ECONOMIA, POLITICA E CULTURA: DA QUI
PARTE LA RIVOLUZIONE DEL MEZZOGIORNO

di PINO APRILE – Alla fine, gira gira, sempre lì si torna: alla domanda che l’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, Larry Summers, pose al neo nominato ministro all’Economia della Grecia, nel tritacarne dell’Unione europea, al servizio delle banche tedesche e francesi, tramite la Bce guidata da Mario Draghi: «Ci sono due specie di politici, quelli che “giocano dentro” e quelli che “giocano fuori”. Tu come giochi?». E l’esperienza ormai ci dice che da una costretta subalternità si esce solo giocando fuori; dentro si può soltanto quando si ha un potere paragonabile a quello degli altri al tavolo.

Il meridionalismo è coscienza di una condizione di minorità imposta (quindi coloniale), ricerca e divulgazione della rete di interessi e dei metodi che generano e incrementano le disuguaglianze, costruzione di una politica per contrastarle. Su questo ci si scontra e divide, con le migliori e peggiori intenzioni, anche perché appena un tema comincia a divenire popolare (e il neomeridionalismo lo è sempre più), accadono due cose: gli opportunisti se ne sporcano (e lo sporcano) per trarne il maggior possibile vantaggio personale e i poteri dominanti li usano, per riportare ogni novità da “fuori”, “dentro”, sotto il loro controllo, e usarla, per i loro fini, con le loro regole del gioco.

Sono convinto che non c’è più alta e produttiva politica dell’informare, che vuol dire porre altri nella condizione di elaborare liberamente opinioni e agire di conseguenza (sapere è necessario per fare; sapere e non fare è un peccato di omissione, pigrizia sociale, se non proprio vigliaccheria).

L’inattesa accoglienza di “Terroni” rivelò l’esistenza di un insospettato e insoddisfatto bisogno di conoscenza di storia non addomesticata e delle ragioni di quella Questione meridionale che invece di essere spiegata con dati di fatto (occupazione militare, stragi e, a unificazione compiuta, opere pubbliche, ferrovie, con i soldi di tutti, a Nord, e a Sud no; autostrade e strade, idem, Sanità pure, eccetera), è tuttora addossata, con uso di razzismo, a incapacità o insufficienza genetica dei terroni (si possono conquistare cattedre universitarie, ancora oggi, dalla storia all’economia, sostenendo, da meridionale, che il Sud “rimane” indietro per colpa sua e dei “briganti”).

Venne così scoperto un vero e proprio filone editoriale. Tant’è che su un tema che pareva sepolto da decenni di noia e insignificanza, il Sud, fiorirono in pochi anni centinaia di testi, pro e contro. Volendo sintetizzare in modo feroce, dal meridionalismo storico di giganti quali Nitti, Salvemini, Dorso, Gramsci, Ciccotti e tanti altri, si è ora a una fase più popolare, divulgativa, sia pur a distanza di un secolo e grazie ai social.

A tentare di arginare il fenomeno, per sostenere la versione dominante di stampo massonico della unificazione e della minorità meridionale, insorsero truppe cammellate intellettuali della colonia terrona, dalle cattedre (con qualche notevole sorpresa di segno contrario) ai giornali (specie del Sud, o di giornalisti meridionali “evoluti” in quelli del Nord).

Questo l’avevo messo in conto, ma l’aspettavo da pretoriani padani, quali Barbero e Cazzullo, tutto sommato più onesti. L’operazione era ed è condotta su diversi registri: dall’attacco diretto (sino a stalker di dichiarata obbedienza massonica, monotematici e ossessivi, che si ritrovano ad avere, da nulla, un ruolo) a quelli in apparenza “professionali” di chi, di fronte a un secolo e mezzo di bugie, mezze verità o verità distorte, cerca l’errore vero o presunto nei testi di chi le denuncia (e volete che in migliaia di pagine scritte non ce ne siano? «Quindi lei ha visto l’imputato sparare alla vittima, poi dargli il colpo di grazia e infine buttare la pistola nel fiume. Giusto?». «Sì». «E di che colore erano le sue scarpe?». «È l’ultima cosa a cui prestavo attenzione in quei momenti. Mi sembra nere». «Testa di moro, signor giudice, testa di moro! E vogliamo fidarci di questi testimoni oculari?». Un diverso modo di schierarsi e servire, più subdolo, fingendo di “giocare fuori”, ma “stando dentro” e giocando contro.

Io volevo continuare a cercare e divulgare, convinto che le ragioni del meridionalismo non possono essere di parte, e il treno per Matera che manca dovrebbe indurre tutti a volerlo, da destra o da sinistra, non importa, ognuno secondo il proprio sentire.

Dopo nove anni, in un momento che non sapevi se di farsa o dramma (Salvini zuppo di mojitos in Parlamento, che chiedeva pieni poteri) mi lasciai convincere a dare una traduzione partitica a un fenomeno editoriale, nella presunzione che i lettori potessero divenire elettori a sostegno di una politica di equità per il Sud.

La pandemia di covid mostrò che qualcosa non andava; forse solo accelerò quello che comunque sarebbe successo in tempi più lunghi: sfrenate ambizioni personali, ricadute nella solita trappola che divide il Sud fra destra e sinistra, a scapito degli interessi comuni, mentre sui suoi il Nord trova sempre modo di agire con unica voce. Pulsioni esasperate da una voglia troppo a lungo trattenuta di “tutto e subito”, che rendeva intolleranti e impazienti. Forse, per tener insieme tante e inconciliabili spinte (curiosamente, a blocchi regionali contrapposti), sarebbe servito qualcuno più accomodante, elastico, più “politico”. Ma io, e sarà un male?, non sono così, ho un carattere elementare: sì o no.

Il Movimento che comunque sorse ebbe una immediata crescita che impensierì partiti e poteri dominanti, più di quanto riuscissimo a percepire. E cominciò l’opera per captarlo (se avessimo accettato di giocare “dentro”) e/o demolirlo (se fossimo rimasti “fuori”). A favorire questo lavorio, le nostre convulsioni in cerca della migliore via per influire sulle scelte per il Mezzogiorno, da alleanze elettorali in sede locale con partiti esistenti o con una formazione nuova per le europee, a iniziative politiche da soli nei Comuni.

Ma la sensazione è che su questa via (che in alcuni casi potrebbe restare percorribile, saranno le maggioranze a deciderlo), si rischia di divenire sempre meno distinguibili, per la proliferazione, non si sa quanto spontanea, di soggetti in apparenza simili, ma nei fatti di senso diametralmente opposto (come le mozzarelle di bufala fatte in Germania). Un modo per confondere, disorientare, se pensate che persino i peggiori trombettieri di regime anti-meridionale compaiono in alcuni di questi gruppi, come “esperti” del contrario (di nuovo: fingere di “stare fuori”, “stando dentro”, per agire contro).

Così, è forse il caso di ricordar qual è la filiera: l’economia genera una politica al suo servizio, su cui fiorisce una cultura. Per dire: dal sistema produttivo della civiltà agricola hai organizzazioni umane che inducono a divenire stanziali; a sostegno di queste politiche sorge una cultura che ne giustifica i valori contro quelli del nomadismo, e dice moralmente giusto lo sterminio dei cacciatori-raccoglitori (Caino uccide Abele e Dio non interviene a fermare la sua mano, ma impedisce che l’assassino sia punito; oppure: gli agricoltori del Far West celebrati per l’eroico genocidio degli indiani).

Quindi? Quindi, bene insistere con una operazione culturale che denunci la condizione coloniale del Sud; bene cercare politiche per contrastare questa vergogna ultrasecolare; ma la prima azione dev’essere sull’economia. Lo stato coloniale del Sud non è imposto solo tramite i partiti “nazionali”, ma attraverso aggregazioni di enti (l’Associazione dei Comuni, la Conferenza Stato-Regioni) e per il controllo della filiera produttiva (Confindustria) e dei mezzi di comunicazione.

Ma come, se non abbiamo mezzi, risorse e siamo pochi? Obiezioni fondate ma inutili: si dovesse aspettare di avere quello che serve, non si farebbe mai nulla, perché si parte sempre da posizioni di svantaggio, proprio per correggerle o ribaltarle. Si fa come si può, con quello che si ha. Ma subito. È poco? Nulla è ancora meno e tutte le cose nascono piccole.

Così, dovremmo (e persino io dall’alto delle mie incapacità) dedicarci a iniziative per creare a Sud lavoro di tipo identitario, che generi reddito e legame con la propria terra, con la scoperta che la nostra storia è pane, la nostra civiltà contiene ricchezza. Una goccia nel deserto dei due milioni di meridionali costretti a emigrare in scarsi vent’anni e degli otto milioni in meno che si prevedono, nel futuro prossimo.

Ma riuscisse, ognuno, a impedire che lasci il suo paese uno solo dei giovani costretti ad andar via, non avremmo sprecato il nostro tempo. Solo chi sa che a casa trova il piatto a tavola può poi occuparsi di politica e magari leggere un libro, per nutrire anche la mente.

Per dire: qual è la quota di prodotti del Sud nei supermercati (avamposti della colonizzazione), nelle stazioni di servizio? Più riusciamo a farla crescere, meno giovani meridionali andranno via.

E quanti posti di lavoro danno (possono dare) i templi di Agrigento?

Economia-politica-cultura: questa la catena. E cominciamo dall’inizio, allora. (pa)

BAKER HUGHES RESTA IN CALABRIA: 26 MLN
STANZIATI PER LO STABILIMENTO DI VIBO

di SANTO STRATI – Quando tutto sembrava perduto dopo l’assurdo ricorso al Presidente della Repubblica contro l’investimento da 60 milioni della multinazionale Baker Hughes, ecco dal cilindro di Mandrake-Occhiuto il recupero. Non ha fatto illusionismi, però, il Presidente della Regione, né ipnotizzato i suoi interlocutori, ha semplicemente esercitato il suo fascino di ammaliatore di industriali e ha convinto Baker Hughes a non scappare dalla Calabria.

Non ci sarà l’investimento da 60 milioni a Corigliano-Rossano, ma la multinazionale investirà 26 milioni di euro per potenziare lo stabilimento di Vibo Valentia. Un respiro di sollievo per tutta la Calabria, affamata più che mai di investimenti importanti per la creazione di occupazione e nuovi posti di lavoro.

«La nostra mission – ha dichiarato il presidente Roberto Occhiuto – è costruire in Calabria un contesto istituzionale favorevole all’attrazione di investimenti. Sono molto contento che aziende di primaria importanza come Baker Hughes, così come altre, abbiano trovato nella nostra Regione la sede di importanti investimenti. Continueremo le interlocuzioni con Baker Hughes per tentare di recuperare anche il resto dei 60 milioni inizialmente annunciati e farli rimanere tutti nella nostra Regione».

Occhiuto aveva incontrato ieri mattina, presso la Cittadella di Catanzaro, il presidente di Baker Hughes-Nuovo Pignone, Paolo Noccioni.

Durante la riunione – alla quale hanno preso parte anche l’assessore allo Sviluppo economico, Rosario Varì, e il vice presidente dell’azienda Paolo Ruggeri – è stato affrontato il tema degli investimenti di Baker Hughes in Calabria.

La multinazionale aveva inizialmente previsto di investire 60 milioni di euro nella nostra Regione, ma nelle scorse settimane è tramontata – com’è noto – l’ipotesi che riguardava il porto di Corigliano-Rossano.

Grazie alle interlocuzioni tra la Regione e la multinazionale, Baker Hughes ha però annunciato ieri l’intenzione di confermare ed aumentare gli investimenti per Vibo Valentia: 26 milioni di euro dei 60 rimarranno, dunque, sul nostro territorio.

Il piano per lo stabilimento vibonese, recentemente rivisto dall’azienda alla luce degli eventi che hanno interessato gli sviluppi delle proprie attività nella regione, prevede per i prossimi tre anni un investimento davvero importante, per l’appunto 26 milioni di euro – maggiore del 50% di quello inizialmente stabilito -, che porterà all’espansione delle attività industriali nel sito.

In particolare, gli investimenti sono funzionali al potenziamento del ruolo di centro di eccellenza dello stabilimento di Vibo nel panorama della catena globale di fornitura di Baker Hughes e prevedono anche la costituzione di un Engineering Digital Hub, quindi anche attività di ricerca e sviluppo ingegneristico.

Il sito Baker Hughes di Vibo è da più di 60 anni un centro di eccellenza per la saldatura, per la progettazione e la costruzione di scambiatori ad aria per diverse applicazioni nel settore dell’energia, per l’assemblaggio di centraline e per la fabbricazione e lavorazione meccanica di grossi componenti di materiale pregiato che vengono utilizzati nella produzione di compressori e turbine a gas.

Anche l’assessore Varì ha espresso viva soddisfazione per l’impegno di Baker Hugues su Vibo: «Sono molto contento che Baker Hughes, anche grazie all’ottimo rapporto instauratosi con il governo regionale, continui ad investire in Calabria, sullo stabilimento di Vibo Valentia, a Porto Salvo, dove è insediata da 60 anni e dove ha creato un ottimo rapporto con la popolazione.

La decisione dell’azienda è importante non solo per le ricadute occupazionali rilevanti che un investimento da 26 milioni di euro determinerà, ma anche perché dette risorse, oltre che per accrescere la produttività e produzione, saranno impiegate in ricerca e sviluppo, un ambito che determina di per sé attrazione di nuovi investimenti e occupazione per i giovani laureati calabresi che vorranno lavorare sul territorio per una grande azienda».

La gestione dell’investimento originariamente previsto per il Porto di Corigliano-Rossano è stata a dir poco disastrosa e non è un’opinione: l’Amministrazione Stasi aveva fatto sfumare non solo l’impegno della multinazionale, ma ispirato il completo disimpegno nei confornti della regione Calabria.

Il Presidente Occhiuto non aveva però perso le speranze e ha cercato in tutti i modi di ricucire lo strappo e riannodare i fili di una complessa trattativa fatta naufragare in modo così banale e assurdo.

Il nuovo investimento, destinato a Vibo, non solo conferma l’intenzione della multinazionale di restare sul territorio, ma lascia persino il margine (è un’idea di Occhiuto) per far destinare la rimanente parte dei famosi 60 milioni iniziali (ci sono 34 milioni in ballo) sempre sul territorio calabrese.

Senza tirare per la giacchetta alcuno, ci permettiamo di segnalare la grande opportunità che è offerta da un diverso utilizzo dell’area del Porto di Saline. Un’area immensa dove peraltro sarebbe bello immaginare il trasferimento della Hitachi Rail nell’ex Officina Grandi Riparazioni delle FS: ci sono le condizioni per invetsire e valorizzare questo territorio. (s)

 

LA REGGIO DI UN TEMPO, BELLA E GENTILE
OGGI È LA PEGGIORE TRA LE 14 METROCITY

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La Città Metropolitana di Reggio Calabria risulta la peggiore in Italia, tra le 14 Metrocity, per il benessere dei suoi cittadini. Lo ha rilevato l’Istat nel Report Il benessere equo e sostenibile dei territori, in cui indica Reggio Calabria come la peggiore per le misure di benessere, con un 79% sotto la media italiana.

Accanto a questo desolante dato, l’Istituto ha indicato, per la soddisfazione per la vita nei capoluoghi per le persone di 14 e più, Reggio tra le città con i risultati migliori: il 54,7% delle persone molto soddisfatte per la propria vita. Ottimi risultati, anche, sul dato sulle Persone su cui contare, in cui la Città dello Stretto ha la percentuale più alta (88,8%) di persone con parenti su cui contare, mentre Palermo con il 62,2% presenta la percentuale più bassa.

L’Istat, attraverso il report, permette di confrontare le 14 città metropolitane – dove vive il 36,2% della popolazione – evidenziando i divari rispetto all’Italia, i punti di forza e di debolezza, le evoluzioni recenti.  Inoltre, tre focus tematici approfondiscono il quadro del benessere nei domini Istruzione e formazione, Benessere economico e Ambiente con nuove misurazioni sulla disponibilità di risorse educative e sugli esiti scolastici, sulle condizioni economiche degli individui, sull’esposizione della popolazione nelle isole di calore urbane. Altri contributi esplorano le disuguaglianze interne alle aree vaste metropolitane, analizzando alcune misure di benessere sui 14 capoluoghi e sul restante territorio.

Per la prima volta nel report vengono diffusi indicatori di benessere relativi alle reti d’aiuto, alla percezione di degrado e di sicurezza nella zona in cui si vive e alla soddisfazione per la vita, elaborati a partire dal Censimento della popolazione. Ma non solo: sull’ambito dell’istruzione, l’Istituto ha rilevato un divario tra Bologna (80,3%) e Catania (56,6%) sull’istruzione medio-alta delle persone tra i 25 e i 64 anni, evidenziando come ci siano 23,7 punti di differenza.

Anche per il numero di occupati, è stato rilevato come nel Nord Italia oltre il 70% delle persone tra i 20 e i 64 anni sono occupati, mentre nel Mezzogiorno circa il 50%, con Napoli, Catania e Palermo con i valori più bassi.

Per quanto riguarda le condizioni economiche degli individui, dagli ultimi dati disponibili, ossia dal 2021, c’è «più disuguaglianza tra gli individui nelle città metropolitane del Centro-Nord, dove il reddito disponibile equivalente annuo è mediamente maggiore. Milano è la città metropolitana con la media più elevata in Italia (26 mila euro). Nel Mezzogiorno il reddito medio più alto è nella città metropolitana di Cagliari (19 mila euro).

Sulle risorse educative ed esiti scolastici, l’Istat ha rilevato – nonostante l’ultimo dato non sia disponibile – «grandi carenze in tutte le città metropolitane del Mezzogiorno, con risultati particolarmente critici per Palermo e Napoli ed eccezione positiva per Bari. Milano mostra una maggiore carenza di risorse educative rispetto alle altre città metropolitane del Centro-Nord da cui si distacca».

Tra giugno e agosto 2024 il 90,6% della popolazione residente nei capoluoghi Città Metropolitane, è stato esposto a temperature superficiali di 40°C o più (media di 3 mesi). Si tratta di 8,4 milioni di persone, tra le quali oltre 1,3 milioni di bambini fino a 5 anni e anziani di 75 anni e più.

Dati, quelli indicati dall’Istat, che dovrebbero far riflettere la Città Metropolitana di Reggio Calabria sulle criticità da affrontare con urgenza.

Durissima la presa di posizione di Emanuela Chirico, del Coordinamento Forza Italia Giovani di Reggio, che ha evidenziato come «dieci anni di amministrazione Falcomatà hanno portato Reggio Calabria ad un punto di stallo inaccettabile: i dati del report Istat non sono soltanto numeri, ma rappresentano il malessere vissuto quotidianamente da ogni singolo cittadino».

«Questo quadro desolante non è casuale: è il risultato di un decennio in cui le promesse sono rimaste tali, e le esigenze dei reggini sono state ignorate», ha evidenziato Chirico, sottolineando come «le criticità che emergono riguardano istruzione, occupazione, e qualità dei servizi pubblici, elementi indispensabili per migliorare la vita dei cittadini ed impedire la fuga di noi giovani».

«Noi ragazzi non dovremmo essere costretti ad abbandonare la nostra terra – ha sottolineato – ma la mancanza di opportunità e il degrado delle infrastrutture ci spingono a cercare altrove ciò che Reggio non riesce più ad offrirci».

«Personalmente, da reggina – ha aggiunto – da giovane ragazza costretta a “fuggire” al nord, è frustrante pensare che per troppo tempo Reggio Calabria sia stata gestita senza una visione chiara di sviluppo e senza interventi concreti per migliorarne le condizioni socioeconomiche e la qualità della vita».

«Reggio Calabria merita più di tutto questo – ha concluso – perché è più di tutto questo. Abbiamo bisogno di un rilancio serio, di un impegno concreto che porti la nostra città a splendere di nuovo. Tutti noi abbiamo il diritto di vivere una vita dignitosa. Dentro di me ho ancora la speranza che le cose possano migliorare, lo spero davvero». (ams)

 

CHIAMATELA «CALABRIE», NON CALABRIA:
LA NOSTRA REGIONE È “SPACCATA” IN DUE

di DOMENICO MAZZA – Un tempo, l’attuale territorio calabrese era conosciuto con l’appellativo di Calabrie. L’accezione si riferiva alla classificazione Citra e Ultra che porzionava i confini regionali in un contesto del nord e un’area centro-meridionale. Gli alvei dei fiumi Neto e Savuto rappresentavano il confine tra i due ambiti territoriali. Successivamente, l’area Ultra fu ripartita tra Ultra 1 e Ultra 2 e nel 1970, infine, la Calabria venne riconosciuta come Ente amministrativo unico. Tuttavia, per l’estrema punta dello stivale, il decorso dell’ultimo cinquantennio non può certo definirsi omogeneo.

L’acuirsi della fenomenologia centralista, infatti, ha marchiato sempre più una terra caratterizzata da un’iniqua spartizione del potere politico tra i tre Capoluoghi storici: Cosenza, Catanzaro e Reggio. A ben poco valse l’istituzione di due nuove Province che nei primi anni ’90 furono staccate dall’ambito madre di Catanzaro. L’impercettibilità territoriale e la succinta dimensione demografica non hanno consentito la piena espressione politica dei due gemmati contesti. Quindi, le scelte programmatiche, susseguitesi negli anni (Pacchetto Colombo, Legge Obiettivo, Pnrr, ecc.), hanno favorito il contesto di ponente a scapito di quello di levante. Il Tirreno e la dorsale valliva, negli anni, hanno visto la fioritura di un tessuto infrastrutturale di tutto rispetto (ferrovia doppio binario, autostrada, università, aeroporti di Lamezia e Reggio, porto di Gioia Tauro).

A est, invece, ancora oggi, si viaggia lungo l’unica arteria stradale nota alla cronaca per essere un olocausto di Stato: la tristemente nota SS106. La mobilità ferroviaria, inoltre, si declina lungo un asse monobinario e per buona parte non elettrificato. Sul pianoro di Sant’Anna, esiste anche uno scalo aeroportuale che resta, però, puntualmente fuori da ogni tipologia di investimento e, a oggi, risulta ancora irraggiungibile al suo naturale alveo di riferimento: l’Arco Jonico. La conta delle infrastrutture joniche, si completa con i porti di Crotone e Corigliano-Rossano. Entrambi, purtroppo, innaturalmente legati all’Autorità di Bacino di Gioia Tauro e sconnessi dalla rete ferroviaria, risultano estranei ad un reticolo infrastrutturale che ne declini la piena funzionalità.

Chiaramente, un’impostazione così marcatamente iniqua dal punto di vista della mobilità e dei servizi ha favorito lo sviluppo di economie diverse tra l’est e l’ovest della Regione. Mentre sugli ambiti vallivo-tirrenici si è sviluppato lavoro legato all’indotto dello Stato e al terziario, lungo l’Arco Jonico il settore primario e, per un certo periodo, quello secondario, hanno rappresentato l’indotto prevalente.

Squilibri strutturali e processi diseconomici marcano le differenze tra est e ovest della Regione

Oggi, la condizione jonica si è ulteriormente aggravata. L’agricoltura, rimasta ancorata alle sole produzioni e commercializzazioni senza il necessario processo di lavorazione dei prodotti, sta iniziando a dare concreti segnali di cedimento del sistema. Il poco lavoro a disposizione si manifesta sempre più a carattere stagionale e non offre prospettive interessanti ai giovani del territorio. L’industria, invece, con la chiusura degli opifici crotonesi e la più recente dismissione della ex centrale Enel a Corigliano-Rossano, rappresenta sempre più un vago ricordo. A fianco la triste descrizione su riportata, poi, la costante spoliazione dei servizi e delle ramificazioni periferiche dello Stato, centralizzate nei Capoluoghi storici e in quelle località da sempre in simbiotico rapporto con i primi (Castrovillari, Lamezia), ha portato le aree della Sibaritide e del Crotonese a essere sempre più lande desolate e depresse.

Nel Crotonese, ancora, le recenti scelte operate in tema di bonifica ambientale hanno disatteso le aspettative della Comunità locale. Le modifiche attuate al Paur (Procedimento Autorizzatorio Unico Regionale) hanno acuito il senso di abbandono del territorio da parte delle Istituzioni.

In area sibarita, invece, la mancata attuazione degli investimenti per il rilancio dell’ex sito Enel e l’abbandono della prospettata pianificazione industriale di BH nel porto, hanno delineato un futuro sempre più fosco per Corigliano-Rossano e le contermini Comunità.

Politiche infrastrutturali ossequiose solo ai dettami centralisti 

Scelleratamente inique le scelte operate negli anni in campo infrastrutturale. Ancora oggi, d’altronde, non si mettono in campo politiche finalizzate a colmare il gap tra Jonio e Tirreno. Il tracciato della nuova linea AV, all’indomani del probabile abbandono del nodo di Tarsia, sembra essere soltanto un affare tirrenico. La mobilità su gomma, invece, nei brevi segmenti in cui si prevede l’upgrade a 4 corsie della jonica, predilige percorsi centrifughi da KR a CZ e da Corigliano-Rossano verso Sibari. I 100km che distanziano Crotone da Corigliano-Rossano sono sempre più abbandonati a loro stessi e privi di una pianificazione progettuale che consenta di immaginare un ammodernamento funzionale del tracciato.

Il corridoio merci Gioia Tauro-Bari è stato instradato sulla direttrice Lamezia-Paola-Sibari, lasciando i porti di Corigliano-Rossano e Crotone fuori dal percorso. Infine, i lavori di elettrificazione della ferrovia jonica, ormai ciclicamente rimandati alle calende greche, probabilmente verranno terminati quando ormai il treno non rappresenterà più un mezzo di trasporto per Paesi emancipati. Insomma, lungo l’area jonica, decenni di inefficienza politica sono riusciti a dilatare i tempi di percorrenza tra territori che neppure la geografia aveva inquadrato come distanti.

Necessario individuare processi di governance regionali che appianino le disomogeneità territoriali 

Il sistema politico locale dell’ultimo cinquantennio non ha saputo rispondere alle sciagurate azioni di matrice centralista attuate a scapito degli ambiti jonici. È, altresì, risultato inidoneo a intravedere il plumbeo futuro che si sta prospettando per i contesti sibariti e crotoniati, salvo poi stracciarsi le vesti a misfatto attuato, inveendo contro altri e mai con il proprio pressapochismo. Se davvero vogliamo cambiare la narrazione che, insindacabilmente, connota l’Arco Jonico come l’Altra Calabria, bisognerà declinare un nuovo paradigma che concorra a cambiare l’approccio prospettico di un territorio dalle innate potenzialità, ma spesso dimenticato. Non una Regione delle tre macroprovince di emanazione Sabauda, ma l’inedita Calabria che non guarda indietro e si slancia verso le sue periferie, recuperandone protagonismo ed inespresse potenzialità.

L’idea di un nuovo ambito d’area vasta lungo il perimetro della Sibaritide e del Crotoniate potrebbe concorrere sinergicamente ad un rinnovato approccio di governance regionale. Chiaramente, un’operazione di tale levatura non può essere confusa o assimilata a effimeri tentativi di distacco amministrativo nella sola area della Provincia cosentina. Decenni di cristallizzate geometrie centraliste, non si demoliscono con il semplice scorporo di una porzione territoriale (la Sibaritide) che rappresenta meno di 1/3 dell’intera demografia cosentina. Le piccole Province hanno dimostrato tutti i loro limiti e non solo in terra di Calabria.

Creare un ambito forte, politicamente ancor prima che amministrativamente, lungo il Marchesato crotonese e la Piana di Sibari serve alla Calabria, ancor prima che allo Jonio. Il Crotonese e la Sibaritide dovranno candidarsi a essere il nuovo asse di sviluppo poliedrico della Regione. Il richiamato asse dovrà fondarsi sulla bonifica e rilancio produttivo del sito Sin (Crotone-Cassano-Cerchiara) e dell’ex stabilimento Enel a Corigliano-Rossano che, insieme alla Zes, dovranno rilanciare la piattaforma logistica e intermodale dei porti jonici sul Mediterraneo orientale. La descritta operazione dovrà essere eseguita senza macchiarsi di sterili e improduttivi campanilismi, ma con spirito di solidarietà e di coesione territoriale.

Il rilancio dei territori non può esulare da una nuova visione infrastrutturale 

Bisognerà, altresì, intessere strategie volte al miglioramento dei livelli essenziali delle prestazioni che, indissolubilmente, viaggiano in parallelo con la crescita infrastrutturale omogenea di ogni singolo angolo del territorio. Continuare a guardare con visioni miopi e deviate, focalizzate sempre e solo alla crescita di un versante a scapito dell’altro, non condurrà questa Regione ad uscire dal pantano in cui versa. Sarà necessaria un’iniezione di massiccia fiducia che non potrà essere soddisfatta con qualche specchietto per le allodole. Di rotonde, guardrail, plinti metallici arrugginiti che sostituiscono alberi come posa per volatili, porti ridotti a bagnarole e scali aerei non messi in condizione di esprimere le proprie potenzialità, lo Jonio non sa che farsene. Così come, di ospedali resi sempre più scatole vuote, dove, in alcuni casi, restano solo cartelli consumati dal tempo a indicarne la destinazione d’uso.

Avviare attività di programmazione interdisciplinari e territoriali

Particolare attenzione andrà destinata alla programmazione. Quest’ultima, invero, non dovrà più essere frutto delle progettualità dei singoli Comuni, ma basarsi su fondamenti interdisciplinari e territoriali.

Serve un sussulto! Se vogliamo che questa Regione, e soprattutto l’estrema area di levante, non perseveri nel far scappare le menti che sforna, bisognerà darsi da fare. Soprattutto, sarà necessario avviare azioni straordinarie concorrenti a rompere l’immobilismo programmatico e la nullità delle attuali strategie di sviluppo. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

MOBILITÀ CALABRIA: I LIVELLI ESSENZIALI
NON SODDISFANO LE NECESSITÀ URBANE

di ERCOLE INCALZA – Forse sarà utile cominciare ad approfondire il tema legato ai Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep); sicuramente un simile approfondimento lo avremmo dovuto fare prima, tuttavia, se vogliamo dare vita alla Legge sull’autonomia differenziata delle Regioni non possiamo più rinviare questa lettura capillare di alcuni fenomeni che denunciano, chiaramente, le distanze esistenti nella erogazione dei servizi essenziali tra alcuni ambiti territoriali del Paese.

Affronto prioritariamente il comparto legato al “trasporto pubblico locale” e ricordo, soprattutto, un dato: “le famiglie italiane spendono ogni anno circa 38 miliardi di euro per la mobilità all’interno delle aggregazioni urbane piccole, medie e grandi”; cioè nel bilancio delle famiglie, annualmente, c’è una erosione sostanziale dei relativi bilanci. A questo dato, davvero preoccupante, se ne aggiunge uno ancora più grave: il Mezzogiorno incide per oltre il 50%. Cerco di essere più chiaro: le famiglie del Sud vedono, annualmente, il proprio bilancio privato di un valore globale di oltre 19 miliardi di euro.

Ebbene, non posso non ricordare che nel 2001, l’anno in cui venne approvata dal Parlamento sia la Legge 443/2001 (Legge Obiettivo), sia il Programma delle Infrastrutture Strategiche (Pis), lo stato del trasporto pubblico italiano era a livelli davvero tragici, in termini di reti metropolitane vi erano solo 56 chilometri; eravamo in Unione Europea penultimi come dotazione di reti metropolitane, fortunatamente avevamo 8 chilometri in più della Grecia altrimenti saremmo stati ultimi.

La Legge Obiettivo riuscì a dare vita ad un programma che oggi viene venduto come programma del Pnrr o dei Governi che si sono succeduti dal 2015 in poi. Ho voluto fare questa precisazione perché proprio in questi giorni sono comparsi una serie di dati che riporto di seguito ed in cui si precisa: Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) assegna per infrastrutture di trasporto di massa (metropolitane, tramvie e reti ferroviarie urbane) 6,6 miliardi dal 2021 al 2026.

Questo volano di 6,6 miliardi di euro è stato inoltre integrato da tre fondi dalle Leggi di bilancio 2022, 2023 e 2024 così articolati: Estensione della rete metropolitana e del trasporto rapido di massa (4,7 miliardi dedicati alle città di Genova, Milano, Roma e Torino per progetti tra il 2022 e il 2036; Fondo per la Linea C di Roma con uno stanziamento di 2,2 miliardi di euro e 150 milioni di euro per interventi a Milano e Napoli fra il 2023 e il 2035; Contributo per il Comune di Milano per gli oneri del rimborso dei prestiti per le linee M4 ed M5 con un budget di 560 milioni di euro per il periodo 2024 – 2038.

In sintesi i budget governativi dal 2021 portano ad un valore di 14,21 miliardi di euro per l’efficientamento della mobilità urbana dal punto di vista ambientale, energetico ed economico grazie al completamento di 144,2 chilometri di nuove linee metropolitane

Ora se andiamo a leggere l’Allegato Infrastrutture al Documento di Economia e Finanza del 2014 (Allegato previsto dalla Legge Obiettivo e riferimento portante dell’intero impianto programmatico previsto dalla Legge) scopriamo che quelle scelte, quelle opere, con relative coperture, erano già presenti e contenevano anche interventi e risorse per:

Completamento della Linea 1 e la Linea 6 di Napoli; Interventi nel sistema ferroviario locale del nodo di Bari (Ferrovie del Sud Est, Appulo Lucane e Bari Nord); Interventi nel sistema integrato catanese (Rete delle Ferrovie dello Stato e Circumetnea); Interventi nel sistema ferroviario lungo l’asse Punta Raisi – Palermo.

Questi interventi, tutti nel Mezzogiorno, raggiungevano un valore di 4,3 miliardi e in tal modo bilanciavano, in parte, le risorse che erano assegnate nel Centro Nord.

In realtà, quindi, il quadro programmatico definito nel 2014 e, adeguatamente supportato da risorse, è rimasto fermo per dieci anni e, cosa davvero grave, questa infrastrutturazione avrebbe reso un sostanziale ridimensionamento dei costi e, soprattutto, ci sarebbe stato un rilevante contenimento dei bilanci delle famiglie per il trasporto pubblico locale.

Ma questo quadro, ripeto, deve contenere di nuovo le risorse per le realtà urbane del Mezzogiorno ed in particolare deve assicurare anche i collegamenti tra le reti urbane ed i relativi hinterland; a tale proposito dobbiamo convincerci, una volta per tutte, che realtà urbane come Cagliari, come Napoli, come Bari, come Reggio Calabria, come Catania, come Palermo hanno interazioni funzionali con una fascia di realtà che, direttamente o indirettamente, gravano sui nodi urbani centrali e queste interazioni non sono, allo stato, serviti da adeguati impianti di tipo metropolitano.

Ora questa sintetica analisi ci porta automaticamente ad una conclusione: riconosciamo innanzitutto le responsabilità di un passato, quello che nel 2015 praticamente ha bloccato questo processo infrastrutturale, e cerchiamo di dare attuazione congiuntamente alle opere indicate sin dal 2014 con la chiara indicazione anche delle opere del Mezzogiorno. Questo impegno formalizziamolo subito nella redigenda Legge di Stabilità ed in particolare inseriamo nella norma le disponibilità presenti nel prossimo quinquennio.

Una volta tanto effettuiamo un vero bagno di verità senza ricorrere ad annunci di opere non garantite da coperture; questa volta ci viene incontro il fatto che se non lo facessimo verrebbe meno il rispetto delle procedure legate alla costruzione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, verrebbe meno la concreta attuazione della Legge sulla autonomia differenziata delle Regioni.  (ei)

MEDITERRANEO, L’ITALIA PUÒ COMPETERE
MA DOVRÀ INVESTIRE SUI PORTI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Una volta si chiamava Mare nostrum. Ed era un mare di civiltà sul quale si sono affacciati grandi Paesi e tutte le religioni monoteiste. I nostri progenitori lo percorrevano in lungo e in largo tanto che più che un mare era un lago che univa popoli .

In tale mare l’Italia è centrale fisicamente ma purtroppo si sta facendo sfuggire i traffici internazionali. Prima con la scoperta dell’America i porti atlantici sono diventati quelli fondamentali per i traffici con il nuovo mondo, poi con l’apertura del canale di Suez non si è riusciti a far diventare i porti mediterranei centrali perché quelli atlantici, malgrado la loro lontananza fisica sono riusciti a prevalere per la loro efficienza e la capacità di collegarsi via terra al centro dell’Europa  con collegamenti ferroviari, autostradali e aerei. 

Quindi la centralità dell’Italia è rimasta solo fisica, considerato che il Sud che doveva essere il luogo di attracco per le navi provenienti da Suez in realtà è rimasta un’area isolata. Il porto di Augusta, frontaliero a Suez, peraltro non utilizzabile anche per le scorie esistenti nei suoi fondali é rimasto non collegato con una linea ferroviaria veloce.  Ma che anche se fosse esistita avrebbe trovato nell’attraversamento dello Stretto di Messina un blocco difficilmente superabile, visto che il collegamento veniva fatto con i Ferry Boat. 

Ma anche Gioia Tauro, che non aveva il problema della strozzatura dello stretto di Messina, non è stata collegata adeguatamente con la linea ferroviaria al Centro Europa, per cui le maxi navi porta containers avevano più convenienza a percorrere tutto il Mediterraneo, attraversare il canale di Suez, costeggiare la Spagna, il Portogallo, la Francia, attraversare il canale della Manica ed arrivare poi ai porti dell’Europa del Mare del Nord, dai quali le merci, dopo essere state lavorate creando migliaia di posti di lavoro nei retroporti relativi, potevano essere trasportati nel centro Europa. 

In realtà l’Italia ha sempre puntato ai due grandi porti dell’ascella del paese, Genova e Trieste, che non sono mai riusciti a competere adeguatamente con Rotterdam, Amburgo e Anversa. Con investimenti importanti fatti in essi, forse meno giustificati di quelli non effettuati nei grandi porti meridionali che caratterizzano tutto lo stivale, da Napoli a Salerno, a Gioia Tauro a Messina, Taranto, Bari e poi di tutti quelli della Sicilia che da Palermo, Trapani, Marsala, Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Gela arrivano fino a Siracusa, Augusta e Catania. 

Con la chiusura degli approvvigionamenti energetici dalla Federazione Russa, l’esigenza di guardare verso sud è diventata prioritaria e con essa la favola del Mezzogiorno Batteria del Paese. Cioè si è cominciato a capire che essendo a pochi chilometri di distanza dalla costa africana la Sicilia poteva diventare un territorio fondamentale di attracco per i vari oleodotti, elettrodotti, metanodotti che, partendo dal Nord Africa, ricca di energia fossile, sarebbe potuta diventare un punto di passaggio importante per portare l’energia alle aree produttive del Nord e magari anche al centro Europa. 

Tale approccio insieme alla favola di una seconda industrializzazione, dopo quella mancata degli impianti petrolchimici, è diventato fondamentale per illudere i meridionali che tali impianti avrebbero portato anche posti di lavoro. 

L’altro elemento che è diventato fondamentale è stato quello relativo agli impianti eolici e solari, che necessari portano però uno stravolgimento dello skyline delle realtà interessate e un consumo di suolo agricolo, per quanto attiene agli impianti solari, estremamente elevato. 

Tanto che recentemente si è pensato di permettere la costruzione di tali impianti soltanto offshore, cosa che è estremamente più costosa di quanto non si realizzano sul territorio. 

Il recente progetto che dovrebbe realizzarsi con il piano Mattei in realtà poco può fare se diventa una realizzazione che riguarda solo l’Italia. Con tutta la buona volontà che il nostro Paese può metterci è chiaro che se parliamo di accordi di cooperazione che aiutino l’Africa ad uscire dalla condizione di sottosviluppo in cui si trova, per evitare i flussi drammatici di emigrazione, che ci riguardano, ci preoccupano e rischiano di far saltare gli equilibri socioeconomici di tanti paesi dell’Unione Europea, dobbiamo guardare a dimensioni finanziarie di aiuti che certamente il nostro Paese da solo non può consentisi. 

Il rischio che lo scambio con l’Africa continui ad essere quello predatorio, che prevede l’acquisto di energia in cambio di risorse, che spesso si perdono a favore della nomenclatura di paesi ancora che non hanno ancora raggiunto o consolidato processi democratici evoluti e che non contribuiscono ad innescare quel processo di sviluppo necessario per creare un percorso autonomo di autosufficienza, è alto.

In tale contesto l’interesse della Cina per quest’area, conseguenza degli interesse per tutto il continente africano, rischia di consentire l’esproprio di un’area che naturalmente dovrebbe far parte di una zona teorica di influenza riguardante l’Italia. 

Mentre anche la Russia manifesta l’esigenza di affacciarsi sul Mediterraneo, per cui si capiscono  i grandi interessi di conquistare il Donetsk ucraino in modo che tramite Odessa, Mariupol, che si affacciano sul Mar Nero, arrivare al grande lago salato che si chiama Mediterraneo. 

In tale contesto geopolitico l’Europa sembra totalmente assente e sta guardare i conflitti che stanno avvenendo sulle coste del grande lago salato, come se non la riguardassero, mentre invece nascono da interessi ben precisi contrapposti di influenza in tali aeree. 

Se le politiche che il Paese vuole portare avanti riguardano lo spopolamento del Mezzogiorno, fornendo anche aiuti a chi si voglia trasferire, non investendo adeguatamente in tale realtà attraendo investimenti dall’esterno dell’area, infrastrutturando adeguatamente tale territorio, lavorando fin da adesso per mettere a regime i porti del Mediterraneo e della Sicilia orientale in maniera tale che all’apertura del ponte sullo stretto del 2032 siano già pronti, perché competere con Rotterdam non è un gioco da bambini, se tutto questo non si fa quando ci sveglieremo dal lungo sonno troveremo i giochi già tutti fatti e non potremmo che essere spettatori in casa nostra. 

Per guardare al Mediterraneo non basta solo affermarlo a parole o sostenere soluzioni parziali come quella di diventare il centro di formazione per i paesi arabi, o altre correte visioni ma parziali, ma è necessario un approccio sistemico, che guardi a tutte le variabili economiche e geopolitiche. Prima ce ne rendiamo conto e più facile sarà avere un ruolo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

QUANDO IL PERICOLO VIENE DAL MARE
GREENPEACE: ALLARME CONTAMINAZIONE

di GIOVANNI MACCARRONESono diversi anni che ci consigliano di mangiare pesce. A parte qualcuno che per vari motivi sostiene che non è un alimento sano, la maggioranza dei nutrizionisti sostiene invece che inserire il pesce nella propria alimentazione è una scelta sostanzialmente vincente. Confesso: io non amo mangiare questo alimento. E francamente fino a qualche tempo fa ero dispiaciuto di questo.

Di recente, però, ho scoperto che questa estate lungo le coste calabresi si è ripetuto il triste fenomeno della moria di pesci (soprattutto cernie). La notizia non ha avuto una forte eco su tutti i social network. Chi ha avuto il coraggio di parlarne ha riferito che, secondo gli esperti, questo fenomeno è da attribuire al virus betanodavirus (un agente patogeno responsabile della Encefalopatia e Retinopatia Virale) che si sta diffondendo nelle acque dei nostri mari. 

La causa dell’espansione del virus non è ancora nota. Come di consueto, anche in questo caso si dice che la presenza del microorganismo in questione “potrebbe essere imputabile al periodo di elevata temperatura”. A ben vedere, però, non si tratta del primo caso di avvistamento di pesci morti sulle nostre coste. Vorrei ricordare l’inquietante moria di pesci avvenuta nell’agosto del 2021 tra Catanzaro Lido e Montepaone e tra Pizzo e Bivona. Inoltre è il caso di ricordare quanto è accaduto nel 2008 e nel 2019. Anche in questi casi si è attribuita la colpa all’aumento della temperatura terrestre. Qualcuno ha però osservato che l’ondata di caldo anomalo potrebbe essere “una delle cause della moria di pesci, ma non l’unica”.

Non a caso, infatti, il fenomeno si verifica spesso nelle zone interessate da un forte inquinamento, che rende la superficie marina piena di impurità e di colore verde. Tanto che per molti l’ipotesi più accreditata è quella degli sversamenti illeciti. Basti pensare in proposito al depuratore consortile di AcquaroDasà e Arena, nel Vibonese. Secondo quanto affermato in un recente articolo dal Sindaco di Dasà, “da 5 anni le fogne dei tre comuni bypassano l’impianto senza essere depurate”. Stessa cosa per il depuratore di Squillace. A luglio abbiamo appreso che il depuratore in questione era dismesso ma continuava a ricevere reflui che finivano poi in un canale.  

Certamente negli ultimi anni l’ondata di caldo anomalo ha determinato l’incremento delle temperature superficiali del mare e dell’aria. Come si è potuto notare, però, non è l’unico fattore a determinare la morte dei pesci. L’alto tasso di inquinamento ambientale fa certamente pensare anche ad altro. Lo ha confermato nell’ottobre del 2019 l’allora direttore del Dipartimento provinciale Arpacal di Vibo Valentia, dr. Clemente Migliorino, il quale, a proposito della moria di pesci nel lago Angitola, ha puntualizzato che «le analisi dei fitofarmaci rilevano la presenza di DDE e DDT; inoltre viene rilevata la presenza di para DDT e DDT totale, entrambi in concentrazioni superiori se confrontato i rispettivi standard di qualità ambientali, espressi come valori medi annui, riportati nella tabella 1A del decreto legislativo 172 del 2015 (Il DDE è un composto chimico derivante dalla perdita di acido cloridrico del DDT, ndr). La ricerca degli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) conclude Migliorino ha rilevato la presenza di Fenantrene mentre gli altri Ipa sono tutti al di sotto dei limiti di rilevabilità del metodo».

Comunque sia, vale la pena di evidenziare che, ad avviso della dott.ssa Rosa Maria Pennisi del laboratorio di virologia dell’Università di Messina, «non vi sono rischi diretti per l’uomo, ma considerato l’andamento cronico della malattia che gradualmente porta l’animale a non alimentarsi e, spesso, a causa del nuoto non coordinato, a sbattere e ferirsi su scogli o sul fondale contraendo infezioni gli esemplari rinvenuti moribondi vanno considerati non salubri, e ne va evitato il consumo».

Pertanto, se ho sempre desistito dal mangiare il pesce, figuriamoci adesso. In verità, questa convinzione si è fortemente accresciuta in quest’ultimi giorni, dopo aver letto i monitoraggi effettuati da Greenpeace Italia sul pescato in Toscana e in Calabria. Il Report pubblicato nel mese di ottobre è intitolato “Pescato al sapore di Pfas. Quando il pericolo viene dal Mare”.

Un’approfondita valutazione del monitoraggio ha confermato che tra il 2021 e il 2023 nei punti di osservazione di Sibari, Roccella Jonica, Crotone, Lamezia Terme e Nicotera è stata rilevata la presenza di PFOS in specie di interesse commerciale. L’elemento che preoccupa di più è sicuramente rappresentato dal fatto che “concentrazioni notevoli sono state registrate nei naselli e nelle triglie prelevate nella zona di Roccella Jonica (1,846 µg/kg e 1,367 µg/kg) e Sibari (triglia 1,825 µg/kg). Quello che sorprende, in particolare, sono i valori individuati nelle cicale di mare una specie di crostaceo di diffuso uso commerciale pescate sia nel mar Tirreno che nello Jonio.

In due casi, i livelli di PFOS superavano il limite di 3 µg/kg previsto dal Regolamento europeo 2022/2388 per i crostacei: 4,1 µg/kg in una cicala di mare pescata a Lamezia Terme e 3,06 µg/kg in una pescata a Crotone. In una cicala di mare analizzata a Nicotera il livello di PFOS era prossimo al limite, pari a 2,95 µg/kg. In esemplari della stessa specie prelevati a Sibari e Roccella Jonica invece i livelli erano comunque elevati, pari a 2,08 e 2,12 µg/kg rispettivamente”. 

Si conferma, pertanto, che i PFAS, dopo essere stati trovati nelle acque potabili, nella frutta e nella verdura sono presenti anche nel nostro mare e, quindi, nei pesci.

Ma cosa sono i PFAS (Sostanze Perfluoro Alchiliche)? Ebbene, i PFAS sono sostanze chimiche idrorepellenti e oleorepellenti. Detto più semplicemente, “sono acidi molto forti usati in forma liquida, con una struttura chimica che conferisce loro una particolare stabilità termica e li rende resistenti ai principali processi naturali di degradazione”.

Le classi di PFAS più diffuse sono il PFOA (acido perfluoroottanoico) e il PFOS (perfluorottanosulfonato). 

L’autorità europea per la sicurezza alimentare (in sigla EFSA) ha affermato che tali sostanze intervengano sul sistema endocrino, compromettendo crescita e fertilità, e che siano sostanze cancerogene. Dai risultati di studi scientifici è emerso, in particolare, che l’assunzione prolungata di PFAS incide sull’aumento di colesterolo nell’uomo e determina alterazione a livello di fegato e tiroide, del sistema immunitario e riproduttivo, e alcuni tipi di neoplasie.

Le Linee guida Ispra pubblicate l’11 giugno 2019 sul sito web del Sistema nazionale protezione dell’ambiente (Snpa, costituito da Ispra più le Agenzie locali per l’ambiente) per la progettazione di reti di monitoraggio per le sostanze perfluoroalchiliche (cd. “Pfas”) nei corpi idrici aveva già evidenziando che la presenza di Pfas è un fenomeno diffuso, che riguarda la maggior parte delle Regioni italiane.

A lanciare l’allarme è stato anche il report “Toxic Harvest” di Pan Europe (Pesticides Action Network) secondo cui la presenza di residui di PFAS in frutta e verdura europea è più che triplicata dal 2011 al 2021, con un tasso di crescita del 220% per la frutta e del 274% per la verdura.

Ricordiamo che i PFAS sono impiegati anche nei pesticidi chimici per aumentarne l’efficacia contro i parassiti. Per cui, è più che normale che gli alimenti siano contaminati da terreni a loro volta fortemente inquinati. Così come è altrettanto normale trovare i PFAS anche in mare. Come è stato giustamente evidenziato, a ben vedere “Il mare costituisce l’ultimo bacino ricettore di queste sostanze”.

Bisogna quindi intervenire subito per impedire o comunque limitare i danni futuri ad ambiente e salute. Alcuni paesi europei ci stanno già pensando, Mi riferisco alla Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia che, di recente, hanno presentato all’Echa (Agenzia europea per le sostanze chimiche) una proposta per regolamentare le oltre 10mila sostanze chimiche con l’obiettivo di ridurre le emissioni di PFAS nell’ambiente e rendere prodotti e processi più sicuri per le persone.

Solo che leggendo il report di Greenpeace emerge che la percentuale di valori positivi di sostanze poli e perfluoroalchiliche varia da Regione a Regione anche a seconda dell’accuratezza delle misurazioni effettuate dai diversi enti pubblici: «In poche parole, più una Regione fa controlli e utilizza strumenti precisi e all’avanguardia, più è probabile che venga rilevata una positività da Pfas durante i monitoraggi» (secondo Greenpeace, in Calabria sono stati raccolto dati analoghi a quelli della Toscana anche se in modo più sporadico e meno esteso).

Per evitare questo spiacevole inconveniente è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la Comunicazione della Commissione «Linee guida tecniche sui metodi d’analisi per il monitoraggio delle sostanze per- e polifluoro alchiliche (PFAS). È stato evidenziato che con questa Comunicazione la Commissione vuole imprimere un’accelerazione al monitoraggio dei Pfas con criteri omogenei nell’ambito dell’Unione europea, in base a quanto stabilito dalla direttiva Ue 2020/2184, recepita in Italia con il decreto legislativo 23 febbraio 2023, n.18 (in quattro Regioni del sud Italia, Puglia, Sardegna, Molise e Calabria, dal 2017 al 2022 addirittura non risulta alcun controllo sulla presenza di PFAS nei corpi idrici)

Il problema è, però, che le citate linee guida tecniche valgono solo per le acque destinate al consumo umano (acque potabili) e non anche per l’ultimo bacino ricettore di queste sostanze (il mare).

Indipendentemente da quanto sopra, è certo, però, che necessita intervenire con limiti più stringenti alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche nell’ambiente. Anzi, come sottolineato da Greenpeace «rimane quindi fondamentale varare una legge che vieti la produzione e l’utilizzo di PFAS, perché la salute del Pianeta e dei cittadini non può essere sacrificata agli interessi economici di pochi che ancora oggi, impunemente, hanno licenza di inquinare».

Mah, Speriamo bene. (gm)

LEGAMBIENTE, SU TRANSIZIONE ECOLOGICA
CALABRIA IMPREPARATA E MOLTO LONTANA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Le città calabresi sono ben lontane dall’essere “ambientalmente sostenibili”, socialmente accoglienti e sicure», dice Anna Parretta, presidente di Legambiente Calabria, commentando i dati della classifica stilata da Ecosistema Urbano 2024, il rapporto di Legambiente realizzato in collaborazione con Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore – sui 106 capoluoghi di provincia per performance ambientali.

Dati che confermano un importante passo indietro per i capoluoghi calabresi, dimostrando, ancora una volta, «impreparata davanti alla grande sfida della transizione ecologica, resa ancora più urgente dalla gravità della crisi climatica».

I dati sono impietosi: Cosenza, la città che è sempre spiccata per la sua impronta green – nell’edizione 2023 era settima – quest’anno si è collocata in 13esima posizione. Nonostante ciò, è comunque l’unica città del Sud nelle prime 20 posizioni. In fondo alla classifica nazionale troviamo Catanzaro 99esima, Vibo Valentia 101esima, Crotone 104esima e Reggio Calabria 105esima, penultima. Spicca in negativo la performance di Catanzaro che registra un calo di oltre 30 posizioni rispetto al precedente Report soprattutto a causa degli altissimi consumi idrici (280 litri pro capite al giorno) e le perdite di rete (viene dispersa la metà dell’acqua immessa) oltre all’elevato consumo di suolo non proporzionato alle effettive necessità abitative ed alle carenze nella mobilità sostenibile; Cosenza, Vibo Valentia e Reggio Calabria scendono ognuna di 6 posizioni, mentre Crotone scende di 4 posizioni.

«Un elemento di penalizzazione – ha spiegato la presidente Parretta – è sicuramente costituito dalla mancanza dei dati Arpa regionali sul  monitoraggio della qualità dell’aria, già denunciata da Legambiente, che non consente di avere dati reali e che comporta un grave vulnus per la tutela della salute dei calabresi, oltre ad esporre la Regione al rischio dell’ennesima procedura di infrazione comunitaria».

«Ben 4 dei 5 capoluoghi della nostra regione – ha proseguito – si trovano nella parte finale della graduatoria nazionale con Reggio Calabria addirittura al penultimo posto. Tutte le città capoluogo calabresi arretrano rispetto alle valutazioni dello scorso anno. I dati sono complessivamente negativi per quanto riguarda la gestione ed il consumo della risorsa acqua, il ciclo dei rifiuti, la mobilità, il consumo di suolo, l’ambiente urbano e le energie rinnovabili».

I 20 indicatori su cui si basa la graduatoria complessiva di Ecosistema Urbano coprono sei principali componenti ambientali presenti in città: aria, acque, rifiuti, mobilità, ambiente urbano, energia. Vengono così valutati tanto i fattori di pressione e la qualità delle componenti ambientali, quanto la capacità di risposta e di gestione ambientale.

Quest’anno il rapporto Ecosistema Urbano 2024, per l’analisi dei 106 capoluoghi che hanno risposto all’indagine, ha rivisto e aggiornato il “peso” di alcuni indicatori, come la percentuale di Raccolta Differenziata, in quanto non rappresenta più come un tempo un elemento innovativo nella gestione ambientale, e di aumentarne altri, come la dispersione della rete idrica e l’estensione delle isole pedonali. È stato inoltre introdotto un nuovo indicatore relativo alla Variazione nell’uso efficiente del suolo, elaborato da Legambiente su dati Istat, per stimolare una riflessione anche in ottica di trend sullo sfruttamento delle risorse territoriali.

Un’altra novità è la decisione di premiare i comuni che hanno fornito il numero esatto di alberi di proprietà comunale. Inoltre, da questa edizione, sono stati utilizzati i dati delle centraline Arpa, rielaborati da Legambiente per il rapporto Mal’Aria poiché la qualità dell’aria è da sempre un tema centrale del rapporto.

Dando uno sguardo alla classifica nazionale, si può notare come nelle prime dieci posizioni dominano le città del nord Italia. L’Emilia Romagna è la regione con più capoluoghi green nella top ten, tra questi c’è anche Bologna, new entry e unica grande città nelle prime dieci posizioni (lo scorso anno era 24esima). Le altre metropoli arrancano: Milano si piazza al 56esimo posto in classifica, mentre Napoli arriva quasi in fondo alla graduatoria, è 103esima, lo scorso anno era 98esima. Roma, rispondendo in modo esauriente all’indagine, sale in graduatoria al 65esimo posto (nel 2023 era 89esima). Il centro Italia se la cava, con Macerata (23esima), Siena (26) e Livorno (29).

Male, invece, il Meridione con otto capoluoghi tra le ultime 10 della graduatoria:Caserta (98esima), Catanzaro (99), Vibo Valentia (101), Palermo (102), Napoli (103), Crotone (104), Reggio Calabria (105), Catania (106) che lo scorso anno era penultima.

La fotografia scattata da Ecosistema Urbano 2024 di Legambiente, dunque, ha messo in evidenza come in Italia le performance ambientali delle città viaggino a velocità e con tempi di applicazione troppo diversi e su cui occorre accelerare il passo. A pesare sulle performance ambientali i ritardi nel contrasto alla crisi climatica, i problemi cronici irrisolti – come smog, inquinamento, consumo di suolo – i ritardi su rigenerazione urbana, efficienza energetica, mobilità sostenibile, e poi gli impatti dell’overtourism. Temi sui cui servono interventi più incisivi.

Cosa fare, dunque? L’Associazione, a riguardo, ha lanciato delle proposte: per accelerare il passo e per città più vivibili, sostenibili e attente alla qualità della vita, inclusa la sfera sociale, serve un green deal made in Italy per le città che abbia al centro una strategia nazionale urbana che non lasci soli i comuni nell’affrontare i problemi cronici ambientali, la crisi climatica, ma anche Il fenomeno dell’overtourism. Su quest’ultimo tema, l’associazione ambientalista lancia un monito: l’overtourism va governato con misure efficaci, come stanno facendo già diverse città europee e nel resto del mondo, e va affrontato con lungimiranza e responsabilità dalle grandi alle medie aree urbane ai piccoli borghi, fino all’alta quota, per un turismo più sostenibile, di qualità, attento e rispettoso anche dei territori e delle comunità locali.

«All’estero già si sta facendo molto con misure significative – ha rilevato Legambiente – in Italia quei pochi interventi messi in campo sono troppo timidi e inefficaci».

Per Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, «serve un’azione congiunta, a livello nazionale e territoriale, da parte del Governo, delle Regioni e dei capoluoghi di Provincia» per rendere le città più sostenibili, resilienti e sicure.

«Oggi, purtroppo – ha aggiunto – i temi ambientali sono i grandi dimenticati dall’agenda politica, che affronta i temi legati alla sicurezza dei cittadini, solo in riferimento ai fenomeni migratori, ma serve affrontare questo problema sotto tutti i punti di vista, senza lasciare da soli gli amministratori locali nella sua risoluzione. Da parte del governo nazionale servono politiche coraggiose, a 360 gradi, e risorse economiche all’altezza della sfida per rendere davvero sicuro il nostro Paese».

«Si pensi, ad esempio – ha proseguito – all’adattamento alla crisi climatica, che causa sempre più danni e perdite di vite umane; alla rigenerazione urbana e alla messa in sicurezza degli edifici, dalla presenza di amianto e dal rischio terremoti; alla lotta allo smog, che causa quasi 50mila morti premature solo per il PM2,5, o al processo di miglioramento del livello qualitativo dei controlli ambientali in capo alle Agenzie regionali protezione ambientale, oggi disomogenei sul territorio nazionale».

«Dai dati di questa edizione 2024 emerge, con ancora più evidenza, come l’unica via sostenibile per rilanciare davvero il Paese, cominciando dalle città, sia ripensare le realtà urbane del futuro con meno auto e più mezzi meno inquinanti, su ferro ed elettrici, più mobilità sostenibile ed economia circolare, più infrastrutture intelligenti», ha commentato Mirko Laurenti, dell’ufficio Scientifico di Legambiente e curatore del report Ecosistema Urbano. (ams)

 

LA ZES UNICA NAVIGA TRA LIMITI E RITARDI
C’È LA BUROCRAZIA CONTRO LO SVILUPPO

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Tutti i nodi vengono al pettine» dice un vecchio proverbio popolare per evidenziare che ogni azione sbagliata prima o poi provoca conseguenze che portano a pagare gli errori commessi. 

E anche l’adozione della Zes unica, magnificata da tanti e che a detta di alcuni sta avendo risultati eccellenti, sta manifestando i suoi limiti. 

Gli errori cominciano con l’estensione del cuneo fiscale a tutto il Sud del Governo Conte II. Sembra una decisione bellissima, cosa c’è di meglio che diminuire il cuneo fiscale a tutti, ma tale provvedimento ha in sé due errori fondamentali. Il primo che era prevedibile che la sua estensione a una platea così ampia avrebbe comportato in breve la sua non sostenibilità. La seconda che avrebbe consentito anche ad aziende non sufficientemente competitive la permanenza sul mercato.    

Il secondo tema è l’altro vantaggio concesso alle aziende esistenti nelle Zes ampliate. Il cosiddetto credito d’imposta che doveva costituire un incentivo  per le aziende che sarebbero arrivate. 

L’Agenzia delle entrate aveva calcolato che, sulla base delle risorse che erano state messe a disposizione e considerato l’elevato numero di domande attese per il 2024, la percentuale effettivamente fruibile del beneficio fiscale sarebbe stata solo del 17%, per gli imprenditori che avrebbero investito  nella grande Zes. 

Vi era stata una levata di scudi da parte del ministro Raffaele Fitto e il finanziamento  era stato potenziato per il 2024 a 3,2 miliardi. 

Ma come era prevedibile, in sede di programmazione per il nuovo anno, questa cifra non è stata più ritenuta sostenibile ed è stata adesso ridotta della metà.

D’altra parte se estendi i vantaggi anche alle attività già insediate e a tutto il territorio meridionale fai una operazione che dal punto di vista elettorale paga, ma distorce gli obiettivi delle provvidenze. Che poi in realtà si è costretti ad eliminare. 

Tutto già scritto e non bastano le eccellenze che troveranno possibilità di realizzazioni come per esempio l’imminente via libera al Gruppo De Cecco per la realizzazione a Ortona, in Abruzzo, di quello che diventerà il più grande pastificio del mondo. È vero che anche per questo progetto, infatti, sono state decisive le convenienze garantite dalla Zona economia speciale unica del Mezzogiorno, dalla sburocratizzazione delle procedure autorizzative, al credito d’imposta.  

Ma il motivo per il quale le Zes avevano avuto una localizzazione limitata in termini di superficie derivava dalla impossibilità di garantire tutte le condizioni necessarie, quelle di base e quelle di vantaggio, ad un territorio così ampio come quello meridionale, che rappresenta il 40% della superficie dell’Italia.  

Infatti non bastava la semplificazione amministrativa, anch’essa complicata da assicurare, se le pratiche sono disperse in tutto il territorio meridionale e che magari con un commissario come Giosy Romano potrà anche essere assicurata, ex commissario delle Zes Campania e Calabria, quindi con una grande esperienza e capacità.  

Ma vi sono delle criticità che nemmeno quelli bravi possono superare. Infatti la dimensione limitata delle Zes era alla base delle condizioni di base da assicurare: due conduzioni minime e due di vantaggio. Le minime riguardano una criminalità organizzata messa all’angolo e una infrastrutturazione adeguata. Parliamo di attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, non certamente del caso De Cecco che conosce bene il territorio nel quale opera da anni.  

Nel caso di aziende come Microsoft per esempio l’ assicurazione di un’area con la criminalità controllata e una localizzazione che sia facilmente raggiungibile via aerea mare e terra è fondamentale. Assicurare tale condizioni per tutto il territorio del Sud è assolutamente velleitario. 

Controlli adeguati, che prevedono misure di sicurezza con uomini e risorse notevoli e collegamenti ottimi possono caratterizzare solo alcuni territori, magari vicini ai porti.

A maggior ragione il problema dei vantaggi, che come si è visto nella ultima finanziaria, con un Paese che deve rispettare le regole di rientro europee, hanno dei limiti nelle risorse utilizzabili. Quindi se estendi il cuneo fiscale a tutti gli assunti di un territorio ampio alla fine non sarai più in condizione di sostenerlo. Cosa che riguarda anche il credito d’imposta che come si è visto potrà essere assicurato per una percentuale limitata. E che quindi sarà disperso in mille rivoli per aziende già esistenti che non faranno aumentare il numero di occupati.  

Quindi avremo delle contrattazioni “one to  one”, tra commissario e grandi aziende già localizzate come la De Cecco o che vogliono stabilirsi, con le quali si stabiliranno le condizioni di ampliamento o localizzazione. 

Nulla di diverso di ciò che è accaduto, con la Fiat di Termini Imerese. Ma la logica delle Zes polacche o di quelle cinesi è un altra. Quella di avere territori disponibili dove insediarsi, chiavi in mano in pochi mesi, e nelle quali le aziende  decidevano di investire,  perché senza alcuna contrattazione sapevano di trovare delle condizioni favorevoli.  

La modifica apportata limita moltissimo l’autonomia delle imprese che devono interloquire obbligatoriamente con la missione di governo, con tutte le problematiche connesse. Nessuno dice che non potrà funzionare, ma per favore non chiamiamole più zone economiche speciali ma interventi per il Mezzogiorno. Si ritorna a quella politica che si è avuta per tanti anni e che ha portato a un rapporto popolazione occupati di uno a quattro contro l’uno a due necessario nelle realtà a sviluppo compiuto. 

Di volta in volta la missione governativa contratterà con l’azienda, indirizzandola nella realtà regionale che vorrà, mentre l’autonomia della impresa sarà  molto limitata. E si stabiliranno le condizioni di vantaggio necessarie come gli investimenti che lo Stato garantirà nella zona. Ovviamente il potere centrale si accrescerà notevolmente, come peraltro era nel disegno dello smantellamento delle otto Zes. 

Adesso si hanno le mani più libere e il ministro dell’economia, leghista della prima ora, potrà come ha fatto privilegiare il risanamento  dei conti pubblici invece che lo sviluppo del Sud, che come le stelle di Cronin, sta a guardare attonito e confuso dalla sua centralità sempre affermata e mai realizzata. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

DOSSIER IMMIGRAZIONE: È INARRESTABILE
LO SPOPOLAMENTO DELLA NOSTRA TERRA

di ROBERTA SALADINOIl Dossier Statistico Immigrazione giunge alla sua 34ª edizione, realizzato dal Centro Studi e Ricerche Idos in collaborazione con il Centro Studi Confronti e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”.

Il dossier è stato presentato presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro, ad introdurre il Convegno è stato il professore Domenico Bilotti (docente di Diritto ecclesiastico e di Storia del diritto canonico).

Secondo i dati provvisori Istat è emerso che, superati gli effetti contrattivi della pandemia, le persone straniere residenti in Italia sono tornate a crescere: sono 5,3 milioni a fine 2023 secondo il dato provvisorio dell’Istat (+166mila in un anno), il 9,0% della popolazione complessiva.

Anche nel 2023, gli stranieri risiedono prevalentemente nelle regioni del Nord-Ovest, del Nord-Est e del Centro, nelle cui ripartizioni l’incidenza percentuale sulla popolazione totale supera l’11%, mentre nel Sud e nelle Isole si registrano percentuali inferiori al 5%. 

L’Italia è diventata un Paese di immigrazione da circa 50 anni e, negli ultimi 30 anni, uno dei principali in Europa. Attualmente si colloca al quarto posto dopo Germania, Spagna e Francia.

La popolazione straniera residenti in Calabria al 31 dicembre 2023 sono 102.408, in aumento di più di 5mila unità rispetto al 2022. La geografia della presenza straniera segue un modello ormai strutturato: Se le province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Crotone rappresentano una porta di ingresso europea, è la provincia di Cosenza che gli stranieri eleggono soprattutto come loro residenza (infatti, al 31 dicembre 2023, vi risiedono in più di 36mila), seguita da quelle di Reggio Calabria (30.556), Catanzaro (18.252), Crotone (9.050) e Vibo Valentia (7.684).

Nel 2023 la dinamica naturale e migratoria internazionale della popolazione straniera è ampiamente positiva (rispettivamente +557 e +12.625) in Calabria, mentre il saldo migratorio interno è risultato negativo (-2.154). La mobilità residenziale interessa anche la popolazione autoctona, che fa registrare nel 2023 un saldo migratorio interno pari a -7.653 unità.

Quest’ultima perde nel 2023 il suo patrimonio demografico non solo a causa della mobilità interna, ma anche per il saldo naturale e per il saldo migratorio con l’estero, entrambi negativi (rispettivamente -8.886 e -2.949), facendo registrare un decremento pari a -13.806 residenti (come se avessimo perso il comune di Amantea che al 1° gennaio 2023 aveva 13.844 abitanti).

Se si considera la popolazione complessivamente residente (italiani più stranieri), il decremento è pari a -8.460 (come se si fosse perso il comune di Soverato 8.548), in tal modo la popolazione straniera si conferma importante nel contesto demografico calabrese (e nazionale) poiché aiuta a rallentare l’emorragia demografica in atto su tutto il territorio italiano.

Questa dinamica di progressivo declino demografico pone un’ipoteca sul futuro della Calabria. La regione registra da anni una popolazione in costante invecchiamento: al 1° gennaio 2024 l’indice di vecchiaia è pari a 189,0%. Ciò significa che in regione ogni 100 giovani di età inferiore ai 15 anni si contano 189 anziani sopra i 65 anni; nel 2001 il rapporto era quasi equo, gli anziani erano 102, mentre nel 2030, secondo le stime Istat, l’indice di vecchiaia sarà pari a 233%, a fronte del 248% a livello nazionale.

Il calo demografico della popolazione in Calabria si riflette non solo sulla dimensione crescente della popolazione anziana, ma determina effetti anche nell’ambito scolastico, dal momento che una popolazione che fa sempre meno figli innesca dinamiche che, protratte nel tempo, interrompono il ciclo del ricambio generazionale. Nell’a.s. 2022/2023 erano presenti nelle scuole calabresi 266.915 studenti, nell’arco di 11 anni sono “spariti” più di 48mila studenti. (rs)

[Roberta Saladino è dottore di ricerca in “Storia Economica, Demografia, Istituzioni e Società nei Paesi del Mediterraneo” e Referente regionale in Calabria per il Centro Studi e Ricerche Iddos]