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IL RICORDO / Giuseppe Smorto: Quell'apologo di Eugenio Scalfari nei primi anni '90

IL RICORDO / Giuseppe Smorto: Quell’apologo di Eugenio Scalfari nei primi anni ’90

di GIUSEPPE SMORTO  – Il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, è mancato a 98 anni Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. In pochi hanno ricordato la sua calabresità (mi vengono in mente Peppe Baldessarro, Pietro Comito, Gilberto Floriani): la terra degli avi emergeva ogni tanto nei suoi libri e nei suoi scritti, per lui era spesso amore verso il nonno di cui portava il nome, professore di ginnasio e uomo di cultura.
Mi fa piacere quindi raccontare una specie di apologo che lui destinò alla riunione del mattino riservata ai Capi redattori, nei giorni fantastici della sede di Piazza Indipendenza, primi anni ‘90. Era quello l’appuntamento delle 10,30 (nella foto l’ultima riunione, data probabile 4 maggio ‘96 ) con una lezione di giornalismo, un momento impareggiabile di risate, cazziate furibonde, telefonate in viva voce, sigarette, caffè: per un breve periodo arrivarono anche pizze e tramezzini, ma durò poco, perché distraevano.
Successe un giorno che Repubblica intervistò un leader democristiano di cui per fortuna non ricordo il nome. Uno che aveva fatto il prezioso prima di rilasciare l’intervista, uno che si era negato a lungo.
Nella prima parte della riunione, Scalfari commentava il giornale in edicola pagina per pagina, per poi passare al timone del giorno dopo. Quella mattina, davanti all’inutile spazio dedicato al politico DC si piantò.
“Ora – disse – devo raccontarvi un fatto successo al paese paterno, Vibo Valentia. Ma, scusatemi tanto, devo usare anche il dialetto calabrese”.
Sottovoce mi rallegrai, pronto a tradurre ai vicini di posto. La platea, composta da una ventina di canaglie, intellettuali, supponenti sbracati di ogni età, ex cronisti di strada, ex comunisti, ex gruppettari, ex tutto, stagisti curiosi, redattori liberi di intervenire, uomini e donne uniti da una comune euforia per il momento d’oro del giornale e convinti di avere il mondo in mano, fece silenzio.
E Scalfari raccontò.
“C’era una volta al mio paese un bambino che non parlava. Lo portarono da tutti gli specialisti, anche quelli di Messina.
Ma lui niente. Gli anni passavano, e lui si esprimeva solo attraverso semplici versi gutturali, facevano quasi paura.
La madre, disperata, andò a chiedere la grazia a San Francesco da Paola. Invano. La famiglia aveva perso le speranze.
(Nota mia: come ha raccontato qualche volta don Giacomo Panizza, a quei tempi i bambini disabili venivano nascosti). Una mattina, all’improvviso, la cittadina fu scossa da un urlo che arrivava dalla casa del bambino.
Parrau!
L’urlo si moltiplicò per i vicoli, raggiunse il corso, il Comune, i belvedere e i bar. U’ figghiolu parrau. Il bambino finalmente aveva parlato.
Parrau! Parrau! E fu giubilo, brindisi, preghiere di ringraziamento che si moltiplicarono per i vicoli, il Corso, i belvedere e i bar.
Ma poi una domanda collettiva rimbalzò, fino a tornare verso la casa e la famiglia che era passata dalla tristezza più nera alla felicità.
Parrau parrau, e c’dissi? Si fece silenzio di nuovo. C’ dissi?
Dalla felicità si passò all’imbarazzo, fino a quando il padre prese coraggio e urlò parrau, parrau.
I’ dissi “cazzu”.
Scalfari dedicò così il racconto al politico che aveva rilasciato l’intervista senza dire nulla di significativo. E io oggi lo dedico a me stesso e a tutti quelli che spesso – sui social, ma anche sui giornali – pur di dire qualcosa dicono “cazzu”.
Buon anno allora ai nostri maestri ovunque essi siano (ciao Mario, salutami Gianni, non litigate troppo su Mourinho).
Sono nuvole che accompagnano i nostri passi, che poi è un verso di una canzone del caro Peppe Voltarelli. Sono dentro di noi. (gs)