INTERVISTA ESCLUSIVA: ERA SOTTOGRETARIO DEI LAVORI PUBBLICI AL TEMPO DEL PROGETTO DEFINITIVO DEL 2011;
Aurelio Misiti

ASPETTANDO IL CANTIERE DELLO STRETTO
IL PROF. AURELIO MISITI CI SPIEGA IL PONTE

C’è una forte accelerazione sulla questione Ponte sullo Stretto: le Regioni Calabria e Sicilia hanno mostrato di voler battere i pugni per vedere affermato un diritto, quello di poter pianificare il proprio futuro. Fatto di sviluppo e crescita intorno al Ponte. Le manovre diversive e dilatorie, questa volta, non dovranno trovare spazio: il Governo deve pronunciarsi in modo chiaro e univoco: Il Ponte si può fare, c’è una montagna di documenti che ne garantiscono la fattibilità, quella che è mancata fino ad ora è solo la volontà politica. E occorre cogliere per i calabresi e i siciliani questa straordinaria opportunità di un governo di “tutti” (con esclusione di Fratelli d’Italia) per trovare la convergenza necessaria per il via all’Opera.

Calabria.Live ha voluto sentire il prof. Aurelio Misiti. Calabrese di Melicucco, è ingegnere e docente universitario ed è stato Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nonché Commissario Straordinario per le grandi opere del Sud. Un politico con una grande competenza in materia di Lavori Pubblici e di costruzioni. Nel 2011 è stato sottosegretario e poi viceministro alle Infrastrutture, quando venne varato il progetto definitivo per il Ponte. Ecco l’intervista, realizzata in esclusiva da Francesco Rao.

di FRANCESCO RAO

– Il Ponte sullo Stretto di Messina sembra essere un argomento valido per tutte le stagioni. Lei è tra le persone che può rappresentare la memoria storica di questo importantissimo progetto. A seguito dei Suoi prestigiosi incarichi, l’infrastruttura che potrebbe unire la Sicilia al Continente, per più volte è stata oggetto della Sua attenzione. Oggi, potrebbero essere maturi i tempi per la realizzazione?

«Prima di rispondere alla domanda bisognerà fare una breve premessa. È noto che in alcuni paesi, quando si è trattato di realizzare grandi opere come i ponti, applicando ad essi studi e tecnologie fortemente innovative, vi sia stata una lunga e dibattuta discussione, sia tra tecnici sia tra governanti, divisi tra innovatori e conservatori. Spesso, ma non sempre, ciò è avvenuto per fattori esterni come terremoti, le alluvioni o altri disastri che scatenavano gli eventi naturali. La prova più famosa e, direi importante, si è verificata a San Francisco tra il 1905 e il 1935. Prima di quel periodo, con l’eccezione di Brooklyn, i ponti si realizzavano con tecnologie millenarie a partire da quelli costruiti nel periodo romano.

L’elemento che ha portato gli ingegneri ad approfondire gli studi è stato il terremoto di San Francisco del 1905. Un gruppo di esperti del terremoto, con Richter in testa, si sono posti il problema di realizzare il collegamento stabile tra la città ricostruita e la zona di San Bernardino, al di là della baia. Ci sono voluti 30 anni per riuscire a realizzare il “Golden Gate”, e abbandonare l’idea di realizzare un tunnel in luogo, prossimo alla faglia di Sant’ Andrea. Fino ad allora i ponti tradizionali e le gallerie dominavano la scena di tutto il mondo. L’eccezione di San Francisco è dovuta principalmente agli studi compiuti i quali, oltre a prevedere i potenziali rischi generati dal sisma, hanno tenuto in considerazione i danni che eventuali terremoti potevano arrecare al tunnel sottomarino, con conseguenze terrificanti tanto per la sicurezza di chi l’avrebbe attraversato quanto per la durata dell’opera.

Si è optato per il ponte in quanto, quest’ultimo non può essere danneggiato dal sisma per ragioni tecnico-scientifiche (il periodo di oscillazione del ponte a causa del sisma è di ordine di grandezza superiore a quello del sisma stesso). Grazie agli studi compiuti dai tecnici, il “Golden Gate” ha resistito a tutti i terremoti che si sono verificati dal 1935 al 2020. La tecnica di costruzione, nonostante il ponte fosse sospeso, era rimasta ancorata all’ingegneria civile e tutti gli altri ponti, costruiti sino al 1995, hanno seguito tale esempio. Il Giappone, costruendo il ponte Akashi, con la campata di 1991 metri, che è più lunga del mondo, ha modificato la pregressa tecnica costruttiva segnando una via più moderna per la realizzazione di tali opere. Rispetto al passato, sono stati applicati altri importanti risultati provenienti dalla scienza dei materiali i quali hanno consentito di poter disporre cavi più leggeri, resistenti e meno costosi. Così si è arrivati alla realizzazione di un ponte leggero, poco impattante e poco costoso. Oggi, si è indirizzati alla realizzazione di una struttura prodotta a pezzi e poi assemblata, grazie ad una costruzione di ingegneria industriale nella quale c’è un risparmio di personale e le ditte che riceveranno le commesse saranno diverse ma necessariamente molto specializzate.

Tornando alla domanda, oggi, Taranto potrebbe realizzare i cassoni ed i pilastri, Livorno le lastre per l’impalcato, le ditte specializzate in leghe i fili dei cavi ecc. Tutte le ditte possono avere ordini “a misura” lavorando in parallelo, con grande risparmio di tempo. Infine, il cantiere dello Stretto, dotato di personale altamente specializzato al processo dell’assemblaggio, così come avvenne per tutti i ponti costruiti dopo quello giapponese, potrà lavorare speditamente per il completamento dell’opera. Ovviamente dove non vi sono attraversamenti di fiumi, laghi e mari ed in assenza di pericolosissimi sismi si continua a preferire le gallerie. Quindi, i ponti rappresentano eccezioni rispetto all’uso dei tunnel e dei piccoli ponti, anche se questi ultimi si realizzano ormai con la tecnica giapponese come si è fatto al Polcevera. Fatta questa premessa, rispondo alla domanda.

È vero, io mi interesso da molto tempo alle vicende della costruzione di questa grande opera. Subito dopo il concorso di idee, avvenuto nel 1969, sono stato attratto dal Ponte sullo Stretto domandandomi perché era tanto difficile realizzarlo. Ho seguito i risultati della gara, ho studiato tutte le proposte progettuali che sono state presentate. Tali proposte hanno privilegiato la scelta di un attraversamento aereo, cioè un ponte, con il progetto proposto da una società dell’IRI, per l’esattezza da Italconsult che allora era una grande società di progettazione. Sostanzialmente, sino ad oggi lo schema del ponte è rimasto sempre quello di 50 anni fa.  L’Eni e la Saipem sono state sconfitte nel concorso che è stato presieduto da eminenti tecnici universitari e dai gruppi istituiti da Anas e Ferrovie dello Stato. Successivamente, nel 1980, si è costituita la società Stretto di Messina, prevista dalla Legge del 1971 che ha svolto un ottimo ruolo di indagine su tutto lo Stretto. Sono stati esaminati i dati riconducibili alla storia dei terremoti ed al maremoto del 1908; i costanti mutamenti delle correnti, basti pensare che la mattina le acque dello Stretto hanno un senso e nel pomeriggio un altro ed infine sono stati svolti studi relativi all’analisi dell’intensità e della direzione dei venti.

Il progetto, realizzato dalla Società Stretto di Messina, non poteva tenere conto a quell’epoca di due questioni: la questione ambientale (tant’è vero che la strada e la ferrovia passava nella riserva naturale di Capo Peloro) e la questione afferente all’avanzamento della ricerca scientifica e tecnologica sui nuovi materiali. Oggi è possibile utilizzare le due questioni in senso positivo per progettare un nuovo tipo d’opera, partendo dal vecchio progetto che dovrà essere rinnovato anche se ha ottenuto tutti gli apprezzamenti necessari fino agli anni 2000. Io stesso ho scritto un articolo per la rivista Scienze, esprimendo il mio convincimento che allora non vi fosse altra via se non quella di realizzare un ponte ardito di 3300 m, con i pilastri sistemati non nel mare, ma sulle due rive, rispettivamente su quella calabrese e quella siciliana.

Già nel 1987, il massimo organo tecnico dello Stato, cioè il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici da me presieduto, aveva dato un parere in cui facevano già capolino delle prescrizioni che nel prosieguo dei tempi la Società Stretto di Messina doveva mettere in atto. Cosa che in parte non fece, essendo la società stessa composta da coloro che preferivano ricevere sostegni per investimenti elevati e anche redditizi in termini di incarichi professionali. Inoltre, il costo molto elevato, circa otto miliardi di euro, ha avuto come effetto la cancellazione della società stessa da parte del governo Monti e successivamente anche da pronunciamenti della Corte costituzionale.

Oggi, il progetto in possesso degli azionisti è un valido punto di partenza, ricordiamo che l’Anas ha l’80% delle quote ed il resto è suddiviso tra Ferrovie dello Stato, Regione Sicilia e Regione Calabria. Con opportuni aggiornamenti sarà possibile preparare un ponte rivisitato che può essere costruito entro il 2026, senza attingere agli aiuti dell’Unione Europea ma facendo fronte alla spesa con fondi dei propri bilanci, in quanto i costi si sono ridotti da quelle cifre prima nominate a solo un 1750 milioni di euro, in un quadro di sostenibilità generale ed in totale coerenza con gli indirizzi espressi dal nuovo governo, attraverso la costituzione del nuovo Ministero della transizione ecologica».

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, potrebbe assumere una propulsione determinante alla realizzazione di un completamento strutturale delle infrastrutture viarie e di collegamento per rendere possibile una mobilità capace di essere annoverata tra gli standard europei, soprattutto vista la straordinaria opportunità che oggi il Sud dispone con il Porto di Gioia Tauro e tutti gli altri porti, in particolare con il Porto di Augusta e Catania che sono strettamente connessi alla realizzazione del Ponte sullo Stretto?

«Intanto, concordo pienamente con il senso stesso della domanda e ricordo una serie di questioni che sono legati a tale quesito. Tra i compiti primari dell’Italia, messi sotto i riflettori come ineludibili dalla Unione Europea, poi ripresi e sottolineati dal piano nazionale di ripresa e resilienza, certamente primario ed essenziale è quello di affrontare la gravissima crisi che attraversa il Sud d’Italia, sospinto in una prospettiva di marginalità sociale ed economica e di degrado democratico e civile. Io ritengo che non sia un destino inevitabile. Il progetto di sistema per il Sud, presentato dai rappresentanti delle quattro sigle, in particolare da Svimez, agli organi di governo e gli organi istituzionali, respinge l’illusoria tentazione di separare le diverse macroaree del paese consegnandole a diseguali e ingiusti destini storici mentre ha l’obiettivo di consentire al sistema Italia di funzionare come effettivo e potente organismo unitario. Quindi non è la solita lamentela del Sud, ma è la valorizzazione dell’unitarietà tra Sud e Centro Nord.

Inserire le proposte per il Sud, in una ricomposizione di sistema è l’unica via non assistenziale e non dispersiva ma, al contrario, razionale utile e concreta, per ridurre  le diseguaglianze che impediscono livelli coerenti, omogenei ed autentici finalizzati ad innalzare la qualità della vita nel nostro paese e dotare l’Italia di quel secondo motore necessario a Sud e sinergico con il primo motore che ovviamente sta al Centro Nord, capace di concorrere al reale rilancio di entrambe le macro aree, Centro-Nord e Sud rendendo in tal modo un decisivo contributo al compiuto risanamento e riequilibrio dell’intero nostro Paese, funzionale al suo ruolo ed alla sua autorevolezza e rilevanza in Europa.

Non possiamo dimenticare mai che il primo avvio della nuova Europa è stato avviato dalla città di Messina, dove sono stati firmati i primi documenti europei. Il progetto di sistema che abbiamo formulato, costituisce il prototipo concreto e immediatamente attuabile affinché vengano utilizzate virtuosamente quote di risorse utili contenuti nella logica del piano nazionale di resilienza finalizzati ad avviare concretamente e immediatamente i possibili e necessari partenariati pubblico-privati, con un decisivo momento di innesco dell’operatività virtuosa della trasformazione del paese nella logica richiesta perentoriamente dall’Europa. Non dimentichiamo che questa è la novità. Il tutto nella logica della qualità concreta, reale, sostenibile e necessaria richiesta come premessa ed un obiettivo indispensabile e irrinunciabile per un’operazione di questa portata.

Il nostro progetto di sistema, attivabile immediatamente, si compone infatti da tre grandi opzioni. Visto quanto si è registrato a Nord con l’uscita della Gran Bretagna, l’Europa non può che rivolgersi al Mediterraneo e fare del Mediterraneo il proprio medio oceano, indispensabile per rendere possibili gli scambi, soprattutto con il grande continente dell’Africa che, in questo Secolo, sarà quello che crescerà di più in termini economici ed anche in termini di popolazione. È questo l’obiettivo principale che pone l’Italia, ed in particolare il Sud e la Sicilia, come il mezzo principale dell’Europa per contrastare l’egemonia cinese e l’avanzata della Turchia e della Russia sempre più interessati ad introdursi nel Mediterraneo, visto il crescente ruolo della sua importanza strategica. L’Europa può impedire ciò divenendo il partner più affidabile per l’Africa futura».

– Seppur Lei sia da molti anni residente a Roma, conosce perfettamente le criticità del Meridione. Basteranno i prossimi cinque anni per mettere in cantiere e concludere i lavori previsti dal Recovery Plan? Quali, secondo Lei, potrebbero essere le criticità maggiori da dover affrontare? Ed infine, potremmo rischiare di perdere questo importantissimo treno dello sviluppo?

«È vero sono da molti anni a Roma. Nella Capitale ho ricoperto le più importanti cariche dello Stato. Rimanendo in Calabria non avrei potuto ricoprire tali incarichi, ma non ho mai abbandonato la Calabria. Tanto è vero che quando sono stato chiamato a ricoprire l’incarico di assessore regionale ai lavori pubblici non ho declinato la proposta. I prossimi cinque anni, per la prima volta dal dopoguerra, potranno essere determinati per avviare un nuovo boom economico e sociale. Certo, le criticità le troveremo forse in casa nostra e consistono nella impreparazione della classe politica e purtroppo anche di quella burocratica. Si rischia perciò di perdere le opportunità che si presentano grazie a questa nuova presenza europea anche in Italia, soprattutto per la considerazione che l’Europa ha acquisito in questo periodo verso il ruolo fondamentale che gioca la nostra nazione.

La speranza deve essere la volontà, ormai chiara dell’Europa, di spingere per concludere la realizzazione dei corridoi europei ed avere un continente al centro del Mediterraneo. Nessuno può far perdere questa preziosa occasione al nostro Paese in quanto ne ha bisogno per risorgere e per diventare il centro fondamentale attraverso la grande Città Metropolitana dello Stretto di Messina, comprendente le due province di Reggio Calabria e Messina nelle quali il valore aggiunto da sviluppare dovrà essere un lavoro finalizzato alla costante collaborazione e alla concorrenza. Villa San Giovanni e Messina dovranno agire come due sorelle, assumendo una propensione ad una vicendevole collaborazione tanto nella parte economica quanto in quella sociale. Una Città di oltre un milione abitanti può diventare la capitale del Mediterraneo, la capitale di quel 25% della ricchezza mondiale che si muove in giro per il mondo e transita proprio in questa area.

– Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresenta anche una occasione per manutenere, le infrastrutture esistenti in Italia. Dal Suo punto di vista, ravvisa una certa urgenza, finalizzata ad eseguire un monitoraggio di ponti e cavalcavia, stradali e ferroviari? In tempi non sospetti, proprio Lei aveva puntualizzato la necessità di effettuare la manutenzione al ponte “Morandi” di Genova. Come mai la Sua indicazione non venne considerata?

«Io sono dal 4 maggio 1990 il presidente del Comitato Nazionale Italiano per la Manutenzione. Nel Consiglio Direttivo del C.N.I.M. figurano i Ministeri dello Sviluppo, all’epoca si chiamava dell’Industria e quello dell’Università e della Ricerca. Ho predicato spesso nel deserto, comunque nel 1994, sono riuscito attraverso il C.N.I.M. e l’accordo dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici Merloni ad inserire nella legge generale sugli appalti il necessario piano di manutenzione per qualunque infrastruttura o struttura che lo Stato avrebbe realizzato nel nostro Paese. È vero che tutti i progettisti e tutti gli Enti devono ubbidire a quella legge, ma è anche vero che quella legge non prevedeva il finanziamento di questo piano e molti l’hanno adoperata solo come schermo per approvare i progetti.  Dopo la tragedia di Genova – va precisato che Morandi non ha nessuna colpa nella caduta di quel ponte -, la manutenzione è diventata parte integrante del progetto. Senza la manutenzione, le opere pubbliche non hanno senso. Il progetto di sistema, appena presentato, valorizza pienamente la manutenzione come uno dei percorsi essenziali da seguire per tutte le opere, specialmente quelle pubbliche e in particolare per i ponti, i viadotti, le gallerie, le autostrade e anche le ferrovie che attraversano le stesse strutture. Dal 2000 al 2004, il C.N.I.M. ha lavorato d’accordo con le Ferrovie dello Stato ed ha individuato il modo per risolvere quasi tutti i problemi dei viadotti grazie ad un algoritmo. Purtroppo, per strade ed autostrade, l’esempio del ponte sul Polcevera dimostra che le concessioni autostradali non hanno fatto una bella figura.

Tenga presente che con Morandi, dal 1961 a 1968, siamo stati compagni di stanza. Lui mi ha sempre spiegato che quel ponte era un suo capolavoro, ma sarebbe stato pericoloso superare i sei milioni di autoveicoli l’anno ed il superamento delle 25 tonnellate massime previste per i TIR. Limiti che sono stati superati abbondantemente. Basti pensare che al posto di sei milioni di autoveicoli, nell’ultimo anno,  sono transitati sul ponte Morandi 28 milioni di autoveicoli ed i carichi massimi sono stati spostati da 25 tonnellate a 44 tonnellate, l’equivalente del camion che è crollato con il ponte. In più, il progettista aveva sempre sostenuto che dopo 40 anni dalla costruzione del ponte dovevano essere sostituiti i ferri degli stralli. Nel 1993 venne effettuato un intervento in tal senso e tutto è andato bene. Per l’altra parte, trascorsi 51 anni, non essendo state praticate le prescritte azioni manutentive sappiamo benissimo cosa è accaduto. Questa è stata la carta decisiva con la quale hanno voluto distruggere il nome del grande progettista, ancora oggi è considerato uno dei primi al mondo. Speriamo che in futuro quel tragico evento nel quale hanno perso la vita 43 persone possa insegnare agli italiani che la costruzione di un ponte, di un viadotto sia ferroviario che stradale è una cosa seria e non la può realizzare né un Presidente del Consiglio, né un Ministero né una Commissione, ma è compito degli esperti veri, quelli che hanno una grande esperienza nella costruzione di ponti. Oggi mi sembra che tutti parlino senza sapere di cosa parlano». (fr)