di ETTORE JORIO – Il grammelot è fantastico. Dario Fo ne è stato il massimo interprete. Anche
Gigi Proietti ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia.
Secondo Treccani «Grammelot» è un “gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che è in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto”. Insomma, significa parlare a suoni senza sapere cosa dire, puntando sulla intelligenza e sulla fantasia dell’interlocutore per dare significato ai suoni emessi.
Esso può essere il tentativo di chi non sa e si limita a mimare e trasmettere fonosimbolicamente concetti e convinzioni che non si posseggono per cultura, sperando che ad acquisirli siano gli ascoltatori. Si agisce come si fa battendo il dito sul polso sinistro per sentirci rispondere che ora è. Nei ruoli di alta burocrazia viene usato, quasi sempre, come espediente per dimostrare di sapere tanto a fronte del nulla. Così come faceva Alberto Sordi in “Un americano a Roma” facendo finta di parlare inglese persino con i maccheroni, imitando solo le cadenze anglofone.
Il grammelot è così diventato una frequente abitudine nel circuito della pubblica amministrazione, soprattutto regionale. Un metodo utilizzato, emettendo gli anzidetti suoni privi di significato in modo appena sussurrato, quasi per non farsi sentire e per fare credere di dire qualcosa di importante. Ciò che si riesce appena a comprendere sono irraccontabili banalità.
Si fa ricorso ad una tale metodologia di stile “teatrale” per celare quasi sempre la frequente assenza delle competenze necessarie all’efficiente svolgimento dei compiti d’ufficio. Sono in tanti i preposti ad alte cariche che grammelottano con i sottoposti sperando che gli stessi capiscano ciò che non sentono e agiscano nel modo corretto. C’è un aneddoto che racconta la storia di un alto ufficiale inglese che ebbe colloqui per anni con un capo villaggio africano colonizzato così abile nel grammelot da evitare che il primo chiedesse per tre volte consecutive di non avere capito quanto il “nana” avesse detto, ottenendo così l’eterno rinvio del rendiconto tribale.
Da qui, la presenza – assumendo ad esempio un sito ideale senza riferimento ad alcuno nello specifico – che si intensifica dell’insopportabile sussurro incompetente, quasi fermo allo stato labiale come se fosse una raccomandazione privata fatta da un vescovo ad un suo caro fedele, nella gestione della cosa pubblica. Da qui, l’inconcepibile abitudine di copiare a sistema gli atti, e finanche le leggi, dalle omologhe fonti istituzionali ritenute più attrezzate di saperi.
Eh già, perché nei corridoi della PA, specie del Mezzogiorno, è davvero difficile rintracciare le conoscenze necessarie alla buona amministrazione. Persino nelle stanze che contano, ove prevale l’arte di arrangiarsi di tanti laureati e masterizzati web, che invero spesso riescono persino a parlare un italiano corretto.
Il cambio di generazione impiegatizia pubblica ha messo da parte, per mera quiescenza, gli empirici dal taglio operativo. Ha di conseguenza favorito il dominio dei culturalisti teorici, spesso portatori di tesi innovative ma rovinose. Ha rinnovato il parco impiegatizio e consulenziale introducendo a sistema i giovani selezionati per lo più con pratiche clientelari. Leve fresche che hanno preceduto, solo anagraficamente, gli autori degli strafalcioni alle recenti prove di maturità – quelli che hanno definito estetista D’Annunzio piuttosto che l’estetico e Garibaldi autore della Divina Commedia e l’opera più nota di Pirandello “Uno, Nessuno,
Duecentocinquantamila”. In quanto tali divenuti gli untori quotidiani della cultura dirigenziale che invece occorrerebbe per garantire il cambiamento e il risultato, quello che con le premialità aggiustate si riconosce a 360°, di frequente indebitamente.
Insomma, con gli insufficientemente accorsati dei necessari saperi, che mascherano la loro precarietà conoscitiva con un modesto grammelot appena sussurrato, le cose nella PA vanno malissimo. Ministeri e soprattutto Regioni – abbondantemente occupati da interpreti gramellottiani pagati meglio di come fu retribuito il premio Nobel Dario Fo – stanno andando alla malora. Stanno determinando una distorsione organizzativa difficilmente sanabile, affondando la cultura dirigenziale, producendo leggi di comodo, ad personam, licenziate con complicità governative che vanno ben oltre il lecito, svolgendo una attività amministrativa con la pericolosa conseguenza della inesigibilità dei diritti fondamentali dei cittadini e con la determinazione dello sfascio dell’economia, peggio di quella di alcune Regioni.
La Calabria si sta attrezzando da tempo a reclutare grammelottiani anche nelle alte cariche. La preoccupazione è che le cose peggiorino negli ambiti più sensibili, allo scopo di generare un cinico dispetto ai calabresi, molti dei quali destinati a pagare cara sulla loro pelle una tale incomprensibile opzione. (ej)