PUNTI DI VISTA IN CHIARO / Aurelio Misiti: Crisi idrica, il caso Calabria

di FRANCESCO RAOLa questione climatica in generale e la distribuzione dell’acqua in particolare, rappresentano due tra i temi più dibattuti da parecchi anni tanto a livello periferico quanto nell’osservatorio geopolitico praticato dalle più importanti potenze mondiali. L’agenda 2030 e il Pnrr hanno fortemente introdotto, anche in Italia, un nuovo approccio a questi temi attraverso la previsione di importantissimi obiettivi volti soprattutto a contenere l’avanzamento della desertificazione e la conseguente spoliazione demografica delle aree colpite. Insieme al Prof. Aurelio Misiti, già Preside della Facoltà di Ingegneria presso la Sapienza di Roma, Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, vice ministro alle infrastrutture e trasporti, abbiamo affrontato il tema, con particolare riferimento all’area della Città Metropolitana di Reggio Calabria. 

-Nella nostra Regione, la crisi idrica è rappresentata da carenza oppure da criticità riconducibili alla distribuzione?

Le “recenti” origini dell’Appennino Meridionale, composto prevalentemente da rocce di carbonato di calcio, facilitano l’assorbimento dell’acqua nel corso del periodo di pioggia e consentono un lento rilascio, sia attraverso le falde sia in superficie con i relativi corsi d’acqua. L’attuale crisi idrica, come dichiarato recentemente con la richiesta di calamità naturale promossa dal Presidente della Giunta regionale, impone l’adozione di un piano straordinario, volto a risolvere definitivamente le cause esistenti e aprire nuove opportunità a favore della popolazione, distribuendo le ricchezze idriche, presenti nel nostro territorio, attraverso un approccio risolutivo, capace di guardare ai prossimi decenni con l’intento di poter generare un complessivo miglioramento sociale ed economico, tanto sul versante Ionico quanto sul versante Tirrenico. Tra le opportunità presenti, proprio nel territorio della Città Metropolitana di Reggio Calabria, attraverso l’utilizzo dell’acqua proveniente dalla Diga del Metramo, si potrebbero risolvere contemporaneamente le criticità idriche dell’intera fascia ionica, da Caulonia a Pellaro attraverso l’inserimento della risorsa idrica nelle condotte esistenti, alimentate da una rete che per caduta potrebbe servire non solo le aree poste in pianura, ma, vista la quota della diga, posta a circa 900 metri sul livello del mare, consentirebbe anche la fornitura dei comuni situati entro i 500 metri s.l.m., considerando inoltre come ulteriore opportunità la possibilità di alimentare il lago della diga dell’Ordo, per consentire l’irrigazione delle zone agricole in crisi presenti nella zona ionica. Di tali benefici, sempre attraverso la realizzazione di nuove condotte, potrebbero beneficiare del volume di acqua utile, pari a circa 26 milioni di metri cubi e presenti nel lago artificiale, molti centri urbani presenti nell’area Ionica e nell’area Tirrenica della Città Metropolitana di Reggio Calabria, sostituendo i pozzi attualmente in funzione, alimentando gli acquedotti e prevedendo l’installazione di centrali “mini power”, destinate alla produzione di energia idroelettrica. 

-Relativamente alle azioni compiute di recente per valorizzare la Diga del Metramo, quali sono le novità?

Sono stati stanziati 26,5 milioni di euro per il primo lotto della galleria di derivazione, un secondo lotto per l’utilizzo irrigua e idroelettrica e un piano straordinario da 26,5 milioni di euro a tutt’oggi non utilizzato in quanto la regione nel 2023, ha individuato un progetto di 44 milioni di euro che non è stato reso pubblico ma è stato inviato al Commissario straordinario per l’emergenza idrica. 

-Vista la sua affermazione, tesa a prevedere un nuovo modello di distribuzione delle risorse idriche, per superare le attuali criticità, occorre anche un nuovo modello di gestione?

Tutta la gestione idrica, dalla fonte alla depurazione, deve essere gestita da una sola società azienda pubblica.  A ciò si aggiunga che in Calabria, pur essendo state a suo tempo previste dalla Cassa per il Mezzogiorno quattro dighe (Menta, Metramo, Melito ed Esaro), le uniche realizzate e collaudate, quindi utilizzabili, sono presenti nell’area metropolitana di Reggio Calabria, precisamente una a Galatro e l’altra in Aspromonte. La diga del Metramo nasce per uso industriale – in vista della realizzazione della centrale a carbone di Gioia Tauro – e per l’irrigazione dei terreni, allora distribuiti in appezzamenti di grande dimensione, contrariamente ad oggi, spezzettati in dimensioni più ridotte. Si consideri la dimensione della Piana di Gioia Tauro con la sua estensione di 243 km², motivo per la quale, in passato, necessitavano grandi portate di acqua per l’irrigazione, vista la diffusa coltivazione di agrumeti e uliveti. Gli attuali mutamenti avvenuti nel nostro settore agricolo, oltre alla diversificazione delle colture, hanno generato il superamento infrastrutturale dell’opera, ormai non più vicina alle esigenze del settore di riferimento, motivo per il quale ogni piccola proprietà, nel tempo, ha provveduto a utilizzare le acque della ricchissima falda sotterranea presente nella Piana. Rendere la Diga del Metramo funzionale al territorio, significherebbe arrecare numerosi benefici ai comparti produttivi, presenti e nascenti e al contempo consentirebbe la chiusura del ciclo delle acque superando l’antieconomicità dei pozzi, visto anche l’aumento del costo dell’energia elettrica e la manutenzione degli stessi e favorendo la funzione del Consorzio di Bonifica, chiamato a sua volta alla gestione della risorsa idrica per uso irriguo. Non per ultimo, bisogna considerare altri due dati particolarmente rilevanti, attualmente poco discussi: la possibilità di utilizzare i due m³ di acqua al secondo, prodotti dal depuratore di Gioia Tauro e destinabili al terziario per l’irrigazione, gli allevamenti e uso industriale. 

-La modifica della missione della diga del Metramo, da irrigazione a uso civico, chi dovrebbe deciderla?

Questa modifica può effettuarla l’Autorità di bacino dell’appennino meridionale, il Presidente della Regione e il Consiglio regionale che ha la disponibilità del consorzio di bonifica e della società della gestione delle acque. Il piano straordinario dovrebbe contenere la modifica della diga, trasformandola anche ad acqua potabile con l’intento di affrontare in modo evidente sia l’attuale criticità vissuta dalla popolazione sia per impinguare le reti di irrigazione delle zone maggiormente esposte a siccità, come la striscia di territorio dell’area ionica posto tra Caulonia e Pellaro. La soluzione qui proposta riguarderebbe circa 300.000 abitanti, presenti nella Piana di Gioia Tauro e nell’area Jonio reggina. Ciò significherebbe eliminare le cause che hanno portato all’odierna crisi idrica. Come già detto, tale criticità ha comportato un provvedimento di emergenza con la nomina di un Commissario all’emergenza idrica. Proprio perché è necessario eliminare la crisi, è necessario che sia previsto un finanziamento da utilizzare dall’azienda unica chiamata a gestire la risorsa idrica, al fine di poter realizzare di tutti quei provvedimenti utili a superare la criticità, interpretando non solo le esigenze del presente ma soprattutto quelle del futuro. Questa indicazione, non vuole essere un rattoppo temporaneo, ma una scelta razionale messa in atto per superare la crisi idrica nella Città Metropolitana di Reggio Calabria per i prossimi decenni, aprendo così al territorio nuove opportunità di sviluppo. 

-Quale deve essere il ruolo dei Comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria per risolvere questi problemi? 

I Comuni e la stessa Città Metropolitana hanno avuto e avranno un ruolo fondamentale perché ciò che si programma si possa realizzare e possa rimanere in permanenza nel tempo. La gestione portata avanti dall’azienda unica di gestione delle acque eviterà per il futuro, il rapporto diretto tra utenza e comune e questo importantissimo passaggio consentirà il superamento delle eventuali carenze attuali generate dalla bollettazione per cui non si dovrà più perdere l’incasso di una sola bolletta in quanto ad esigerla sarebbe un ente sovra comunale. (fr)

IL PONTE CENTRALITÀ DEL MERIDIONE:
PERCHÈ SERVE UN PROGETTO DI SISTEMA

di LIA ROMAGNO – L’obiettivo è accendere il secondo motore economico dell’Italia, il Mezzogiorno, e ridurre allo stesso tempo la diseguaglianza sociale ed economica tra il Nord e il Sud. La chiave è la messa in campo di un “progetto di sistema” infrastrutturale con al centro il ponte sullo Stretto di Messina una delle porte d’ingresso in Europa da Sud, ovvero quella vasta, popolosa area del Mediterraneo che il Vecchio Continente ha riscoperto con la guerra in Ucraina e la “sete” di energia – di cui i paesi affacciati sul Mare Nostrum sono ricchi – determinata dalla chiusura dei rubinetti di Mosca e dalla volontà di affrancarsi dai combustibili russi.

Un “Progetto di sistema” per il Sud in Italia e per l’Italia in Europa è quello messo a punto da Svimez, insieme ad Animi (Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno), Cnim (Comitato nazionale per la manutenzione) e Arge, già presentato al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, posto al centro di un confronto nella sede della Ficei, cui oltre al presidente della Federazione Italiana Consorzi ed Enti di Industrializzazione, Antonio Visconti e Andrea Ferroni, hanno preso parte, tra gli altri, il viceministro alle Infrastrutture, Galeazzo Bignami, Adriano Giannola e Aurelio Misiti, presidenti rispettivamente di Svimez e Cnim, l’architetto Pier Paolo Maggiora di Arge.

Il Ponte, che ha una rilevanza strategica, è quindi parte di un progetto più complesso che, ha sostenuto Aurelio Misiti, presidente del Cnim, vale circa 80 miliardi, di cui 30 e 20 sono rispettivamente il peso dell’alta velocità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria sulla linea tirrenica e dell’alta capacità sul fronte ionico.

Strategiche sono poi anche le altre due porte d’ingresso in Europa, ovvero i porti di Augusta – che deve intercettare e “rilanciare” quel 25% di ricchezza che passa dallo Stretto di Messina – e di Gioia Tauro. L’idea è poi quella di arrivare alla creazione nel retroporto di Gioia di una «città della piana, per fare di 160 mila abitanti una voce sola – ha spiegato Misiti – che insieme alla città metropolitana di Reggio-Calabria dialoghi con quella di Messina in modo da arrivare ad avere un’unica città metropolitana dello Stretto, con poteri simili a quelli di Roma Capitale». «L’obiettivo è far sì che il Mezzogiorno possa essere un motore economico alla stregua del Nord grazie alle ricchezze che passano dallo Stretto di Messina», ha sottolineato il presidente del Cnim, rilevando poi che la possibilità di collegare Roma e Catania in 3 ore e 30 (come Roma e Milano) grazie al ponte e all’alta velocità attiverebbe gli investimenti dei privati sulla rete autostradale. «Ci sono le condizioni perché il Sud possa svilupparsi, e possa farlo anche da solo».

Il Ponte, ha affermato il viceministro Bignami, «non è un’opera fine a se stessa ma un attivatore delle economie del territorio che dovrebbero mettere in connessione la Sicilia con il resto del Meridione e questo con il continente. E risponde anche all’esigenza di rendere più forte e strutturata la nostra nazione che oggi è tra le potenze manifatturiere mondiali nonostante la situazione del Meridione che consente di immaginare ampi margini di sviluppo per quest’area e di conseguenza per l’intero Paese».

Il viceministro ha poi  smontato le critiche di chi ritiene troppo elevato il costo dell’opera – circa 14 miliardi – come i “suggerimenti” di quanti considerano necessario un ripensamento sostanziale del progetto. Il ponte, ha sostenuto, consentirebbe di “elidere” i costi dell’insularità per la Sicilia, stimati in circa 6 miliardi l’anno, che verrebbero «ribaltati sulla realizzazione dell’opera che creerebbe anche sviluppo». Mentre «fare tabula rasa dei rapporti giuridici in essere, in caso di una nuova gara». considerando anche i contenziosi che ne deriverebbero, allungherebbe a dismisura i tempi.

L’opera trascinerebbe investimenti sulle altre infrastrutture, ha poi sottolineato: «Intendiamo realizzare il ribaltamento del paradigma che prevede prima la realizzazione delle opere complementari e poi l’innesto del ponte come completamento. É un approccio sbagliato, anzi la lunga storia del ponte sconta proprio questo errore. La realizzazione del ponte è la dimostrazione della volontà del governo Meloni di realizzare  la centralità del Meridione».

Adriano Giannola ha messo l’accento sul «piano straordinario di salvataggio» del sistema Italia messo in campo dall’Europa con il Pnrr, «un piano di rinascita», «condizionato al fatto che riduciamo le diseguaglianze e aumentiamo la coesione sociale», che vuol dire affrontare il nodo del dualismo Nord-Sud, soprattutto considerando il fatto che le regioni settentrionali si stanno progressivamente allontanando dalla media europea: «Lombardia, Emilia e Veneto, tanto amanti dell’autonomia, che è una follia, arretrano sempre di più, non trainano più nulla se non loro stesse», ha affermato il presidente di Svimez, sottolineando come il faro anche per l’imprenditoria del Nord debba essere diventare protagonisti della centralità del Mediterraneo che l’Europa oggi ha riscoperto dopo averla abbandonata per trent’anni.

«È il momento di recuperare sul ponte, sul Mezzogiorno che è il terreno su cui si innesca quella reazione a catena che può fare il secondo miracolo economico al Sud e al Nord». E in questo quadro Giannola ha posto la necessità di «cambiare radicalmente rotta sul Pnrr», la cui priorità, ha ribadito, è «l’unicità economica del Paese». (lr)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

LA GUERRA DEI PONTI E IL “NO” IDEOLOGICO
SULLO STRETTO SOLO INUTILI DISCUSSIONI

di LEANDRA D’ANTONE – L’inaugurazione, nello Stretto dei Dardanelli, del ponte campata unica più lungo del mondo con 2,023 km di luce, opera i­niziata nel 2017 per collegare la Tur­chia europea con quella asiatica, era stata programmata per il 18 marzo 2023, ma ha addirittura anticipato di un anno in un giorno dal forte valore simbolico: 18 marzo, giorno della vit­toria militare di Ataturk a Gallipoli sulla Triplice Intesa nel 1915, consi­derato come quello della nascita del­la Turchia moderna. Il Cannakkale Bridge è stato progettato da Cowi società leader mondiale che aveva progettato il Ponte di Messina utiliz­zando la stessa tecnologia prevista per  lo Stretto, nota al mondo proprio come Messina type.

Il Cannakkale ha tolto il primato al ponte giappo­nese Akahasi, con 1,991 km di campa­ta unica, inaugurato nel 1998 per col­legare le due isole giapponesi Honsu (104 milioni di abitanti) e Awaij (157.000 abitanti). Entrambi i ponti sono stati realizzati in aree ad eleva­tissima sismicità, rappresentando anche attraverso le tecnologie più innovative e l’efficienza realizzativa, la dislocazione di assi portanti dell’e­conomia e della geopolitica mondiali verso l’Oriente e il Sud del Mondo.

L’Italia invece, naturale piattaforma europea nel Mediterraneo, è riuscita a sprecare persino la sua fortunatissi­ma posizione. Il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto di Messina, era pronto nel 2009, dopo oltre 50 anni di studi approfonditi da parte dei migliori scienziati del mondo, al punto che i risultati di essi racchiusi in un primo Rapporto, furono pre­sentati nel 1981 nella prestigiosa sede dell’Accademia dei Lincei.

Il progetto definitivo, com’è noto, ha raggiunto la fase esecutiva nel 2011,, MEN dopo essere passato attraverso il vaglio dei gran­di advisor mondiali in campo tecni­co-ingegneristico, di impatto tra­sportistico, economico sociale ed ambientale, del Consiglio superiore dei Lavori pubblici al tempo presie­duto dal prof. Aurelio Misiti, del Cipe e degli azionisti della SdM. È stato af­fossato nel 2012 non dall’Unione Eu­ropea per deficienze della documen­tazione e scarsa affidabilità, ma dal Governo italiano (con l’avallo delle regioni Sicilia e Calabria complessi­vamente, negli anni decisivi imbelli e scarsamente lungimiranti), con motivazioni ideologiche di singolare inconsistenza:”non è una priorità”, a meno che alle parole vuote non si as­soci il loro vero significato.

Al di là della sua usuale retorica meridionalista non erano allora una priorità politica né il Sud né il superamento delle disuguaglianze territoriali (non sono riusciti a diventarlo neanche oggi). Della portata dell’occasione perduta è stato fino a pochi anni addietro convintissimo l’ing. Remo Calzona, che è stato Presidente del Comitato scientifico della Società Stretto di Messina che ha approvato il progetto preliminare al bando di gara per l’individuazione del Contraente Generale.

Ancora fino a qualche anno fa (Tempo stretto, febbraio 2019) Calzona ha sottolineato come il Ponte del Mediterraneo (sic!) col progetto del 2009 costituisse un’occasione d’oro: “Si poteva fare allora e si può fare adesso. Oggi è un’opera banale. Mentre in riva allo Stretto si disquisiva, il mondo intero andava avanti e costruiva ponti ben più complessi di quello di Messina”. È infatti quel che è accaduto in tutto il mondo con la realizzazione di ponti lunghi fino a molte decine chilometri. ad una o più campate, in Paesi o tra Paesi in cui nessuno ha avuto come in Italia pregiudizi contro le grandi opere o dubbi sul valore fondamentale, non solo economico-sociale, ma anche cultu­rale e ambientale delle connessioni ben studiate fra territori.

Nessuno ha comunque potuto negare che il patrimo­nio di studi accumulato per l’ideazione e la progettazione del collegamento stabile sullo Stretto abbia formato un archivio di conoscenze scientifiche di altissimo valore e rilievo mondiale. Senonché, in questi giorni, lo stesso ing. Calzona, presentando l’idea di ponte a tre campate, già verificata e scartata dagli advisor, ha accusato di imbecillità e analfabetismo chi aveva creduto nel precedente progetto (quindi anche se stesso?). Beninteso, soprattutto per chi del mondo degli ingegneri non fa parte e guarda con fiducia a tecnologie sem­pre più innovative, al punto a cui siamo arrivati e dopo il tempo perduto, ben vengano soluzioni migliori (esistono anche i vantaggi del ritardatario) se queste esistono davvero. Ma della proposta del ponte a tre campate non esiste neanche un progetto di massima che ne dimostri non solo la fattibilità tecnica ma anche il minor costo relativo.

Esiste, invece, la recente storia politica, che dopo il 2018 ha portato alla formazione di governi con forte presenza pentastellata, caratterizzati dal no ideologico a grandi opere infrastrutturali. La pan­demia e il PNRR hanno dal 2020 messo di fronte all’urgenza di investimenti soprattutto nel Sud e soprattutto in al­cune grandi infrastrutture di cui non si può più negare la necessità. La Com­missione “de Micheli”, insediata ad hoc nel 2020 dal Governo Conte, ha conclu­so che il Ponte è necessario. ma che oc­corre verificare gli “eventuali vantaggi” derivanti dalla realizzazione di un ponte a tre campate.

Il Ministro della Mobilità sostenibile del Governo attua­le, ha ereditato le conclusioni della Commissione “de Micheli”e ha stanziato risorse per 50 milioni per un ulteriore studio di fattibilità che metta a con­fronto il precedente progetto di Ponte a campata unica con quello di ponte a tre campate e che prevede persino l’opzione zero. Parallelamente è stato fi­nanziato con 500 milioni il potenzia­mento del traghettamento. Dunque si ricomincia daccapo. Alla fine dei conti, gli imbecilli sembriamo noi che, privi delle conoscenze tecniche, ma ancora lucidi nell’osservare i fatti politici, con­tinuiamo a crederci. (lda)

Leandra D’Antone è Professore senior di Storia contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza”

[courtesy La Sicilia, quotidiano diretto da Antonello Pireneo]

SS 106: AURELIO MISITI, CON SOLDI PRIVATI
SI PUÒ REALIZZARE L’AUTOSTRADA JONICA

di FRANCESCO RAO – Una nuova autostrada, jonica, con un tracciato autonomo che si affianchi alla “maledetta” 106, ma senza nuove spese per lo Stato: è l’ambizioso progetto che sarà presentato il 26 marzo 2022 a Roccella Jonica. Da 20 anni Aurelio Misiti – ingegnere, docente universitario e politico, già Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e sottosegretario e viceministro nel Berlusconi IV e assessore in Regione con Chiaravalloti – pone molta attenzione allo sviluppo della Calabria. In tal senso, le infrastrutture rappresentano una priorità alla quale non è più possibile derogare. La Strada Statale 106 si pone al centro degli studi compiuti nel tempo dallo stesso Misiti il quale afferma: «i tempi sono maturi per realizzare una grande opera che deve segnare il superamento dell’assistenzialismo al Sud. Il Governo vuole il partenariato pubblico-privato e noi faremo proprio questo. Porterò a Roccella i rappresentanti dei privati, che confermeranno la nostra linea».

– On.le Misiti, la Calabria, contrariamente al passato, grazie ai fondi del PNRR ed a tutte le altre opportunità riconducibili ad altri fondi europei e nazionali, potrebbe ampiamente ridurre quel divario strutturale che nel tempo è stato anche causa di un mancato sviluppo socioeconomico. Parlandone con Lei, dal Suo autorevole punto di vista, potrebbe indicarci qualche anticipazione sull’iniziativa che intende promuovere a Roccella Jonica prossimamente?

«In questo momento, l’Europa ha previsto per l’Italia un finanziamento che al di sopra di tutti gli altri finanziamenti per gli altri 26 membri della Comunità Europea. L’Europa ha scelto di superare il gap tra il Mezzogiorno e il resto del Paese che sta divenendo un handicap non solo per l’Italia ma per l’intero continente. Questo fatto però provoca qualche ostacolo nella nostra incapacità tesa ad utilizzare tutti i fondi messi a disposizione.

«Per il sistema stradale si punta alla soluzione antica dei vari lotti funzionali e quindi, a un certo punto le opere vengono interrotte perché finiscono i finanziamenti. In tal senso, ricordiamo che i finanziamenti pubblici finalizzati per risolvere i problemi dei grandi assi autostradali meridionali sono limitati. Per affrontare in modo organico tali circostanze, offrendo una soluzione che potrebbe risolvere gli annosi problemi e i ritardi, bisognerebbe intervenire per far sì che oltre ai fondi dello Stato ci possano essere fondi dei privati. Si consideri che il 29 luglio del 2002, con l’accordo di programma per il sistema delle infrastrutture di trasporto, promosso dalla Regione Calabria e divenuto poi una intesa generale quadro tra la stessa Regione Calabria e il Governo di allora, si era stabilito di realizzare la Strada Statale 106 ricorrendo anche a fondi privati. Sono stato io a scrivere quell’intesa generale e il relativo accordo di programma per il sistema delle infrastrutture di trasporto. Ora è evidente che allora si erano previsti fondi tutti pubblici e si era un po’ scettici che i privati potessero intervenire con loro finanziamenti. Tuttavia, ci siamo messi all’opera e in quel momento avevamo trovato un modo per poter utilizzare oltre ai fondi pubblici che erano già stati finanziati, ma che erano pochi, in altri termini non bastavano se non per 1/3 nel finanziamento della E 90 ex 106, quindi era necessario trovare finanziamenti privati che potessero coprire il resto dell’investimento che ammontava in tutto tra i 9 e 10 miliardi di euro. Questa intesa istituzionale non si è realizzata in tutto.

«È chiaro, con la Legge Obiettivo si sono realizzati un paio di lotti funzionali, ma questa visione dei lotti funzionali era sbagliata, ed è sbagliato continuare a praticarne il metodo. Tant’è vero che in circa quarant’anni di investimenti per lotti funzionali per la 106 si sono realizzati da 50 a 60 km di nuova superstrada. Fatto che ho sempre osteggiato in quanto sostengo l’idea tesa alla realizzazione di una nuova autostrada Taranto-Reggio Calabria. Fatto dimostrato anche successivamente. Nel 2007, in Calabria Autonomie, c’è il progetto dell’autostrada jonica E 90, da me firmato, in cui è evidente l’indirizzo nuovo che io ho cercato di dare, certamente ricorrendo anche a finanziamenti privati. La progettazione deve essere di una nuova Autostrada jonica, con un tracciato autonomo, senza limitarsi ad un puro e semplice ammodernamento dell’attuale Strada Statale 106. Questa soluzione è illustrata nel suddetto progetto realizzabile con fondi dello Stato e fondi dei privati. Dall’idea progettuale illustrata nel 2007, nella quale proponevo una soluzione per la 106, oggi è mia intenzione esporre al Governo e al Presidente della Regione Calabria una progettualità tesa ad affrontare e superare l’annosa questione. Per questo motivo voglio realizzare un incontro operativo a Roccella Jonica per illustrare quanto si può fare oggi per trasformare il finanziamento a fondo perduto sia della Salerno Reggio Calabria sia delle strade che riguardano la Sicilia, mi riferisco alla Catania-Palermo e Trapani-Castelvetrano, che sono stati finanziati a fondo perduto e sono le uniche grandi autostrade che vengono finanziate dal Ministero del Tesoro e non realizzate attraverso il pagamento del pedaggio degli utenti. In tal senso, il pensionato di Cuneo pur non percorrendo l’arteria stradale, paga la Salerno-Reggio Calabria. Sfruttando questo fatto, ritengo che sia giusto trasformare il finanziamento a fondo perduto in investimento produttivo. Durante i lavori saranno svolti pubblicamente a Roccella Jonica spiegherò esattamente come è possibile realizzare tutto questo e anche recuperare la parte dello Stato anche i fondi investiti sia in Calabria che in Sicilia».

– Per quanto riguarda l’elettrificazione e la creazione del doppio binario ferroviario, sempre sulla linea jonica, volendo essere realisti, quali margini di possibilità potrebbero esserci per indurre RFI a progettare, ottenere i finanziamenti e realizzare l’opera?

«Guardi, l’occasione il poter realizzare la 106 nuova, cioè l’ex E90, in un decennio piuttosto che in 250 anni, si rende anche possibile la elettrificazione della linea jonica Taranto-Reggio Calabria. Ma non ricorrendo al raddoppio nell’attuale linea jonica. Quella deve essere abbandonata. Occorre realizzare la linea ferroviaria parallelamente alla nuova autostrada 106, evitando di pagare espropri e quant’altro in quanto si dovrà procedere alla costruzione degli stessi in parallelo. Tenendo presente che oggi non c’è più necessità di elettrificare con i pali e portare l’energia elettrica dalle grandi centrali – sperando che il futuro dopo la guerra ci riporti anche al recente passato – ma noi possiamo ritenere possibile elettrificare la linea jonica, ossia una linea nuova, parallela alla nuova 106 a doppio binario, con l’energia elettrica prodotta all’interno del treno attraverso l’uso del combustibile idrogeno. Questa tecnologia, già praticata in ambito spaziale ci consentirà di realizzare l’energia elettrica necessaria per mettere in moto i treni sulla tratta Taranto-Reggio Calabria e viceversa. Quindi, niente elettrificazione come in passato. Le spiagge devono essere liberate, le ricerche archeologiche vanno continuate. La vecchia linea jonica potrà essere utilizzata dalla Regione come ritiene più opportuno. Si potrebbero coprire i binari e realizzare una grande pista ciclabile, capace di unire da una parte all’altra la Calabria e rendendo le 33 Stazioni rifugi per i ciclisti e in prospettiva si possono realizzare delle cose meravigliose per guardare al futuro. Il futuro non può essere come il passato. La vecchia linea jonica e la vecchia 106, ricordano 150 anni di storia del passato. Oggi dobbiamo guardare ai prossimi cento anni del futuro delle nuove generazioni e senza commettere gli errori che in passato sono stati commessi, magari pensando di poter dividere l’Italia. Adesso occorre unificare l’Italia. Tutto ciò, con molta franchezza, dovrà significare che il cittadino calabrese deve sentirsi uguale al cittadino lombardo o veneto, deve avere gli stessi diritti ma anche gli stessi doveri. Se i lombardi pagano le autostrade, i calabresi alla fine lo devono fare pure. È necessario che sia nei diritti sia nei doveri i meridionali siano uguali ai settentrionali, altrimenti il divario non si può superare. Se i Meridionali aspettano la manna che viene dal cielo, non riusciranno mai a superare questo gap. Il divario si supera prendendo coscienza che i meridionali possono fare nel loro territorio tutto quello che fanno quando trasmigrano al Nord oppure nelle altre regioni d’Europa. Quindi, io ritengo che si debba dare una svolta proprio perché l’Europa ha riconosciuto che questo è uno dei danni maggiori alla visione europea unitaria che può portare a questo Continente ad essere uno dei Continenti guida della storia del prossimo secolo ma solo se l’Italia supera questo gap perché l’Italia è la palla al piede e continuerà ad essere come lo è stato nel secolo passato.

«Noi dobbiamo avere la capacità di superare questa visione assistenziale del Mezzogiorno ed essere protagonisti proprio della unificazione economica e intellettuale con l’Africa, perché l’Europa e l’Africa non possono non essere niente nel prossimo secolo. Ritornando alla domanda, noi dobbiamo fare sullo Jonio un’autostrada con le stesse caratteristiche della autostrada Salerno-Reggio Calabria, in più dobbiamo realizzare il doppio binario al di sopra dei 30 e più paesi che si affacciano sullo Jonio, autentici gioielli da utilizzare per il rilancio del turismo e per lo sviluppo economico delle aree interne potendo contare sul ruolo strategico assunto dalle trasversali, già previste dal 2002. Oggi, alcune di esse possono essere migliorate altre si devono fare ex novo.

«Io credo che sia il momento giusto per le trasversali stradali, per l’autostrada jonica e per le ferrovie con l’elettrificazione moderna ad idrogeno: possiamo realizzare in Calabria ciò che non avremmo potuto realizzare in altre regioni. In effetti, l’obiettivo di ottenere finanziamenti privati per la realizzazione dell’autostrada è fattibile, mentre oggettivamente le ferrovie sono state finanziate direttamente dallo Stato. Questo bisogna fare per non guardare indietro ma guardare in avanti e realizzare quel partenariato pubblico-privato che è possibile oggi proprio perché abbiamo la Salerno-Reggio Calabria che  è produttrice di guadagni e risparmi per lo Stato. Avendo una visione geopolitica proiettata a prossimi cento anni, ed operando per promuovere la pace, sarà possibile creare anche in Calabria uno sviluppo più moderno». (fr)

 

ASPETTANDO IL CANTIERE DELLO STRETTO
IL PROF. AURELIO MISITI CI SPIEGA IL PONTE

C’è una forte accelerazione sulla questione Ponte sullo Stretto: le Regioni Calabria e Sicilia hanno mostrato di voler battere i pugni per vedere affermato un diritto, quello di poter pianificare il proprio futuro. Fatto di sviluppo e crescita intorno al Ponte. Le manovre diversive e dilatorie, questa volta, non dovranno trovare spazio: il Governo deve pronunciarsi in modo chiaro e univoco: Il Ponte si può fare, c’è una montagna di documenti che ne garantiscono la fattibilità, quella che è mancata fino ad ora è solo la volontà politica. E occorre cogliere per i calabresi e i siciliani questa straordinaria opportunità di un governo di “tutti” (con esclusione di Fratelli d’Italia) per trovare la convergenza necessaria per il via all’Opera.

Calabria.Live ha voluto sentire il prof. Aurelio Misiti. Calabrese di Melicucco, è ingegnere e docente universitario ed è stato Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nonché Commissario Straordinario per le grandi opere del Sud. Un politico con una grande competenza in materia di Lavori Pubblici e di costruzioni. Nel 2011 è stato sottosegretario e poi viceministro alle Infrastrutture, quando venne varato il progetto definitivo per il Ponte. Ecco l’intervista, realizzata in esclusiva da Francesco Rao.

di FRANCESCO RAO

– Il Ponte sullo Stretto di Messina sembra essere un argomento valido per tutte le stagioni. Lei è tra le persone che può rappresentare la memoria storica di questo importantissimo progetto. A seguito dei Suoi prestigiosi incarichi, l’infrastruttura che potrebbe unire la Sicilia al Continente, per più volte è stata oggetto della Sua attenzione. Oggi, potrebbero essere maturi i tempi per la realizzazione?

«Prima di rispondere alla domanda bisognerà fare una breve premessa. È noto che in alcuni paesi, quando si è trattato di realizzare grandi opere come i ponti, applicando ad essi studi e tecnologie fortemente innovative, vi sia stata una lunga e dibattuta discussione, sia tra tecnici sia tra governanti, divisi tra innovatori e conservatori. Spesso, ma non sempre, ciò è avvenuto per fattori esterni come terremoti, le alluvioni o altri disastri che scatenavano gli eventi naturali. La prova più famosa e, direi importante, si è verificata a San Francisco tra il 1905 e il 1935. Prima di quel periodo, con l’eccezione di Brooklyn, i ponti si realizzavano con tecnologie millenarie a partire da quelli costruiti nel periodo romano.

L’elemento che ha portato gli ingegneri ad approfondire gli studi è stato il terremoto di San Francisco del 1905. Un gruppo di esperti del terremoto, con Richter in testa, si sono posti il problema di realizzare il collegamento stabile tra la città ricostruita e la zona di San Bernardino, al di là della baia. Ci sono voluti 30 anni per riuscire a realizzare il “Golden Gate”, e abbandonare l’idea di realizzare un tunnel in luogo, prossimo alla faglia di Sant’ Andrea. Fino ad allora i ponti tradizionali e le gallerie dominavano la scena di tutto il mondo. L’eccezione di San Francisco è dovuta principalmente agli studi compiuti i quali, oltre a prevedere i potenziali rischi generati dal sisma, hanno tenuto in considerazione i danni che eventuali terremoti potevano arrecare al tunnel sottomarino, con conseguenze terrificanti tanto per la sicurezza di chi l’avrebbe attraversato quanto per la durata dell’opera.

Si è optato per il ponte in quanto, quest’ultimo non può essere danneggiato dal sisma per ragioni tecnico-scientifiche (il periodo di oscillazione del ponte a causa del sisma è di ordine di grandezza superiore a quello del sisma stesso). Grazie agli studi compiuti dai tecnici, il “Golden Gate” ha resistito a tutti i terremoti che si sono verificati dal 1935 al 2020. La tecnica di costruzione, nonostante il ponte fosse sospeso, era rimasta ancorata all’ingegneria civile e tutti gli altri ponti, costruiti sino al 1995, hanno seguito tale esempio. Il Giappone, costruendo il ponte Akashi, con la campata di 1991 metri, che è più lunga del mondo, ha modificato la pregressa tecnica costruttiva segnando una via più moderna per la realizzazione di tali opere. Rispetto al passato, sono stati applicati altri importanti risultati provenienti dalla scienza dei materiali i quali hanno consentito di poter disporre cavi più leggeri, resistenti e meno costosi. Così si è arrivati alla realizzazione di un ponte leggero, poco impattante e poco costoso. Oggi, si è indirizzati alla realizzazione di una struttura prodotta a pezzi e poi assemblata, grazie ad una costruzione di ingegneria industriale nella quale c’è un risparmio di personale e le ditte che riceveranno le commesse saranno diverse ma necessariamente molto specializzate.

Tornando alla domanda, oggi, Taranto potrebbe realizzare i cassoni ed i pilastri, Livorno le lastre per l’impalcato, le ditte specializzate in leghe i fili dei cavi ecc. Tutte le ditte possono avere ordini “a misura” lavorando in parallelo, con grande risparmio di tempo. Infine, il cantiere dello Stretto, dotato di personale altamente specializzato al processo dell’assemblaggio, così come avvenne per tutti i ponti costruiti dopo quello giapponese, potrà lavorare speditamente per il completamento dell’opera. Ovviamente dove non vi sono attraversamenti di fiumi, laghi e mari ed in assenza di pericolosissimi sismi si continua a preferire le gallerie. Quindi, i ponti rappresentano eccezioni rispetto all’uso dei tunnel e dei piccoli ponti, anche se questi ultimi si realizzano ormai con la tecnica giapponese come si è fatto al Polcevera. Fatta questa premessa, rispondo alla domanda.

È vero, io mi interesso da molto tempo alle vicende della costruzione di questa grande opera. Subito dopo il concorso di idee, avvenuto nel 1969, sono stato attratto dal Ponte sullo Stretto domandandomi perché era tanto difficile realizzarlo. Ho seguito i risultati della gara, ho studiato tutte le proposte progettuali che sono state presentate. Tali proposte hanno privilegiato la scelta di un attraversamento aereo, cioè un ponte, con il progetto proposto da una società dell’IRI, per l’esattezza da Italconsult che allora era una grande società di progettazione. Sostanzialmente, sino ad oggi lo schema del ponte è rimasto sempre quello di 50 anni fa.  L’Eni e la Saipem sono state sconfitte nel concorso che è stato presieduto da eminenti tecnici universitari e dai gruppi istituiti da Anas e Ferrovie dello Stato. Successivamente, nel 1980, si è costituita la società Stretto di Messina, prevista dalla Legge del 1971 che ha svolto un ottimo ruolo di indagine su tutto lo Stretto. Sono stati esaminati i dati riconducibili alla storia dei terremoti ed al maremoto del 1908; i costanti mutamenti delle correnti, basti pensare che la mattina le acque dello Stretto hanno un senso e nel pomeriggio un altro ed infine sono stati svolti studi relativi all’analisi dell’intensità e della direzione dei venti.

Il progetto, realizzato dalla Società Stretto di Messina, non poteva tenere conto a quell’epoca di due questioni: la questione ambientale (tant’è vero che la strada e la ferrovia passava nella riserva naturale di Capo Peloro) e la questione afferente all’avanzamento della ricerca scientifica e tecnologica sui nuovi materiali. Oggi è possibile utilizzare le due questioni in senso positivo per progettare un nuovo tipo d’opera, partendo dal vecchio progetto che dovrà essere rinnovato anche se ha ottenuto tutti gli apprezzamenti necessari fino agli anni 2000. Io stesso ho scritto un articolo per la rivista Scienze, esprimendo il mio convincimento che allora non vi fosse altra via se non quella di realizzare un ponte ardito di 3300 m, con i pilastri sistemati non nel mare, ma sulle due rive, rispettivamente su quella calabrese e quella siciliana.

Già nel 1987, il massimo organo tecnico dello Stato, cioè il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici da me presieduto, aveva dato un parere in cui facevano già capolino delle prescrizioni che nel prosieguo dei tempi la Società Stretto di Messina doveva mettere in atto. Cosa che in parte non fece, essendo la società stessa composta da coloro che preferivano ricevere sostegni per investimenti elevati e anche redditizi in termini di incarichi professionali. Inoltre, il costo molto elevato, circa otto miliardi di euro, ha avuto come effetto la cancellazione della società stessa da parte del governo Monti e successivamente anche da pronunciamenti della Corte costituzionale.

Oggi, il progetto in possesso degli azionisti è un valido punto di partenza, ricordiamo che l’Anas ha l’80% delle quote ed il resto è suddiviso tra Ferrovie dello Stato, Regione Sicilia e Regione Calabria. Con opportuni aggiornamenti sarà possibile preparare un ponte rivisitato che può essere costruito entro il 2026, senza attingere agli aiuti dell’Unione Europea ma facendo fronte alla spesa con fondi dei propri bilanci, in quanto i costi si sono ridotti da quelle cifre prima nominate a solo un 1750 milioni di euro, in un quadro di sostenibilità generale ed in totale coerenza con gli indirizzi espressi dal nuovo governo, attraverso la costituzione del nuovo Ministero della transizione ecologica».

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, potrebbe assumere una propulsione determinante alla realizzazione di un completamento strutturale delle infrastrutture viarie e di collegamento per rendere possibile una mobilità capace di essere annoverata tra gli standard europei, soprattutto vista la straordinaria opportunità che oggi il Sud dispone con il Porto di Gioia Tauro e tutti gli altri porti, in particolare con il Porto di Augusta e Catania che sono strettamente connessi alla realizzazione del Ponte sullo Stretto?

«Intanto, concordo pienamente con il senso stesso della domanda e ricordo una serie di questioni che sono legati a tale quesito. Tra i compiti primari dell’Italia, messi sotto i riflettori come ineludibili dalla Unione Europea, poi ripresi e sottolineati dal piano nazionale di ripresa e resilienza, certamente primario ed essenziale è quello di affrontare la gravissima crisi che attraversa il Sud d’Italia, sospinto in una prospettiva di marginalità sociale ed economica e di degrado democratico e civile. Io ritengo che non sia un destino inevitabile. Il progetto di sistema per il Sud, presentato dai rappresentanti delle quattro sigle, in particolare da Svimez, agli organi di governo e gli organi istituzionali, respinge l’illusoria tentazione di separare le diverse macroaree del paese consegnandole a diseguali e ingiusti destini storici mentre ha l’obiettivo di consentire al sistema Italia di funzionare come effettivo e potente organismo unitario. Quindi non è la solita lamentela del Sud, ma è la valorizzazione dell’unitarietà tra Sud e Centro Nord.

Inserire le proposte per il Sud, in una ricomposizione di sistema è l’unica via non assistenziale e non dispersiva ma, al contrario, razionale utile e concreta, per ridurre  le diseguaglianze che impediscono livelli coerenti, omogenei ed autentici finalizzati ad innalzare la qualità della vita nel nostro paese e dotare l’Italia di quel secondo motore necessario a Sud e sinergico con il primo motore che ovviamente sta al Centro Nord, capace di concorrere al reale rilancio di entrambe le macro aree, Centro-Nord e Sud rendendo in tal modo un decisivo contributo al compiuto risanamento e riequilibrio dell’intero nostro Paese, funzionale al suo ruolo ed alla sua autorevolezza e rilevanza in Europa.

Non possiamo dimenticare mai che il primo avvio della nuova Europa è stato avviato dalla città di Messina, dove sono stati firmati i primi documenti europei. Il progetto di sistema che abbiamo formulato, costituisce il prototipo concreto e immediatamente attuabile affinché vengano utilizzate virtuosamente quote di risorse utili contenuti nella logica del piano nazionale di resilienza finalizzati ad avviare concretamente e immediatamente i possibili e necessari partenariati pubblico-privati, con un decisivo momento di innesco dell’operatività virtuosa della trasformazione del paese nella logica richiesta perentoriamente dall’Europa. Non dimentichiamo che questa è la novità. Il tutto nella logica della qualità concreta, reale, sostenibile e necessaria richiesta come premessa ed un obiettivo indispensabile e irrinunciabile per un’operazione di questa portata.

Il nostro progetto di sistema, attivabile immediatamente, si compone infatti da tre grandi opzioni. Visto quanto si è registrato a Nord con l’uscita della Gran Bretagna, l’Europa non può che rivolgersi al Mediterraneo e fare del Mediterraneo il proprio medio oceano, indispensabile per rendere possibili gli scambi, soprattutto con il grande continente dell’Africa che, in questo Secolo, sarà quello che crescerà di più in termini economici ed anche in termini di popolazione. È questo l’obiettivo principale che pone l’Italia, ed in particolare il Sud e la Sicilia, come il mezzo principale dell’Europa per contrastare l’egemonia cinese e l’avanzata della Turchia e della Russia sempre più interessati ad introdursi nel Mediterraneo, visto il crescente ruolo della sua importanza strategica. L’Europa può impedire ciò divenendo il partner più affidabile per l’Africa futura».

– Seppur Lei sia da molti anni residente a Roma, conosce perfettamente le criticità del Meridione. Basteranno i prossimi cinque anni per mettere in cantiere e concludere i lavori previsti dal Recovery Plan? Quali, secondo Lei, potrebbero essere le criticità maggiori da dover affrontare? Ed infine, potremmo rischiare di perdere questo importantissimo treno dello sviluppo?

«È vero sono da molti anni a Roma. Nella Capitale ho ricoperto le più importanti cariche dello Stato. Rimanendo in Calabria non avrei potuto ricoprire tali incarichi, ma non ho mai abbandonato la Calabria. Tanto è vero che quando sono stato chiamato a ricoprire l’incarico di assessore regionale ai lavori pubblici non ho declinato la proposta. I prossimi cinque anni, per la prima volta dal dopoguerra, potranno essere determinati per avviare un nuovo boom economico e sociale. Certo, le criticità le troveremo forse in casa nostra e consistono nella impreparazione della classe politica e purtroppo anche di quella burocratica. Si rischia perciò di perdere le opportunità che si presentano grazie a questa nuova presenza europea anche in Italia, soprattutto per la considerazione che l’Europa ha acquisito in questo periodo verso il ruolo fondamentale che gioca la nostra nazione.

La speranza deve essere la volontà, ormai chiara dell’Europa, di spingere per concludere la realizzazione dei corridoi europei ed avere un continente al centro del Mediterraneo. Nessuno può far perdere questa preziosa occasione al nostro Paese in quanto ne ha bisogno per risorgere e per diventare il centro fondamentale attraverso la grande Città Metropolitana dello Stretto di Messina, comprendente le due province di Reggio Calabria e Messina nelle quali il valore aggiunto da sviluppare dovrà essere un lavoro finalizzato alla costante collaborazione e alla concorrenza. Villa San Giovanni e Messina dovranno agire come due sorelle, assumendo una propensione ad una vicendevole collaborazione tanto nella parte economica quanto in quella sociale. Una Città di oltre un milione abitanti può diventare la capitale del Mediterraneo, la capitale di quel 25% della ricchezza mondiale che si muove in giro per il mondo e transita proprio in questa area.

– Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresenta anche una occasione per manutenere, le infrastrutture esistenti in Italia. Dal Suo punto di vista, ravvisa una certa urgenza, finalizzata ad eseguire un monitoraggio di ponti e cavalcavia, stradali e ferroviari? In tempi non sospetti, proprio Lei aveva puntualizzato la necessità di effettuare la manutenzione al ponte “Morandi” di Genova. Come mai la Sua indicazione non venne considerata?

«Io sono dal 4 maggio 1990 il presidente del Comitato Nazionale Italiano per la Manutenzione. Nel Consiglio Direttivo del C.N.I.M. figurano i Ministeri dello Sviluppo, all’epoca si chiamava dell’Industria e quello dell’Università e della Ricerca. Ho predicato spesso nel deserto, comunque nel 1994, sono riuscito attraverso il C.N.I.M. e l’accordo dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici Merloni ad inserire nella legge generale sugli appalti il necessario piano di manutenzione per qualunque infrastruttura o struttura che lo Stato avrebbe realizzato nel nostro Paese. È vero che tutti i progettisti e tutti gli Enti devono ubbidire a quella legge, ma è anche vero che quella legge non prevedeva il finanziamento di questo piano e molti l’hanno adoperata solo come schermo per approvare i progetti.  Dopo la tragedia di Genova – va precisato che Morandi non ha nessuna colpa nella caduta di quel ponte -, la manutenzione è diventata parte integrante del progetto. Senza la manutenzione, le opere pubbliche non hanno senso. Il progetto di sistema, appena presentato, valorizza pienamente la manutenzione come uno dei percorsi essenziali da seguire per tutte le opere, specialmente quelle pubbliche e in particolare per i ponti, i viadotti, le gallerie, le autostrade e anche le ferrovie che attraversano le stesse strutture. Dal 2000 al 2004, il C.N.I.M. ha lavorato d’accordo con le Ferrovie dello Stato ed ha individuato il modo per risolvere quasi tutti i problemi dei viadotti grazie ad un algoritmo. Purtroppo, per strade ed autostrade, l’esempio del ponte sul Polcevera dimostra che le concessioni autostradali non hanno fatto una bella figura.

Tenga presente che con Morandi, dal 1961 a 1968, siamo stati compagni di stanza. Lui mi ha sempre spiegato che quel ponte era un suo capolavoro, ma sarebbe stato pericoloso superare i sei milioni di autoveicoli l’anno ed il superamento delle 25 tonnellate massime previste per i TIR. Limiti che sono stati superati abbondantemente. Basti pensare che al posto di sei milioni di autoveicoli, nell’ultimo anno,  sono transitati sul ponte Morandi 28 milioni di autoveicoli ed i carichi massimi sono stati spostati da 25 tonnellate a 44 tonnellate, l’equivalente del camion che è crollato con il ponte. In più, il progettista aveva sempre sostenuto che dopo 40 anni dalla costruzione del ponte dovevano essere sostituiti i ferri degli stralli. Nel 1993 venne effettuato un intervento in tal senso e tutto è andato bene. Per l’altra parte, trascorsi 51 anni, non essendo state praticate le prescritte azioni manutentive sappiamo benissimo cosa è accaduto. Questa è stata la carta decisiva con la quale hanno voluto distruggere il nome del grande progettista, ancora oggi è considerato uno dei primi al mondo. Speriamo che in futuro quel tragico evento nel quale hanno perso la vita 43 persone possa insegnare agli italiani che la costruzione di un ponte, di un viadotto sia ferroviario che stradale è una cosa seria e non la può realizzare né un Presidente del Consiglio, né un Ministero né una Commissione, ma è compito degli esperti veri, quelli che hanno una grande esperienza nella costruzione di ponti. Oggi mi sembra che tutti parlino senza sapere di cosa parlano». (fr)