia di quelli esistenti? Saranno clinicizzati quelli esistenti, ovverossia diventeranno a direzione universitaria, mortificando, come avvenuto a Catanzaro le legittime aspirazioni di dirigenti medici di chiara esperienza? Vogliamo che anche questi emigrino alla ricerca di migliori condizioni di lavoro e prospettive di carriera? È arrivata l’ora di investire sul personale sanitario.

La programmazione della rete ospedaliera è avvenuta in ossequio al parametro ministeriale del numero di posti letto per 1000 abitanti ed ai vincoli di bilancio imposti dal costoso Advisor Kpmg per il rientro dal deficit sanitario.  Nessuna valutazione è stata fatta riguardo ai bacini   di   utenza, ed alle loro specificità, non si è tenuto conto delle risultanze epidemiologiche delle popolazioni, della prevalenza e distribuzione delle patologie acute e croniche e delle configurazioni geomorfologiche dei territori. È da considerarsi positivo il lavoro fatto sull’analisi dei flussi migratori sanitari, ma preoccupa la totale assenza di una strategia di contrasto. Le questioni aperte sono ancora molte, cosi come gli attacchi continui alla nostra sanità.

La revisione di luglio scorso del Pnrr, Missione 6, riduce le Case della Salute da 1350 a 936 e gli Ospedali di Comunità da 435 a 304, limitando la realizzazione a quelle strutture già esistenti, cosa che si abbatte in modo drammatico sulla Calabria dove la gran parte di esse sarebbe da costruire ex novo. In questo caso nessuna voce si è levata contro questo scippo. Ed ancora il taglio di 1,5 miliardi del fondo per la messa in sicurezza delle strutture ospedaliere che mette a rischio numerose opere in una Regione che grazie alla inettitudine di una classe dirigente, attende da oltre 20 anni la realizzazione dei nuovi ospedali di Catanzaro e Cosenza, tra ipotesi progettuali, protocolli di legalità e pose delle prime pietre.

Noi riteniamo che la riorganizzazione del Sistema Sanitario Regionale vada affrontata con competenza, con una visione organica e soprattutto con coraggio. Col coraggio che occorre per opporsi agli scippi perpetrati da oltre 20 anni a danno di questa Regione, per pretendere, in seno alla Conferenza Stato-Regione la revisione dei criteri di redistribuzione del finanziamento statale dei sistemi sanitari regionali, cosi come da noi proposto da tempo, affinché i divari accumulati possano essere recuperati.

Ma che cosa si richiede alla rappresentanza politica se non il coraggio di difendere con le unghie e con i denti le richieste di salute provenienti dai propri territori? Sulla difesa di questi diritti “Italia del Meridione” non intende accettare compromessi la nostra attenzione sarà massima affinché la salute non sia un diritto differenziato. (adv)

[Antonio di Virgilio è del Dipartimento Federale Sanità]

SMART E SOUTH WORKING, LA POSSIBILITÀ
PER IL SUD CONTRO LA DESERTIFICAZIONE

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Qualcuno pensava che sarebbe stato la soluzione dei problemi di occupazione del Mezzogiorno e a quelli di intasamento del Nord del Paese. 

In realtà sono stato sempre convinto che finita l’emergenza si sarebbe ritornati alla gestione ordinaria e che tale metodo di lavoro sarebbe stato adottato soltanto dalle aziende più innovative. Anche la normativa si è adattata a tale visione e dal primo di aprile lo smart working è tornato alla gestione ordinaria.       

Eppure ormai è un piccolo esercito il numero dei lavoratori in smart working. Passati dai 570 mila del 2019 ai tre milioni e mezzo del 2023, si avvia a raggiungere i tre milioni seicentocinquantamila  entro la fine del 2024, numero che rappresenta oltre il 10% degli occupati complessivi. 

Ma la domanda che rimane in sospeso è quanto lo smart working, al di là dei numeri, possa cambiare invece veramente l’organizzazione del lavoro e influire sullo sviluppo del Sud. 

Anche se bisogna precisare che la base seria di uno sviluppo di tale area rimangono i tre pilastri di cui si è sempre parlato. E cioè il manifatturiero, il pilastro più grande di ogni progetto, sopratutto con l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, che dovrebbe essere favorita dalla Zes, adesso unica; dalla logistica che con i massicci investimenti nell’infrastrutturazione dovrebbe portare i due porti di Gioia Tauro e di Augusta a diventare i primi porti del Paese, magari permettendo che possa avvenire anche lo sdoganamento dei containers e la lavorazione dei semilavorati nei retroporti.

Ed infine un’attività turistica, trasformata nell’industria del turismo, che raggiunga numeri doppi, in termini di presenze, rispetto a quelli che si ottengono adesso, continuando ed implementando quel processo che sta attraversando la branca sopratutto nei grandi centri del Sud. 

Ma lo Smart working può essere uno strumento interessante. Perché, soprattutto molti giovani, sarebbero propensi a optare per un’organizzazione flessibile, per obiettivi. 

La possibilità di gestire al meglio gli orari, di vivere in un posto salubre che magari si ama, in villaggi interni senza dover per forza spendere la metà dello stipendio in affitto in una città, opportunamente vicini ai propri genitori, rimane un desiderio fondamentale di molti. 

Ma conclusa la fase di emergenza, determinata dal Covid, che ha permesso di lavorare da remoto anche tutti i giorni, senza alcun bisogno di ottenere il consenso del datore di lavoro, ora si torna alla “normalità”, e quindi, dal punto di vista delle procedure, all’accordo individuale con il datore di lavoro.

Ma nel frattempo la realtà del mondo del lavoro è cambiata profondamente, la possibilità di fare tutto in remoto, l’apprendimento veloce a cui ci ha obbligati la pandemia, l’implementazione degli strumenti hardware e software, ci ha fatto capire che lo spostamento, peraltro estremamente costoso ed inquinante, non è sempre necessario. 

Tanto che l’abitudine a fare riunioni in web, anche se si è nello stesso edificio, o di lasciare che i collaboratori rimangano nelle proprie case, anche se abitano nella stessa città, si è diffusa notevolmente. Con risparmi per le aziende di spazi e ed energia per illuminare e riscaldare.

Vi sono alcuni esempi virtuosi, che non possono evidentemente rappresentare modelli replicabili, ma che ci fanno capire che si è aperta una frontiera nuova, che porterà nel tempo a una diversa organizzazione del lavoro e alla globalizzazione di esso. 

Con tutti i vantaggi ma anche i pericoli che una nuova organizzazione pone. Tra i vantaggi, come detto, quello di evitare di doversi concentrare tutti nelle megalopoli, con tutti i problemi conseguenti, in termini di mancanza di controllo sociale che porta anche a maggiore forme di criminalità. 

Tra gli svantaggi una diversa distribuzione della ricchezza che porta però interessi consolidati a pressare per il ritorno in ufficio, magari per favorire chi aveva investito in immobili, o in attività commerciali o di ristorazione nei centri storici delle grandi città. Ma anche una competizione al ribasso nel costo del lavoro.

Nel 2019 è tornato in Italia da New York e si è stabilito a Milano, per lavorare in una multinazionale delle telecomunicazioni, Roberto Ceravolo, giovane ingegnere calabrese, ha deciso poi di tornare a casa, a Pizzo Calabro,  in provincia di Vibo Valentia, continuando a lavorare da là. 

Dove ha trovato una dimensione umana diversa con la vicinanza al  mare, la possibilità di ritrovare le radici e la famiglia. La sua azienda è passata da uno schema 80%/20% del lavoro agile e in presenza a uno 60% – 40%, ma con molta flessibilità. 

È così accade che chi vuole distribuisce i giorni di smart working durante la settimana. Altri vanno nella sede dell’azienda una volta al mese, che si trovi a Milano, Londra o New York.  Spesso capita che i giornalisti di una testata di Los Angeles vivano in India con notevoli risparmi in termini di retribuzione delle testate. Un mondo a parte e quando le aziende sono flessibili e adottano il lavoro agile  i risultati arrivano. 

Senza contare che i Millennials e soprattutto la Gen Z sono disposti anche a guadagnare meno pur di lavorare da remoto. La dicitura “Generazione Z” rappresenta l’ultimo elemento di una sequenza alfabetica che identifica le generazioni precedenti con le lettere X e Y ed è nata  o cresciuta  subito dopo l’11 settembre.  

Il loro rapporto particolare con il mondo digitale e la loro familiarità con le nuove tecnologie sono alcuni degli aspetti che li definiscono. 

Pur avendo chiaro che  il lavoro agile non possa essere sostitutivo di uno sviluppo dei territori del Sud, è evidente che bisogna attrezzarsi adeguatamente per far sì che questa possibilità possa essere vissuta nelle città e nelle realtà periferiche meridionali. 

L’inserimento di piccole comunità di generazione Z può essere un lievito importante per far crescere il capitale umano esistente in tali aree, per compensare quello che si perde con le partenze continue che hanno desertificato il Mezzogiorno. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IN ITALIA E IN CALABRIA TANTI GLI ALUNNI
STRANIERI: FORTE RITARDO IN INCLUSIONE

di GUIDO LEONELa scuola, purtroppo per i ragazzi e purtroppo per tutta la società italiana, non è mai stata in cima ai pensieri dei vari governi che in questi anni si sono succeduti nel Paese.

Di essa, la politica o non parla o, se parla, lo fa per slogan e facili soluzioni – oggi l’integrazione degli stranieri, domani le tutele sindacali del corpo docente – deviando l’attenzione dai seri problemi che ha e dai modi più razionali possibile di risolverli.

La querelle sull’inclusione o sulla temuta ghettizzazione degli studenti stranieri nelle scuole italiane ha richiamato l’attenzione su questa particolare tipologia di alunni di cui forse si parla poco, rispetto a diversi anni fa, quando l’immigrazione portava sui banchi di scuola migliaia di alunni stranieri che non conoscevano nemmeno una parola d’italiano.

Con il passare del tempo, la situazione è notevolmente cambiata in termini numerici e anche perché molti , ormai ,sono i minori figli di stranieri nati in Italia, come vedremo più avanti. La nostra normativa ministeriale è tra le più avanzate in Europa.  I minori stranieri hanno diritto all’istruzione – indipendentemente dalla loro condizione di regolarità o da quella dei genitori – nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani.

L’iscrizione a una scuola può essere richiesta in qualunque periodo dell’anno scolastico. I minori stranieri devono essere iscritti alla classe corrispondente alla loro età anagrafica, a meno che il collegio dei docenti deliberi l’iscrizione a una classe diversa, in considerazione dell’ordinamento degli studi del paese di provenienza, del corso di studi seguito, del livello di preparazione raggiunto. Sono questi, in estrema sintesi, i principi sanciti dal nostro ordinamento giuridico per disciplinare le modalità di inclusione dei figli dell’immigrazione nella scuola.

Va sottolineato, poiché in realtà un limite per il numero degli alunni stranieri a scuola è già in vigore dal 2010, stabilito con circolare dall’allora ministro della P.I., Gelmini, in base alla quale il numero di alunni stranieri con una “ridotta conoscenza della lingua italiana” non deve superare il 30 per cento degli iscritti in ogni classe e in ogni scuola.

Il ministro Salvini ,in questi giorni, a seguito della querelle sulla iniziativa della scuola di Pioltello, ha proposto di introdurre un limite al 20 percento più basso di quello in vigore. Il ministro della P.I. Valditara si è accodato dichiarando che l’integrazione avviene più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani

Con tutti gli sforzi possibili, è difficile prendere sul serio l’idea. Purtroppo dimostrano di non avere idea di come vanno le cose nella scuola italiana. Non mancano i rischi di una proposta del genere.

Un limite ancora più restrittivo spingerebbe i minori stranieri a recarsi in luoghi lontani dalla propria dimora se la scuola ha raggiunto il limite previsto, creando problemi alle famiglie in condizioni disagiate. Questo potrebbe spingerli alla non frequenza e nei casi peggiori all’avvio precoce al lavoro e/o allo sfruttamento in forme di accattonaggio.

È ovvio, a questo punto che a livello di sistema, c’è comunque qualcosa che non funziona. Bisogna trovare una strategia strutturale per dare supporto agli alunni stranieri, a misure di sistema per poter inserire dei corsi strutturali di alfabetizzazione continui, non saltuari. Ma non solo, come si dirà più avanti.

Ma analizziamo ora i dati sul fenomeno con una fotografia dello stato dell’arte.

I vari rapporti annuali del Ministero dell’Istruzione, diffusi in questi anni, hanno evidenziato come, per  dimensioni assunte,  costante crescita e diffusione sul territorio, la scuola multietnica sia divenuta ormai un elemento strutturale del nostro sistema scolastico.

Infatti, le prime rilevazioni degli alunni non italiani nelle  scuole  solo nell’a.s.83/84 contavano 6.104 unità con incidenza irrisoria sulla popolazione scolastica (0,06%). In 40 anni gli alunni non italiani delle scuole statali  sono aumentati passando a quasi 869.336 secondo il Focus ministeriale di inizio d’anno scolastico corrente. Entro il 2033 nella scuola italiana potrebbe esserci una platea di studenti stranieri che per la prima volta tocca quota un milione.

È questo il quadro che il ministero dell’Istruzione e del Merito guidato da Giuseppe Valditara ha fornito ai sindacati della scuola. Il dato, è bene ricordarlo, si riferisce sia ai bambini nati all’estero sia a quelli nati in Italia da genitori stranieri.

Il Focus ministeriale evidenzia come  gli alunni stranieri iscritti nel corrente anno scolastico alle scuole primarie sono 331.161, nelle scuole dell’infanzia 114.596 , mentre gli studenti nella scuola secondaria di primo grado ammontano a 195.455 e  nelle secondarie di secondo grado 228.124. Gli unici ordini con una crescita nelle iscrizioni sono la primaria e la secondaria di secondo grado.

La Calabria al quindicesimo posto

Ma guardiamo più da vicino il fenomeno curiosando tra i dati che riferiscono anche della situazione in Calabria.

La Lombardia è la regione italiana che ospita il maggior numero di alunni stranieri  219.275, seguita  da Emilia Romagna e Veneto. Al 15° posto  la Calabria. Negli ultimi anni si può, dunque, rilevare come la crescita, da lenta e graduale, quale era stata per oltre un decennio, è stata velocissima, se non tumultuosa, anche per effetto dei provvedimenti di regolarizzazione.

La scolarizzazione di stranieri tenderà a consolidarsi . Gli alunni non italiani ora alla scuola materna ed elementare- le nuove leve scolastiche – rappresentano quasi i due terzi del totale di alunni stranieri. Il futuro inter-etnico siede già sui banchi di scuola. Ed anche sui banchi delle scuole calabresi e reggine.

La presenza degli alunni con cittadinanza non italiana in Calabria

Nelle scuole di ogni ordine e grado della regione calabrese, secondo l’ultimo report ministeriale 2023/2024 , la presenza ammonta a 17.783 unità , di cui 3.426 nella scuola dell’infanzia, 4.613 nella scuola primaria, 2.923 nella scuola secondaria di I grado  e 3.928 nella scuola secondaria superiore.

I valori attesi per l’anno in corso, rispetto al citato focus del Miur, danno un numero di presenza di minori stranieri nelle scuole della Calabria pari a 17.783, pari al 2,4%.

Da dove vengono gli studenti stranieri in Italia

In Italia sono presenti quasi 200 nazionalità di provenienza diverse. La maggioranza proviene da un gruppo ristretto di paesi, alcuni dei quali sono aree di emigrazione storica verso l’Italia, come la Romania, l’Albania e il Marocco. Sono dati che si riflettono anche nella composizione della popolazione degli alunni stranieri in Italia.

Il paese di provenienza più rappresentato nella scuola italiana è la Romania con quasi 157 mila studenti, il 17,9% degli alunni con cittadinanza non italiana. Seguono Albania (13,5%), Marocco (12,3%), Cina (6,4%) e di seguito India, Egitto, Moldavia, Filippine, Pakistan, Bangladesh.

Sul lungo periodo spicca l’evoluzione della presenza cinese nelle scuole italiane, passata nell’ultimo decennio da 29 mila a 56 mila unità (+93%). Un’altra caratteristica interessante della popolazione scolastica di origine cinese riguarda l’alta percentuale di studenti nati in Italia (84,7%).

Dati notevoli sulle seconde generazioni riguardano anche gli studenti di origine marocchina (76,2% dei quali sono nati in Italia), albanese (75%) e filippina (70,2%).

A proposito di studenti stranieri nelle scuole italiane, non si può non fare un cenno alla recente crisi migratoria causata dall’invasione russa dell’Ucraina Risultano notevoli  le difficoltà di inserimento di questi ragazzini dovute a barriere linguistiche e instabilità abitativa sono i principali ostacoli all’inserimento dei minori ucraini a scuola. Questo fa sì che, stando ai dati del ministero dell’Istruzione, solo il 42% dei circa 40mila ragazzi ucraini presenti in Italia sia iscritto a scuola.

Nonostante gli investimenti – più di 31 milioni di euro stanziati per finanziare progetti di inserimento linguistico, di socialità, di integrazione e di continuità scolastica – rimane il tema di riuscire ad intercettare e coinvolgere i molti ragazzi ucraini che a scuola non ci vanno, con ricadute pesanti in termini di opportunità di socializzazione, inclusione, relazioni fra pari.

L’incidenza dei nati in Italia tra gli alunni con cittadinanza non italiana

Il segmento degli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia registra un progressivo aumento. Questa tipologia di alunni è portatrice di storie e bisogni educativi diversi da coloro che sono appena arrivati in Italia. Sono “studenti in attesa” della legge sulla cittadinanza bloccata in Parlamento. Si attende una legge, magari  frutto di molte mediazioni, che dovrebbe coniugare le proposte dello ius soli con quelle dello ius culturae. 

Bene, se dovesse andare in porto la riforma  ci sarebbero in Italia poco più di  588.986  ragazzi e ragazze che avrebbero in poco tempo i requisiti per diventare cittadini italiani.

Il report ministeriale riferisce  che  minori stranieri nati in Italia nel 2022 presenti in Calabria  sono in tutto 5.261, così distribuiti 340 nella provincia Vibo Valentia ,1.229 a Catanzaro,400 a Crotone, 1.593 a Cosenza e 1.699 a Reggio Calabria.

Problemi aperti

È necessario e urgente  assicurare agli insegnanti del settore una apposita formazione in pedagogia e didattica della lingua parlata che tenga conto del multilinguismo presente nelle scuole e dell’importanza  di uno sviluppo del bilinguismo. 

I due nodi principali da affrontare sono senza dubbio l’elevata incidenza nelle classi e i problemi linguistico – comunicativi. Ad un aumento del numero di stranieri nelle classi corrisponde una maggiore problematicità della gestione. Quasi la maggior parte degli insegnanti italiani chiede il potenziamento della lingua italiana e consiglia il ricorso ai mediatori  culturali.

Ora, poiché la propensione a investire, anche in istruzione, dipende dalla chiarezza sugli orizzonti futuri, è quanto mai opportuno rimuovere ogni inutile incertezza o ingiustificata difficoltà burocratica nei percorsi di acquisizione della cittadinanza italiana, in particolare per gli stranieri nati in Italia che desiderano scommettere sul nostro paese.

Rendere meno vago il loro futuro, dando loro quella fiducia che fino a oggi è stata loro negata da un codice della cittadinanza anacronisticamente difensivo, ci pare un modo sensato per aiutarli  a investire nella propria istruzione. I numeri delle seconde generazioni che abbiamo presentato in queste pagine ci avvertono che la qualità del capitale umano a disposizione dell’Italia nei prossimi decenni molto dipenderà dagli esiti di quell’investimento.

Ci garantiremo così una generazione migliore, cittadini meno spaventati dalle differenze e capaci di convivere le ricchezze culturali che ha da offrirci quest’Italia sempre più plurale. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico USR Calabria]

“UNA VIA DELL’ACQUA” IN CALABRIA PER LA
VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE NATURALI

di GIOVANNI LAMANNA – La Calabria è ricchissima  di sorgenti ed in ogni comune sono presenti le fontanelle con l’acqua di sorgente. 

Presso le sorgenti pubbliche si recavano gli abitanti dei paesi e delle città, con le “vozze” ed i“varrila” a rifornirsi d’acqua per le necessità di casa, far abbeverare gli animali o a lavare i panni.

La maggior parte di questi luoghi risultano ora abbandonati, “siccati”  e invasi da erbe, rovi cespugli e di conseguenza non fruibili dalla popolazione.

La pubblicità e la cattiva gestione delle acque ci hanno spinti verso il consumo di acqua imbottigliata, definita “minerale”, bibite gassate ed ogni altra bevanda confezionata con abbondanza di plastica. L’Italia è il primo paese in Europa ed il secondo al mondo per consumo di acque minerali.

Il dato di valore reale dei tanti prodotti, confezionati con abbondanza di plastica è trascurabile, tanto che vengono definiti “prodotti spazzatura”.  Per indurre all’acquisto di questi prodotti, la pubblicità li associa a valori positivi,  come “sicurezza”,  “salute”,  “ bellezza”,  in modo da renderli desiderabili.  

Questa spinta ad un consumo condizionato, che non riguarda solo le acque,  comporta gravi problemi di inquinamento ambientale e l’aumento dei costi  dello smaltimento dei rifiuti che viene scaricato sulla collettività. Le plastiche, le microplastiche e nano-plastiche hanno un impatto pericoloso su ogni aspetto della vita sulla Terra del quale non abbiamo una sufficiente percezione e presa coscienza. 

Proviamo ad immaginare una semplice famiglia di quattro persone che beve acqua minerale, una bottiglia a persona al giorno, quante bottiglie di plastica espelle come rifiuti e quanto inquinamento produce, aggiungendo che l’acqua spesso proviene da regioni come il Piemonte o il Trentino, dove viene imbottigliata, caricata su camion, che a loro volta inquinano in primis le zone delle sorgenti e nel percorso, tutto il territorio nazionale.

Eppure  i criteri per definire le acque potabili pubbliche, ovvero l’acqua del rubinetto e quelle delle sorgenti pubbliche forniscono ogni garanzia per la salute ed in seguito decreto 18 del 23/02/2023 sono ancora più sicure. Di recente è stato adottato il limite definito dall’Oms, di 0,1 mg litro per la presenza di arsenico minerale, considerato cancerogeno.

Le sorgenti pubbliche rappresentano per la Calabria una risorsa importante ed un pezzo di storia che stiamo letteralmente gettando alle ortiche. La proposta di recupero di questi luoghi non ha alcun contenuto o motivazione nostalgica, ma al contrario si vuole partire dalle  risorse naturali e ambientali sostenibili per inserirle nel processo di  transizione ecologica in corso.

Come movimento politico Italia del Meridione individuiamo l’elemento “acqua” come tema di partenza per il recupero e la valorizzazione delle risorse naturali della Calabria.

A partire dall’analisi delle risorse ambientali del territorio, andrà fatto un  censimento delle varie sorgenti ed una valutazione su quali fonti  siano recuperabili e sia opportuno rimettere in funzione. Ognuno di questi luoghi potrà essere ripensato aggiungendo  elementi che lo rendano accogliente e funzionale , come una tettoia dove ripararsi in caso di maltempo, uno spazio per la sosta  ove gli spazi lo consentano, una bacheca dove lasciare messaggi, qualche  panca, un minimo di cura del verde, magari un impianto fotovoltaico che fornisca energia compensi  i costi di manutenzione. Le informazioni sulla composizione organolettica delle acque di ogni singola fontana, fornite da Arpacal, dovrebbero essere fruibili con semplicità attraverso un codice QR in prossimità della fontana.

In alcuni progetti già presenti in Italia, come “la via dell’acqua” di Capannori, le fontane hanno un sistema di sterilizzazione a raggi Uv che elimina la carica batterica dell’acqua senza alterarne le caratteristiche chimico fisiche.

Questi luoghi potranno ritornare ad essere luoghi di incontro delle comunità intorno ad un “bene comune” realmente utille e fruibile. 

Proponendo l’insieme delle fontane calabresi, così rimodulate e reinventate, collegate, ove il territorio lo consenta, da piste ciclabili e da indicazione di strutture ricettive o attività particolari dei vari luoghi, si andrebbe a strutturare un percorso coerente per livello di qualità, su tutto il territorio regionale. Avremo utilizzato un punto di forza della regione Calabria, ovvero le acque di sorgente, per renderla ulteriormente  attrattiva per il turismo ambientale. 

Immagino che ognuna di queste realtà naturali, possa essere affidata (anche investendo qualche risorsa) alla cura di associazioni locali, oppure ad attività commerciali o semplici cittadini che lo richiedano, in modo da mantenerle vive ed evitando il degrado e l’abbandono.

L’insieme del sistema delle fontane e dell’acqua di sorgente avrebbe un effetto positivo sulla salute prima di tutto, sulla consapevolezza del valore della propria terra, sulla socialità, sull’economia. Le risorse impiegate sarebbero un buon  investimento rapidamente  recuperabile dal maggior afflusso turistico e dall’energia prodotta, dalla riduzione dei consumi di acqua imbottigliata e dalla riduzione dei  costi di smaltimento della plastica.

Anche sul piano culturale sono importanti per decodificare i luoghi, leggerli attraverso l’esperienza, il  sapore e la freschezza delle nostre acque di sorgente. L’amore e l’educazione  al rispetto  dell’ambiente si costruiscono attraverso la fisicità della persona oltre che dall’istruzione. 

Ho appreso che a questi luoghi, spesso è collegata una storia, una leggenda, una fiaba, che andrebbero  recuperate per rafforzarne l’autenticità. 

La descrizione di questa idea, immagino sia sufficientemente chiara ed è benvenuto ogni contributo culturale o tecnico che si riterrà di aggiungere, da parte di associazioni, istituzioni, singoli cittadini, alle mie considerazioni da profano.

Ho inteso, con questo intervento, lanciare una pietra nell’acqua stagnate della politica  per evitare che una “ricchezza” naturale così importante vada dimenticata. 

La Calabria è bellissima. (gl)

[Giovanni Lamanna è responsabile Ambiente – Direzione Regionale Calabria “Italia Del Meridione]

ADESSO BASTA LAVORO INSICURO E POVERO
INVESTIRE SU SICUREZZA E PREVENZIONE

di ANGELO SPOSATO – Lavoro impoverito e insicuro, fisco solo sulle spalle di lavoratori e pensionati, sanità al collasso. Adesso basta! Oggi torneremo in piazza XI settembre a Cosenza, alle 10, aderendo allo sciopero nazionale di 4 ore proclamato per tutti i lavoratori del settore privato.

La mobilitazione di Cgil e Uil continua perché continuiamo a sostenere che: “Adesso Basta!”, questo Paese ha bisogno di risposte concrete su grandi questioni che impattano in maniera rilevante sul mondo del lavoro e quindi sul nostro sistema Paese.

Primo tra tutti il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro. Ogni giorno assistiamo inermi alla strage silenziosa che si consuma sui luoghi di lavoro, più di mille morti l’anno e oltre cinquecentomila infortuni, una guerra civile davanti alla quale la politica fa finta di non vedere.
È ora, invece, di azioni incisive e non più rimandabili. Il Paese ha bisogno di importanti investimenti in sicurezza e prevenzione, di cui tanto si parla, ma le cui pratiche poco si attuano concretamente. È necessario cancellare da subito leggi che nel corso degli anni hanno reso il lavoro precario e frammentato, contribuendo così a realizzare un ambiente lavorativo insicuro.
Servono misure forti contro i sub-appalti “criminali”, consumati sulla pelle dei lavoratori, che rappresentano vecchie, ma sempre attuali, forme di sfruttamento della manodopera in settori come edilizia, agricoltura e turismo, in cui ancora oggi il valore della vita è subordinato al bisogno di lavorare per sopravvivere.
Bisogna potenziare i controlli con un piano straordinario di assunzioni nell’Ispettorato del Lavoro e nelle Aziende Sanitarie Locali ad oggi paurosamente a corto di organici. Le aziende che non rispettano le norme sulla sicurezza vanno fermate, per questo motivo bisogna introdurre una vera patente a punti e condizionare l’erogazione di finanziamenti o incentivi pubblici alle sole aziende che rispettano le norme sulla sicurezza.
Il Paese ha bisogno di riportare l’attenzione sui temi del lavoro, rinnovando e incentivando la contrattazione nazionale promuovendo anche una legge sulla rappresentanza che limiti i contratti “pirata”. Per finanziare la sanità, l’istruzione, le infrastrutture e garantire a tutto il Paese diritti sociali e civili, occorre prendere le risorse dove sono.
L’evasione fiscale complessiva continua ad essere ogni anno sopra i 90 miliardi, mentre intere categorie economiche continuano a non pagare le imposte, lavoratori dipendenti e pensionati, garantiscono oltre il 90% dell’intero gettito IRPEF.
La delega fiscale che dovrebbe cambiare la prospettiva, riducendo le tasse su salari e pensioni, attraverso la lotta all’evasione fiscale, in realtà peggiora la situazione introducendo nuove sanatorie, condoni e concordati, cancellando la progressività dell’imposizione fiscale e tutelando le rendite finanziarie.
Servono misure coraggiose, come la tassazione degli extra profitti delle multinazionali e delle banche per il rilancio dell’economia e per contribuire a ridurre le diseguaglianze che in questo paese diventano sempre più insostenibili.
Per questo motivo saremo in piazza auspicando una partecipazione ampia e trasversale, per continuare a far sentire la nostra voce, la voce di lavoratori e pensionati, la voce di un Paese che soffre e che pretende risposte. (as)
[Angelo Sposato è segretario generale Cgil Calabria]

PONTE, IL DISAGIO DI CHI SUBIRÀ ESPROPRI
NON DIVENTI PRETESTO DI LOTTA POLITICA

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Dovevano  già essere aperti i due info point a Reggio Calabria e a Villa San Giovanni, per le informazioni riguardanti coloro che dovranno lasciare le loro proprietà per far posto ai cantieri del Ponte sullo Stretto.

In realtà ancora pare siano in preparazione e la loro apertura ritarderà di qualche giorno. Ma sono stati  pubblicati gli avvisi che riguardano gli espropri delle case e dei terreni che faranno posto ai cantieri. Circa 300 le abitazioni che saranno espropriate sul versante messinese, circa 150 su quello calabrese.

Immaginatevi le reazioni di chi avendo abitato in una certa zona si vede costretto a trasferirsi, si vede tagliate  le  proprie radici, magari obbligato ad abbandonare realtà in cui si è abitato da sempre, dove sono nati i propri figli,  per un’esigenza collettiva.

È un processo che riguarda tutti gli espropri, ma quando si tratta di autostrade, alta velocità ferroviaria, in genere la presa in possesso per pubblica utilità riguarda terreni per cui, anche se si perde il diritto alla proprietà, il trauma è inferiore.

Quando si tratta di abbandonare  le proprie case il fatto ha un impatto devastante. Si pensi che il semplice trasloco viene ritenuto tra le cose più stressanti della vita di un uomo quando è volontario, immaginate quando è forzato. Il trauma da trasloco viene definito come un life-event problematico che porta ansia, preoccupazione, disagio e sofferenza a chi non riesce a elaborare il passaggio da un’abitazione all’altra. Gli effetti nel caso sia obbligato saranno molto più pesanti. Per questo l’attenzione da parte della Società Ponte dello Stretto dovrebbe essere massima, la disponibilità agli incontri totale, mentre pare che per avere spiegazioni bisogna concordare un appuntamento. Farebbe bene la Stretto di Messina a non sottovalutare un aspetto che sembrerebbe meno importante di quelli tecnici relativi al progetto, alle prove nella galleria del vento, alla faglia che si allontana, insomma a tutti quegli aspetti ai quali sta dedicando la massima attenzione.

L’esigenza da parte della società di capire che l’aspetto  psicologico è importantissimo; che

è necessario un approccio convincente e molto conveniente per chi sarà sottoposto a un tale trauma non deve assolutamente essere ritenuto meno importante, come sembra stia avvenendo.

Si può costruire una infrastruttura anche contro la volontà dei territori, ma non è il modo migliore di procedere in una democrazia. Ricordiamo tutti che in Iran Mohammad Reza Pahlavi, che voleva saggiamente modernizzare il Paese, facendo passare le autostrade sopra i villaggi che venivano requisiti e distrutti, alla fine è stato deposto.

Intanto con le elezioni europee vicine,  anche questo necessario passaggio sta diventando campo di lotta politica. Cosa c’è di più interessante per chi si è dichiarato contrario che cavalcare un disagio così importante? Quasi tutta la sinistra a parte qualche esponente dissidente del PD, che oggi evita di esporsi considerato che Elly Schlein si è lanciata, inopportunamente, lancia in resta, a costituire quel campo largo, che su tutti gli altri temi fallisce, si è allineata.

Non è un fatto nuovo, si può ricordare ad esempio che il Pci non voleva neppure l’Autostrada del Sole, e il Pds si oppose all’Alta Velocità ferroviaria.

Non fa testo e rimane una rondine che non fa primavera la dichiarazione di Vincenzo De Luca, Governatore della Campania, che si pone in distonia con la sua segretaria: «Il Ponte sullo Stretto di Messina è una grande struttura di cui necessitano la Sicilia e l’Italia. Io sono favorevole alla sua costruzione».

Ma non sono in tanti ad avere il coraggio di porsi in contrapposizione alla segretaria del momento. Probabilmente appena si cambierà segretario anche la posizione del partito cambierà, come è avvenuto periodicamente negli ultimi anni.

«La pubblicazione dell’avviso non significa affatto che gli espropri, e a seguire il cantiere, partiranno». Così la senatrice messinese del M5S Barbara Floridia. Là speranza è l’ultima a morire lo si sa.

«Le associazioni e i comitati dei cittadini stanno preparando centinaia di osservazioni al progetto che dovranno essere valutate tutte con la massima attenzione e che ci sono le autorizzazioni relative all’impatto ambientale da ottenere – aggiunge –. Le comunicazioni, però, restano fuorvianti, poco trasparenti e si agisce sempre comprimendo i diritti dei cittadini, i quali già in origine sono stati tagliati fuori dal dibattito pubblico sull’opera, pur previsto dal nostro codice degli appalti, ma rispetto al quale per il ponte il Governo ha preferito derogare».

Dall’altra parte Salvo Geraci, deputato della Regione siciliana della Lega afferma: «Ci sono tutte le condizioni per realizzare l’opera: con l’avvio delle procedure di espropriazione per pubblica utilità parte l’iter per la realizzazione del Ponte  di Messina. Sentiamo forte la responsabilità anche come Regione Siciliana di contribuire concretamente alla realizzazione del Ponte. È questa l’occasione per unire la Sicilia al continente in maniera reale e per determinare sviluppo e crescita».

 «La pubblicazione di un avviso è l’ennesimo tentativo di distrazione di massa. La verità è che non c’è nessun progetto approvato, che arriveranno invece in tempo utile montagne di osservazioni, che partiranno innumerevoli ricorsi, anche per colmare l’incomprensibile e assurdo silenzio delle istituzioni locali. Gli espropri potrebbero essere avviati solo dopo la “Dichiarazione di Pubblica Utilità”, che seguirà l’eventuale approvazione del Cipess. Prima di allora nessun avviso “privato” può avviare nessun esproprio». Cosi le opposizioni.

Non c’è stata opera in Italia più divisiva e più politicizzata. D’altra parte ha caratteristiche uniche sia in termini di una campata così lunga, ma anche per il fatto che si debbano “sprecare al Sud” tante risorse.

E vedono queste risorse sottratte alle opere necessarie al Centro Nord. E i mezzi a disposizione della vulgata nordista sono abbondanti e vengono utilizzati tutti. ν

[Courtesy Il Quotidiano del Sud

– L’Altravoce dell’Italia]

(pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

 

LE AMMINISTRAZIONI CALABRESI AGISCANO
PER UNA MAGGIORE TUTELA DELLA NATURA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Oggi, più che mai, è fondamentale «agire per tutelare l’ambiente muovendosi nel quadro legislativo vigente nell’interesse della collettività», oltre che «è indispensabile uno stop deciso delle capitozzature, delle potature drastiche e dei tagli ingiustificati delle alberature».  È imperativo l’appello lanciato da Legambiente Calabria, chiedendo alle amministrazioni una «maggiore tutela e rispetto della natura».

«Nell’epoca dei cambiamenti climatici e degli eventi meteorici estremi –  ha spiegato l’Associazione – è ancora più doveroso e sensato che le amministrazioni comunali effettuino la gestione del verde urbano ed in particolare le potature degli alberi  in maniera corretta. Il rispetto della Natura dovrebbe essere la base della civiltà umana e dovrebbe anche apparire evidente che solo un albero ben curato fornisce adeguati servizi ecosistemici ed è in grado di resistere a situazioni climatiche estreme, evitando ad esempio le rotture delle ramificazioni a seguito di forti venti, nevicate o violenti temporali. Purtroppo assistiamo ogni anno ad una devastazione del verde pubblico che, in molti comuni calabresi, sembra essere gestito con superficialità e incompetenza».

«Negli ultimi giorni – viene spiegato – i circoli di Legambiente Calabria hanno ricevuto diverse segnalazioni, l’ultima in ordine di arrivo da parte della minoranza consiliare del Comune di Jacurso (Cz), in merito alla capitozzatura ed alla potatura drastica delle alberature. Riteniamo quindi necessario ribadire la necessità ed importanza dell’adozione, da parte delle amministrazioni, delle giuste regole di potatura e gestione degli alberi, così come importante è “la comunicazione mediatica e l’educazione di amministratori e residenti per ridare dignità all’albero e al suo valore ambientale e sociale” da inserire nei regolamenti del verde pubblico e privato e da far osservare in maniera rigorosa».

«Troppo spesso, infatti – continua la nota – anche nei Comuni che hanno adottato regolamenti ad hoc, stiamo assistendo a tagli radicali di piante non giustificati da impellenti rischi per le persone e le cose come è accaduto di recente a San Giovanni in Fiore (CS). Molto grave il caso di Rende (CS) dove, con la netta opposizione di diverse associazioni ambientaliste tra cui Legambiente, prosegue da mesi l’abbattimento di alberi ad alto fusto con la motivazione paradossale di “riqualificare” i luoghi».

Legambiente Calabria «ricorda a tutte le amministrazioni calabresi – viene evidenziato – che la redazione dei regolamenti del verde pubblico e privato in ambito urbano è obbligatoria sin dal 2010 e che in caso di taglio per motivi di sicurezza pubblica le relative motivazioni devono essere stabilite da una relazione tecnica che ne attesti l’effettiva necessità».

«La recente Legge regionale 7 febbraio 2024, n. 7 “Norme in materia di valorizzazione delle aree verdi e delle formazioni vegetali in ambito urbano, all’ Art. 6 (Linee operative per gli enti locali. Obblighi e divieti) – ha ricordato l’Associazione – afferma testualmente: “I Comuni sono tenuti ad osservare i seguenti divieti: capitozzare, abbattere, eradicare, danneggiare alberi e siepi”. Il decreto del Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare del 10 marzo 2020 contiene, invece, i criteri ambientali minimi per il servizio di gestione del verde pubblico e la fornitura di prodotti per la cura del verde (Cam)».

«È necessario, in base alla vigente normativa – ha proseguito l’Associazione – “evitare di praticare la capitozzatura, la cimatura e la potatura drastica perché indeboliscono gli alberi e possono creare nel tempo situazioni di instabilità che generano altresì maggiori costi di gestione” intendendosi per “capitozzatura” il “drastico raccorciamento del tronco o delle branche primarie (sbrancatura) fino ad arrivare in prossimità di questi ultimi (Fonte linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile a cura del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare-Comitato per lo sviluppo del verde urbano)».

«A tal fine – ha concluso Legambiente – appare opportuno prevedere requisiti minimi di competenza posseduti dal personale che svolge il servizio e di formazione continuativa degli operatori che garantisca la qualità del servizio nel tempo. Tutti i criteri ambientali minimi, poi, sono improntati alla salvaguardia della fauna selvatica: “Le attività di manutenzione, soprattutto dei parchi suburbani e di aree a forte valenza ambientale, devono essere eseguite creando il minore disturbo e danno alla fauna presente nell’area”».

Un’attenzione che tutti gli amministratori dovrebbero avere, considerando il vasto patrimonio ambientale che la Calabria possiede e le numerose attività di pulizia e tutela operate dalle Associazioni che, tuttavia, da sole non bastano. Sicuramente, il protocollo siglato tra Assocultura, Arpacal e Sigea per la tutela dell’ambiente e della Cultura, è un passo avanti, oltre che il primo del suo genere, dato che unendo le competenze di un’associazione culturale, un’agenzia ambientale e una piattaforma tecnologica, andrà a creare un quadro completo e sinergico per affrontare le sfide attuali legate alla sostenibilità.

Non meno importante, il recente protocollo d’intesa sottoscritto tra Calabria Verde e Arpacal, volto alle verifiche di balneazione e corsi d’acqua.

Un protocollo che vedrà i due Enti impegnati «in un monitoraggio sui tratti costieri calabresi – ha spiegato il dirigente del settore Ambiente, Salvatore Siviglia – per individuare gli elementi di criticità e, contestualmente, affrontare e risolvere le situazioni di inquinamento. Questo esperimento proseguirà ora su tutti i 106 Comuni costieri consentendo al Dipartimento ambiente, all’Arpacal e a Calabria Verde di mettere in piedi un sistema di osservazione e controllo dei potenziali carichi inquinanti che si riversano in mare».

«Grazie all’interazione tra questi organismi regionali ci sarà la possibilità di effettuare un monitoraggio puntuale di tutte le aree costiere balneabili della Calabria», ha spiegato il commissario di Arpacal, Michelangelo Iannone.

Un protocollo necessario – ha spiegato il direttore generale di Calabria Verde, Giuseppe Oliva – per proseguire nel processo di riqualificazione del comparto della sorveglianza idraulica. Con il supporto della Regione e di Arpacal lavoreremo per un migliore e più proficuo impiego del nostri lavoratori che, grazie alla delibera di Giunta regionale numero 668, hanno acquisito ulteriori funzionalità all’interno del servizio di sorveglianza idraulica». (ams)

DARE I FONDI IN BASE AI MALATI CRONICI
SERVE QUESTO ALLA SANITÀ CALABRESE

di GIACINTO NANCIIn Calabria si è riacceso il dibattito sulla sanità calabrese tra gli amministratori i sindacati e le forze politiche, ma è un dibattito che non potrà avere risultati perché è fatto all’interno di un “recinto” chiuso dove i veri problemi della sanità calabrese non hanno cittadinanza. In quel recinto non vi sono: il cronico sottofinanziamento della sanità calabrese, la maggiore prevalenza delle patologie croniche in Calabria rispetto al resto d’Italia e il fallimento (se non anche la causa di altri mali della sanità calabrese) sia del piano di rientro che del commissariamento.

La legge n.280  del 1996 per il riparto dei fondi sanitari alle regioni basata sul calcolo della popolazione pesata, applicata fin dai primi anni del 2000, ha fatto si che la Calabria (insieme a molte regioni meridionali) fosse agli ultimi posti del riparto dei fondi sanitari pro capite. Ed è per questo (non per incuria degli amministratori calabresi) che i pochi soldi ripartiti dove c’erano molti più malati non potevano bastare e quindi la Calabria è andata in deficit. Allora il governo senza valutazione approfondita nel 2009 ha imposto alla regione Calabria il piano di rientro che vuol dire risparmiare ulteriori soldi dove già ne arrivavano pochi e non bastavano.

E nel 2011 ha imposto anche il commissariamento escludendo la Calabria dalla gestione della sanità calabrese. Nel dibattito attuale che si è aperto ci si dovrebbe chiedere come mai un commissariamento che per sua natura è un istituto di breve durata (come ad esempio il commissario per la costruzione del grande ponte di Genova crollato e ricostruito in appena un anno) dura ininterrottamente da 14 anni. Questa durata è proprio l’antitesi di un commissariamento, tanto più che perfino una sentenza della Corte Costituzionale n. 168 del 23/07/2021 lo ha dichiarato parzialmente anticostituzionale e la Corte dei Conti Regione Calabria il 01/12/2022 ha sentenziato che con le procedure adottate il deficit sanitario calabrese è ingestibile e potrebbe durare all’infinito.

Infatti dove ci sono molti più malati (Calabria) e arrivano pochi fondi la situazione non potrà mai migliorare e di questo sono tutti al corrente perché già certificato dal Dca n. 103 del lontano 30/09/2015 firmato dall’allora commissario Scura e vidimato prima dal Ministero delle Finanze (sì perché i decreti del commissario al piano di rientro calabrese devono essere prima vidimati da questo ministero per valutare la “diminuzione” di spesa e poi da quello della Salute che ne valuta la validità per le cure dei calabresi) e poi da quello della salute. Ebbene, alla pagina 33 dell’allegato n. 1 a questo decreto il commissario Scura scriveva «si sottolineano valori di malattie croniche al di sopra della media nazionale intorno al 10%». Quindi tutti sono e sono stati al corrente che in Calabria ci sono molti più malati cronici che non in altre regioni d’Italia. E visto che il Dca n. 103 è fornito di precise tabelle è stato facile calcolare che in Calabria fin da allora c’erano ben 287.000 malati cronici in più che non in altri due milioni di altri italiani.

Il Dca certifica anche che in Calabria vi è più comorbilità, 159 verso 153 dell’Italia che vuol dire ulteriore aumento di spesa sanitaria. Il dibattito dovrebbe quindi vertere su una concordanza di tutti (amministratori, sindacati, operatori, politici ect…) nel richiedere alla Conferenza Stato Regioni che le sanità regionali vengano finanziate in base ai reali bisogni delle popolazioni cioè più fondi dove ci sono più malati cronici. Oggi sappiamo quanto costa curare una patologia cronica sappiamo quanti malati cronici ci sono nelle varie regioni e questo sarebbe il finanziamento più corretto che andrebbe incontro ai bisogni delle popolazioni, altrimenti l’aspettativa di vita (a differenza del resto d’Italia) alla nascita in Calabria continuerà a diminuire per come accade dall’inizio del piano di rientro ad oggi.

Paradossalmente una cosa simile è stata già fatta nel 2017 quando l’allora presidente della Conferenza Stato regioni on. Bonaccini ha annunciato una “parzialissima modifica” e basata oltre che sul calcolo della popolazione pesata anche sulla “deprivazione” (sono parole sue). Ebbene la Calabria nel 2017 ha avuto 29 milioni in più del 2016 e tutto il Sud ben 408 milioni in più rispetto al 2016. Questa modifica ovviamente non è stata ne ampliata ne riproposta. Considerando che la modifica è stata “parzialissima” è facile calcolare che la sottrazione di fondi sanitari alle regioni meridionali è stata negli anni dell’ordine di miliardi di euro.

Inoltre il piano di rientro per la Calabria è dannoso non solo per la sanità perché è fatto per risparmiare soldi ma deprime tutta l’economia calabrese, perché nel 2011 il governo ha fatto un prestito alla Calabria, per il risanamento del deficit, di 400 milioni che stiamo restituendo con 30 milioni circa all’anno fino al 2040, restituendo ben 922 milioni con un tasso del 5,85% che è molto vicino al tasso usuraio per questo tipo di prestiti che è del 6,03%. Per capirci se pagassimo il prestito ad un tasso del 1% dovremmo dare ogni anno non 30 ma 20 milioni.

E l’economia calabrese è danneggiata da questo prestito (vale la pena di ripeterlo) fino al 2040, e dal piano di rientro perché a causa loro i calabresi hanno avuto più ticket sanitari e ad un più alto costo, i calabresi pagano più Irpef, un lavoratore che guadagna 20000 euro lordi paga 423 euro in più di irpef di un lavoratore milanese e un imprenditore calabrese con un imponibile di un milione di euro paga ben 10.000 euro in più di Irap di qualsiasi altro imprenditore italiano, inoltre abbiamo aumento sulle accise dei carburanti. Infine a dimostrazione che quanto qui scritto è realta basta citare il fatto che la Campania, che è la regione più simile alla Calabria sia per sotto finanziamento che per maggiore presenza di malati cronici, ha fatto ricorso nel giugno 2022 al Tar specificatamente per il fatto che il criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni per come è fatto danneggia la Campania. Ma la cosa importante è che il governo di allora ha detto che avrebbe provveduto a modificare i criteri perché cosciente che il Tar darò ragione alla regione Campania.

Ma ancora pochissimo è cambiato. Infine quando al danno si aggiunge la beffa, l’Istituto Gimbe ha dichiarato che “l’autonomia differenziata sarebbe uno schiaffo per la sanità del Sud”. Quindi non sterili dibattiti e scontri ma unire le forze per battere i pugni sul tavolo della Conferenza Stato Regioni affinché i fondi sanitari alle regioni vengano fatti in base alla numerosità delle patologie ed è questo che renderà inutili i piani di rientro e i commissariamenti, altrimenti come dice la Corte dei Conti “debito infinito” e fatto tra l’altro da un commissariamento parzialmente incostituzionale per come decretato dalla Corte Costituzionale. (gn)

[Giacinto Nanci è medico in pensione dell’Associazione Medici di Famiglia Mediass]