L’opinione controcorrente di Raffaele Malito: la malapolitica e lo sciacallaggio su Renzi

di RAFFAELE MALITO – È in pieno corso, contro Matteo Renzi, un attacco feroce, un vero e proprio disegno di annientamento infarcito di odio e di intimidazione, non nuovo, del resto, nella storia d’Italia, quando si è trattato di mettere fuori gioco un leader politico che esercita un ruolo determinante nella scena politica e nel rapporto con  le altre formazioni partitiche. Tutto questo appare lampante nell’atteggiamento che hanno assunto alcuni attori del sistema mediatico. Un punto estremo si è toccato nella trasmissione, condotta con una ostilità incontrollata e incontrollabile, assolutamente indecente, dall’ex-giornalista Rai Lilli Gruber a Otto e mezzo, su la 7,  insieme con il massimo esemplare del giornalismo manettaro e di parte, Marco Travaglio, e il supponente columnist, meno truce ma facinoroso, direttore della Stampa, Massimo Giannini.  Di fronte ai tre giustizieri, proprio Matteo Renzi, accusato di ogni nefandezza politica e morale. Il leader di Italia Viva si è difeso, quando gli hanno consentito di poter parlare e di rispondere alle accuse, sottolineando lo sciacallaggio e l’hackeraggio di Stato cui è sottoposto con l’inchiesta Open e con la rivelazione e pubblicazione (ovviamente, dal giornale di Travaglio) del conto bancario, definita una barbarie giustizialista dal cofondatore di FdI, Guido Crosetto, di certo non un sodale di Renzi. Ha rivendicato, poi, il merito di aver mandato a casa Conte e di aver contribuito decisamente ad affidare l’Italia nelle mani sicure di Draghi. Un motivo in più per l’odio che gli è stato scatenato contro.

Ebbene gli atti dei conti bancari non sono stati mai chiesti né al Senato, dove Renzi siede, né alla sua banca, né in Banca d’Italia. Come sono arrivati a fare parte del fascicolo (94 mila pagine) dell’inchiesta Open? A questa domanda nessuno finora ha risposto. Diversamente dai  tre giornalisti giustizieri e  giustizialisti, Mattia Feltri, direttore di Huffington Post, ha scritto: “mi sembra  molto allarmante, per una democrazia che si ritenga tale, se sono consentite certe intrusioni, a scopo di pubblicazione, nel segreto postale e bancario di un senatore della Repubblica e mi sembra sommamente allarmante che il Parlamento non abbia da ridire. Traduco così: lo sfregio  al senatore Renzi è soddisfacente abbastanza da far trascurare lo sfregio all’istituzione”.  Una dettagliata cronistoria su sette anni di indagini delle procure su Renzi, genitori e suoi sostenitori, l‘ha fatta il Foglio facendo emergere i dati inconfutabili di un’autentica persecuzione giudiziaria collegata a chiari disegni politici. In un ritorno in Tv, ancora un altro confronto sul tema, questa volta più civile, con il sapore di una riparazione delle nefandezze della trasmissione condotta, qualche giorno prima, da Lilli Gruber, il filosofo Umberto Galimberti ha detto, con estrema chiarezza, che Renzi è una vittima, un capro espiatorio di un complesso disegno politico-giudiziario che non ha bisogno di ulteriori e nuove prove. In realtà, la legge sulla presunzione d’innocenza ha aperto le  porte alla civiltà giuridica: ma non basterà a dare il senso di comunità a un Paese di settari, nessuna legge potrà cancellare l’odio in un Paese di odiatori, dedito  alla presunzione di colpevolezza con cui alimentare la faida quotidiana.

Istituzioni,dunque, fragili e deboli,  e democrazia avvitata nella sua scarsa capacità di dare certezze nelle  decisioni di governo: su questa grande questione ha scritto, con la consueta profondità di analisi, il politologo Angelo Panebianco con un riferimento diretto al ruolo di straordinaria innovazione (almeno tentata!) del sistema politico e istituzionale del nostro Paese, incarnato da Renzi.  “Il momento di non ritorno – scrive Panebianco – il momento in cui si aggrava l’avvitamento della democrazia italiana, risale a cinque anni fa, al risultato del referendum costituzionale del 2016. Quel referendum fu, da un lato, la dimostrazione di qualcosa che già c’era e, dall’altra, la causa di ciò che è venuto dopo. Fu una dimostrazione  dello scarso interesse generale per il funzionamento delle istituzioni della democrazia. Tolte due minoranze – osserva Panebianco – (quelli che, con il sì, volevano superare la democrazia assembleare, e quelli che con il no volevano difendere la Costituzione nata dalla Resistenza), per tutti gli altri fu soltanto un referendum a favore o contro Matteo Renzi.  Con scarso interesse per la posta in gioco.

Ma quel referendum – conclude Panebianco – fu anche causa di molto che è accaduto dopo: seppellendo definitivamente qualunque velleità di riforma delle istituzioni, ci ha lasciato disarmati. Per il momento, il problema del malfunzionamento delle  istituzioni, di governo e non, è stato nascosto sotto il tappeto. Ma potrebbe esplodere a breve. La fragilità delle istituzioni mette sempre a rischio le democrazie”. Lo sconforto che appare in queste considerazioni del politologo  è un implicito riconoscimento dell’alto valore politico  e istituzionale attribuito a chi di questa grande sfida  innovatrice, rivoluzionaria, in  un certo senso, si era fatto guida e interprete.

Dello stesso circolo di odiatori e di settari di cui hanno dato prova i tre giustizieri di Otto e mezzo  si  è fatto parte integrante, sul Quotidiano del Sud, Filippo Veltri.  Il dato che mi ha sconcertato è la brutalità delle sue affermazioni. Ha attribuito  l’affossamento della legge Zan contro la omotransfobia e il disordine politico che ne è derivato , in particolare, per il fantomatico campo del centrosinistra, ovviamente, al doppio gioco di Renzi  che, al contrario, aveva detto chiaramente che senza una mediazione con le altre parti politiche, la legge non sarebbe passata. Un gioco chiaro e semplice, non doppio.

Cieco, arrogante e suicida è stato il comportamento di Enrico Letta che dovrebbe avere anche il buon senso di cercare, tra i franchi tiratori, più di uno dei suoi, presunti, affidabili sostenitori. Veltri si unisce al coro cantante dei moralisti che gridano allo scandalo  delle conferenze pagate nel mondo, all’oscura vicenda Open, che andrà finalmente a processo, alla diatriba con Conte sulla vicenda Benetton – non lo dice – conclusa con il pagamento, per responsabilità di Conte premier, di otto miliardi. Commovente la comprensione verso  Letta, “vittima,  anni fa,  di un disinvolto modo di far politica, senza principi e senza morale”.  Non vittima di se stesso, Letta che, ricordo, non faceva altro,  prigioniero di incapacità proprie e di altri a decidere alcunché, che rinviare a settembre. Fu il  Pd, in assemblea generale, a decidere di porre fine ai giri di valzer a vuoto e di cambiare il timoniere del governo. Questi sono i fatti.

Non è decente bollare Renzi come un volgare giocatore di poker, senza scrupoli e principi. Non è corretto un linguaggio tanto brutale per chiunque, inaccettabile per chi fa il giornalista. Un giornalista che immagina Renzi  che entra dal  sacro portone del Nazareno a bordo di una ruspa per trasformare il Pd in una terra di nessuno. Vorrei ricordare  che su quella ruspa c’erano un milione e 850 mila elettori che nel 2014 , con il 67%  dei voti, lo designarono segretario del Pd. Meno, ma comunque tanti, il 69%, lo rielessero segretario, per la seconda volta, nel 2017. Insomma una colossale abbacinazione di popolo  che, secondo Veltri, si sarebbe affidato, poco meno o poco più, a un avventuriero. I fatti dicono che Renzi, non provenendo dalla storia comunista, fu considerato, da subito, dai dirigenti custodi di quella cultura politica intessuta di egemonia, un autentico usurpatore e, dunque, bisognava fargli terra bruciata, come è avvenuto  di fronte al grande, decisivo referendum costituzionale, che lo avrebbe consegnato alla Storia. Renzi riformista, innovatore, contro corrente che, come è accaduto in un secolo di storia patria, paga e ha pagato, come altri grandi leader, soprattutto socialisti, il prezzo e l’ostracismo imposto dai massimalismi della sinistra: Turati, Matteotti, gradualisti e riformisti, che cercavano una via e un’intesa di alleanze per affrontare le drammatiche condizioni economiche e sociali  del dopoguerra, mentre si preparava la tragica avventura fascista; Pietro Nenni con  i socialisti che entrano nel governo di centro sinistra, additati, dall’Unità, nel ‘63, come traditori della classe operaia; Bettino Craxi che era riuscito, con il suo governo, a restituire prestigio internazionale all’Italia e a cambiare consolidate strutture economiche e sociali indiscutibili per i comunisti, abbattuto dalla rivoluzione giudiziaria, sostenuta dal sistema mediatico ubbidiente ai disegni dei comunisti, culminati nell’orrore del lancio  di monetine davanti all’Hotel  Raphael. È questo il filo nero che lega i fatti della nostra storia: quel che accade oggi è accaduto ieri.

E  così , le intricate temperie politiche –  tra tutte, la difficile partita dell’elezione del Presidente della Repubblica – che attendono il Pd e i suoi  illuminati dirigenti, a cominciare da Goffredo Bettini, suggeritore delle mirabolanti strategie per il campo largo con i Cinque  Stelle,  tornato dalla  Thailandia, per assistere Zingaretti e ora Letta, sono tutte  nella terra di nessuno. Liquidato Renzi  come inaffidabile, Calenda come arrogante, e, inconsistenti, tutti gli altri, protagonisti possibili di  un’area progressista e riformista, il fantomatico Ulivo dovrà essere coltivato con l’evanescente Conte, il rinsavito europeista Di Maio, l’erratico Grillo alla ricerca della lanterna magica che cambierà l’universo con l’aggregazione dei rappresentanti della vecchia ditta Bersani & Co. Il campo largo del centrosinistra si è così ridotto a un campetto.  Potrebbe capitare che chi ha seminato vento, possa raccogliere tempesta. (lma)                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

 

 

Mattarella boccia le elezioni, sì a un governo istituzionale a guida Draghi

di SANTO STRATI – Sfuma completamente l’ipotesi Conte Ter e si apre una strada in discesa per un governo istituzionale di altissimo profilo a guida di Mario Draghi. L’ex presidente della BCE ed ex governatore della Banca d’Italia, non sarà entusiasta, vista la sua riluttanza a entrare in politica, ma il suo senso dello Stato gli impedirà di negare il suo aiuto per la soluzione di una crisi che appare, a questo punto, davvero irreversibile. Mattarella lo ha convocato a mezzogiorno al Quirinale per affidargli l’incarico e difficilmente troverà un rifiuto. La storia si ripete: capitò con Ciampi (1993) che mise in piedi il primo governo guidato da un non parlamentare e preparò la sua strada al Quirinale. Un percorso che si attaglia perfettamente a Mario Draghi.

Il suo governo dovrà affrontare grandi sfide, ma l’appello del Presidente Mattarella alla responsabilità a tutte le forze politiche dovrebbe consentire un percorso quantomeno in discesa. Il Recovery Plan, già nella nuova bozza licenziata il 12 gennaio scorso continua a ignorare la Calabria: il nuovo governo dovrà porre rimedio per rispetto alle popolazioni del Mezzogiorno, ma soprattutto di una regione che non può restare a guardare l’ultimo treno che passa e che non ferma in alcuna delle sue stazioni. È presto per essere ottimisti sul Recovery, ma si può essere abbastanza ottimisti su come la soluzione “istituzionale” per la crisi di governo possa offrire la migliore via d’uscita alla situazione politica che rischia di ingessare irrimediabilmente il nostro Paese.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ieri sera, ha spiegato agli italiani, dopo il fallimento della missione esplorativa del presidente Fico, perché non si può andare a nuove elezioni. La soluzione più ovvia vista l’assenza di una maggioranza in grado di sostenere un governo, ma la pandemia, i rischi di incremento pesante di contagi (come è successo nei Paesi in cui si è votato, nonostante la crisi sanitaria) e soprattutto i tempi tecnici per ridare al Paese un governo in piena efficienza dopo il responso delle urne, non consentono di praticare questa via. Quindi, facendo appello a tutte le forze politiche, il presidente Mattarella ha sottolineato la necessità della nascita di un governo istituzionale, di altissimo profilo, in grado di gestire la crisi sanitaria, la campagna vaccinale e la crisi economico-finanziaria, ma soprattutto di rispettare l’improrogabile scadenza del Recovery Plan che va presentato entro aprile all’Europa. Con il rischio più che evidente di mancare questa straordinaria opportunità che l’Europa ci offre, in termini di aiuti monetari, per ricostruire, rimettere in piedi l’economia, ripartire.

L’opzione governo istituzionale (ovvero tecnico con la partecipazione di esponenti di tutti i partiti dell’arco costituzionale) il presidente Mattarella l’aveva messa da conto, proprio in considerazione dell’impossibilità di poter pensare al ricorso alle urne. Un’elezione politica significa contatti, comizi, inevitabili assembramenti. E poi il ricorso alle urne ha una tempistica che l’Italia in questo momento non si può permettere: Mattarella ha ricordato che nel 2013 ci vollero quattro mesi prima che il governo nato dalle urne prendesse pieno potere, addirittura cinque mesi quello del 2018. Non ce lo possiamo permettere – ha detto praticamente Mattarella – abbiamo bisogno di un governo che non svolga solo ordinaria amministrazione, ma sia nella pienezza dei poteri per affrontare i grandi problemi da risolvere: pandemia, crisi economica, welfare e aiuto ad una società di nuovi poveri in continua ascesa.

Chiuso definitivamente il capitolo elezioni anticipate, giacché nessuno può immaginare di mettere in discussione le solidissime argomentazioni del Presidente, si deve pensare, adesso, a fare in fretta. Dove non trova spazio la logica da manuale Cencelli della prima Repubblica e dove le “poltrone” non vengono assegnate in base al peso della formazione di appartenenza. Servono tecnici e personalità competenti, di alto profilo morale ma anche di grande capacità operativa. Il modello di riferimento c’è, la Große Koalition, la grande coalizione, che la cancelliera Merkel nel 2005 riuscì a mettere insieme, dopo le elezioni tedesche che non avevano prodotto una maggioranza in grado di dar vita a un esecutivo. Un modello, in piccolo, tentato anche da Enrico Letta defenestrato poi dallo stesso Renzi che ha provocato la crisi odierna. Una crisi inspiegabile se non si considera la disperata esigenza di visibilità dell’ex presidente del Consiglio: ha vinto la prima mano, nel senso che ha ottenuto il quarto d’ora di notorietà che aveva perduto, ma s’è giocato il banco, attirandosi l’ira degli italiani, giustamente indignati di fronte al mercatino delle poltrone che indecorosamente la politica ha offerto nelle ultime 48 ore. Serve il ritorno alla serietà, alla dignità della politica, ne abbiamo bisogno tutti. E Draghi è l’unica risposta. (s)

Piccoli sussulti sul Ponte e lo Stretto strategico.
I partiti del «No» mostrano di volerci ripensare

È bastato un piccolo accenno nell’intervista di ieri del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini sul Corriere della Sera e si sono riaccesi subito le lampadine nelle teste pensanti dei partiti che avevano opposto un irrinunciabile «No» al progetto del Ponte sullo Stretto. Nell’intervista a Monica Guerzoni, ieri Franceschini aveva parlato di alta velocità e piano per i borghi, quali mosse per il turismo al Sud e quando la giornalista gli ha fatto notare che «le strade del Sud sono lastricate di belle promesse», il ministro ha ribattuto con le sue tre priorità: il fondo strategico per il turismo, previsto nel decreto Rilancio, un piano di recupero e rilancio dei borghi, e infine, la più importante, le infrastrutture. «Io penso – ha dichiarato Franceschini – a un grande investimento sulla mobilità. Non è possibile e giusto che l’alta velocità si fermi a Salerno. Sulla traccia di quello che la ministra De Micheli ha iniziato a fare, ora che le risorse ci sono bisogna avere il coraggio di immaginare due grandi scelte. Da un lato l’alta velocità che arriva in Sicilia, fino a Catania e Palermo… – la giornalista lo ferma con una domanda: “Il suo progetto prevede il Ponte?” –  Beh – replica Franceschini –, i treni ad alta velocità dovranno pur attraversare lo Stretto. Ma andranno visti costi e benefici di tutte le soluzioni alternative».

Fin qui il ministro. Anche Matteo Renzi, nel suo nuovo libro La mossa del cavallo è tornato a parlare del ponte non più in senso negativo: «Per vincere la sfida della povertà serve più il ponte sullo Stretto che il reddito di emergenza» – ha scritto l’ex premier. Nel 2012 quando era sindaco di Firenze Renzi si era opposto alla realizzazione del Ponte: “otto miliardi? meglio darli alle scuole per renderle più moderne e sicure”, poi cambiare di nuovo opinione da presidente del Consiglio “il Ponte utile per tornare ad avere una Sicilia più vicina e raggiungibile e per togliere la Calabria dall’isolamento”, scontrandosi però con buona parte del centrosinistra che si dichiarava contrario all’opera. A sostegno del progetto, ora, il suo capogruppo alla Camera Ettore Rosato (Italia Viva) ha parlato del Ponte come di un’opera «che in altri Paesi sarebbe stata già realizzata. Abbiamo la necessità di rendere le imprese del Sud competitive, per questo l’opera va pensata insieme al riammodernamento della rete viaria e ferroviaria. Crescita economica è riformismo, riformismo è coraggio. Ci vuole il coraggio delle scelte politiche». C’è quindi un nuovo atteggiamento, quasi un ripensamento da parte del centrosinistra e dei partiti che hanno osteggiato a spada tratta qualsiasi ipotesi di collegamento fisso tra Calabria e Sicilia. Certo, sono piccoli sussulti, non è il “terremoto” che servirebbe a rivoluzionare tutti i progetti strategici intorno all’area dello Stretto, ma è significativo questo mutamento nell’atteggiamento intransigente di chi aveva detto risolutivamente «No». Le grandi risorse da destinare alle infrastrutture del Sud sono decisamente un’opportunità che Governo e partiti non dovrebbero lasciarsi scappare e in tale contesto il progetto del Ponte è il presupposto per lasciare immaginare un cambiamento di strategia.

La presidente Jole Santelli ha dichiarato di star seguendo «con grande attenzione il dibattito nazionale sulla eventuale realizzazione del Ponte sullo Stretto. La mia posizione non è mai cambiata nel corso degli anni: sono favorevole alla costruzione di una straordinaria infrastruttura pubblica, che – oltre a dimostrare al mondo le grandi capacità progettuali e ingegneristiche del nostro Paese e a collegare, finalmente in modo efficiente, la Calabria e la Sicilia – avrebbe il merito di ridare fiato all’economia nazionale in un momento di grave crisi e di creare migliaia di nuovi posti di lavoro. La domanda che tutti dobbiamo porci non è se realizzare o meno il Ponte sullo Stretto, ma questa: se non ora, quando?»

Mostra soddisfazione e contentezza il sen. Marco Siclari (FI): «Dopo che è stata completata la Salerno Reggio Calabria, – ha detto – che sono iniziati i lavori del macro lotto della SS 106, manca la più importante opera strategica per il rilancio del Sud: il Ponte sullo Stretto. Oggi, per la prima volta nella storia, abbiamo oltre al centrodestra, importanti esponenti della maggioranza di Governo che, negli ultimi giorni, si sono dichiarati favorevoli: sia il Ministro Franceschini che Matteo Renzi così come i sindaci delle due sponde interessate al progetto ed i governatori delle due regioni Calabria e Sicilia. Si tratta di un’occasione politica storica che non può essere persa soprattutto in vista dei fondi europei».

Siclari ha evidenziato come «L’opera strategica, pensata dal centrodestra, serve a collegare il Mediterraneo e le regioni del Sud Italia, con l’Europa e può rappresentare un volano economico di sviluppo, del territorio e del turismo, per tutto il Sud oltre all’indotto che si crea in tutte le aree interessate per la sua realizzazione ed il grande potenziale occupazionale che serve ai cittadini del sud. Per queste ragioni il DL Rilancio deve prevedere, anche, il Ponte sullo Stretto perché con esso nascerà anche l’alta capacità ferroviaria che collegherà tutti i porti della Sicilia, della Calabria, della Campania e della Puglia ecc. con il resto dell’Europa. Anche il Porto di Gioia Tauro potrà sviluppare tutto il suo enorme potenziale che oggi, nonostante gli sforzi, non può utilizzare. Sono convinto che per rilanciare il Paese, soprattuto in una fase di profonda crisi occupazionale ed economica è necessaria una visione strategica unitaria a prescinderete dai colori politici». (s)

SIlvia Vono: da M5S a Italia Viva di Renzi. Ecco le ragioni dell’addio

La sen. Silvia Vono, eletta in Calabria con i Cinque Stelle al Senato, è passata al gruppo di Italia Viva con Matteo Renzi. La senatrice ha spiegato a Calabria.Live le ragioni della sua scelta. «La ragione principale – ha spiegato la sen. Vono – è che non c’è una vera organizzazione, non c’è una leadership, non c’è una vera guida. E quindi mi mi è sembrato opportuno, necessario per il rispetto ai cittadini italiani e per rispetto a me stessa passare, aderire al nuovo gruppo di Matteo Renzi, una persona che ha dimostrato di avere un’intelligenza e una lungimiranza politica».

Con il sen. Ernesto Magorno (ex Pd) e il deputato Nicola Carè (eletto nella circoscrizione estera per il Pd) sono ora tre i parlamentari che hanno aderito a Italia Viva. La prossima settimana – come annuncia la sen. Vono – il gruppo deciderà la posizione da tenere in occasione delle prossime elezioni regionali in Umbria, Emilia e Calabria. (rp)

Repubblica: Lucio Presta, da sovrano dei big dello spettacolo a nuovo guru renziano

Al cosentino Lucio Presta, manager delle star tv e dello spettacolo come Bonolis, Benigni, Paola Perego (sua moglie) e altri big, Repubblica dedica oggi un servizio a firma di Goffredo De Marchis che lo “incorona” come nuovo guru renziano, in salita nel rinnovato giglio magico di Italia Viva. Secondo il giornalista, Il rapporto tra Matteo Renzi e Presta, che risale a quando il leader politico era presidente della Provincia di Firenze, si è fatto più stretto negli ultimi tempi. «Fra i tanti – scrive De Marchis – anche Presta ha suggerito all’ex premier lo strappo dal Pd», ma gli replica l’interessato: «Ma io che c’entro con la politica? Tenetemi fuori, non è il mio mestiere, non do consigli a Matteo che poi non li ascolterebbe nemmeno. Perché è un numero uno, questo sì, un cane sciolto, un istintivo».

In realtà, Lucio Presta alla politica si era avvicinato candidandosi sindaco a Cosenza, la sua città natale. «Il PD – riferisce il giornalista di Repubblica – si è unito contro di me. Sono dovuto scappare. Con Renzi segretario, capisce?». «I due – scrive De Marchis – si piacciono molto. Sono affiatati, si cercano, si trovano… Sarà l’uomo che agisce nell’ombra per la comunicazione. Lo spin doctor che non ti aspetti».

Intanto la Leopolda di metà ottobre porterà la regia di Presta: «Audio, luci, riprese. Gestisco io l’evento, – dice Presta a Repubblica – ma questo è il mio lavoro».
«Dagli studi televisivi ai giochi del potere – conclude De Marchis – è un bel salto. Pericoloso anche per un ex ballerino. Presta sa dosare modi spicci e prudenza, ma senza il Pd di mezzo il suo ruolo cresce. “L’immagine è certo importante, quello è il mio settore. Non mi sognerei mai di diventare un consigliere politico”. Magari qualcosa di diverso, ma ugualmente centrale». (rrm)