Quella volta che Scalfari giunse a Vibo per la cittadinanza onoraria e tuonare contro la mafia

di GREGORIO CORIGLIANO – Il 10 ottobre del 1990 Eugenio Scalfari venne in Calabria, esattamente nella città dei suoi nonni e di suo padre, Vibo Valentia. Guardando tra i miei taccuini, ho trovato la copia dattiloscritta del servizio che avevo realizzato per tg3/Calabria. Non avrei potuto ricordare la data, evidentemente. Rileggendolo, mi è venuta in mente la serata al Valentianum, alla presenza di centinaia e centinaia di persone, compresi politici ed amministratori locali e lo stesso on. Giacomo Mancini che era amico di Scalfari, ma soprattutto compagno di partito, quella volta che l’allora direttore di Repubblica fece l’esperienza di parlamentare. Scalfari parlò dell’attualità politica da par suo ma soprattutto si volle concedere alle domande di cittadini e soprattutto di studenti, oltre che di giornalisti. Vi ripropongo il servizio per il telegiornale di allora, escluso l’intervista che è ben custodita nelle teche della sede Rai calabrese.

Direttore cosa fare per vincere la battaglia contro la mafia, come spezzare il rapporto perverso mafia-politica, a cosa affidare la speranza di riscatto dei calabresi onesti, quale futuro attende questa Regione devastata dal cancro mafioso, l’attuale sistema politico ci consente di superare questa fase di gravi difficoltà? Queste alcune delle domande che, soprattutto giovani del comprensorio, hanno posto ieri sera al direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, intervenuto al Valentianum per ricevere la cittadinanza onoraria del Comune di Vibo Valentia ma anche per relazionare sul tema “Mafia e società calabrese”. Ed a lui gli studenti in particolare si sono rivolti come se fosse il ministro dell’Interno se non il capo del Governo, attendendo risposte pressocchè risolutive, impegni concreti addirittura. E Scalfari, da cittadino onorario – suo nonno ed i suoi genitori erano di Vibo- ha risposto pacatamente ma con fermezza a tutte le domande, anche a quelle che sembravano più dure, più provocatorie, da grande giornalista, da intellettuale che vive intensamente e criticamente le vicende politiche, economiche sociali del Paese.

Condividendo lo spirito del convegno ha invitato i giovani, ma anche i numerosissimi convegnisti, politici, amministratori, uomini cultura, gente di cultura, gente comune a non fare della denuncia della mafia un rituale- tanto non costa nulla, ha detto- ma un impegno concreto nella vita di ogni giorno, per sconfiggere essenzialmente la cultura mafiosa, il vero grande ostacolo per lo sviluppo della Regione. In una Calabria nella quale non è cambiato nulla dalla mia ultima visita, ha aggiunto Scalfari, o se è cambiato è cambiato in peggio, la cultura mafiosa che trova alimento nella degenerazione dei partiti, tutti omologati, si combatte senza contattare i potenti, contestano di fatto il loro operato. Ed in un paese sempre più devastato dalla cultura mafiosa, ecco che sono nate le Leghe che Scalfari vede come forte forme di protesta all’attuale sistema dei partiti ed in Calabria la soluzione potrebbe essere la concentrazione elettorale – uniti contro la mafia- come segnale disperato contro le organizzazioni criminali che hanno ormai confiscato il potere legale. E la Stampa cosa può fare?

Null’altro che la denuncia, anche forte, perché si abbia consapevolezza piena di cosa accade specialmente al Sud. Per quanto mi riguarda, ha concluso Eugenio Scalfari, per la Calabria farò qualcosa di più, accanto alla denuncia forte, troverò il sistema per parlare anche di quanto di positivo c’è- e ne sono convinto- in questa regione.
Prima di Scalfari, erano intervenuti i promotori dell’iniziativa, amministratori comunali di Vibo, vecchi e nuovi, il professor di Bella dell’Università di Messina, allievi del padre del direttore di Repubblica. Infine il conferimento della cittadinanza onoraria a Scalfari da parte del sindaco di Vibo, Giuseppe de Giovanni. E qui l’illustre giornalista ha invitato i promotori a continuare con queste iniziative, non limitandole, però, solo alle denunce verbali. La prossima volta, ed io tornerò, fate denunce concrete, fate, per esempio –dati alla mano-i nomi di chi devasta le coste, di chi è proprietario di ville sul mare, di chi non osserva la legge.

Questo il testo integrale del servizio del 1990, trentatrè anni fa. Anni che non sembrano essere passati, sol che si pensi a quanto è accaduto e accade ancora. Ancora oggi si parla di denunce che non ci sono a sufficienza, di devastazione delle coste, di abusivismo edilizio. Repubblica le denunce le ha fatte, anche con l’allora inviato Pantaleone Sergi. La cosa che Scalfari non ha mantenuto: il suo ritorno a Vibo. (gc)

IL RICORDO / Giuseppe Smorto: Quell’apologo di Eugenio Scalfari nei primi anni ’90

di GIUSEPPE SMORTO  – Il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, è mancato a 98 anni Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. In pochi hanno ricordato la sua calabresità (mi vengono in mente Peppe Baldessarro, Pietro Comito, Gilberto Floriani): la terra degli avi emergeva ogni tanto nei suoi libri e nei suoi scritti, per lui era spesso amore verso il nonno di cui portava il nome, professore di ginnasio e uomo di cultura.
Mi fa piacere quindi raccontare una specie di apologo che lui destinò alla riunione del mattino riservata ai Capi redattori, nei giorni fantastici della sede di Piazza Indipendenza, primi anni ‘90. Era quello l’appuntamento delle 10,30 (nella foto l’ultima riunione, data probabile 4 maggio ‘96 ) con una lezione di giornalismo, un momento impareggiabile di risate, cazziate furibonde, telefonate in viva voce, sigarette, caffè: per un breve periodo arrivarono anche pizze e tramezzini, ma durò poco, perché distraevano.
Successe un giorno che Repubblica intervistò un leader democristiano di cui per fortuna non ricordo il nome. Uno che aveva fatto il prezioso prima di rilasciare l’intervista, uno che si era negato a lungo.
Nella prima parte della riunione, Scalfari commentava il giornale in edicola pagina per pagina, per poi passare al timone del giorno dopo. Quella mattina, davanti all’inutile spazio dedicato al politico DC si piantò.
“Ora – disse – devo raccontarvi un fatto successo al paese paterno, Vibo Valentia. Ma, scusatemi tanto, devo usare anche il dialetto calabrese”.
Sottovoce mi rallegrai, pronto a tradurre ai vicini di posto. La platea, composta da una ventina di canaglie, intellettuali, supponenti sbracati di ogni età, ex cronisti di strada, ex comunisti, ex gruppettari, ex tutto, stagisti curiosi, redattori liberi di intervenire, uomini e donne uniti da una comune euforia per il momento d’oro del giornale e convinti di avere il mondo in mano, fece silenzio.
E Scalfari raccontò.
“C’era una volta al mio paese un bambino che non parlava. Lo portarono da tutti gli specialisti, anche quelli di Messina.
Ma lui niente. Gli anni passavano, e lui si esprimeva solo attraverso semplici versi gutturali, facevano quasi paura.
La madre, disperata, andò a chiedere la grazia a San Francesco da Paola. Invano. La famiglia aveva perso le speranze.
(Nota mia: come ha raccontato qualche volta don Giacomo Panizza, a quei tempi i bambini disabili venivano nascosti). Una mattina, all’improvviso, la cittadina fu scossa da un urlo che arrivava dalla casa del bambino.
Parrau!
L’urlo si moltiplicò per i vicoli, raggiunse il corso, il Comune, i belvedere e i bar. U’ figghiolu parrau. Il bambino finalmente aveva parlato.
Parrau! Parrau! E fu giubilo, brindisi, preghiere di ringraziamento che si moltiplicarono per i vicoli, il Corso, i belvedere e i bar.
Ma poi una domanda collettiva rimbalzò, fino a tornare verso la casa e la famiglia che era passata dalla tristezza più nera alla felicità.
Parrau parrau, e c’dissi? Si fece silenzio di nuovo. C’ dissi?
Dalla felicità si passò all’imbarazzo, fino a quando il padre prese coraggio e urlò parrau, parrau.
I’ dissi “cazzu”.
Scalfari dedicò così il racconto al politico che aveva rilasciato l’intervista senza dire nulla di significativo. E io oggi lo dedico a me stesso e a tutti quelli che spesso – sui social, ma anche sui giornali – pur di dire qualcosa dicono “cazzu”.
Buon anno allora ai nostri maestri ovunque essi siano (ciao Mario, salutami Gianni, non litigate troppo su Mourinho).
Sono nuvole che accompagnano i nostri passi, che poi è un verso di una canzone del caro Peppe Voltarelli. Sono dentro di noi. (gs)