Vertice dei presidenti delle Regioni del Sud uniti per equa distribuzione dei fondi del Recovery Plan

Calabria, Campania, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Sicilia uniti per «avanzare proposte e richieste in materia di Recovery Plan». Lo ha annunciato il presidente f.f. della Regione Calabria, Nino Spirlì, al termine del vertice con i presidenti Vincenzo De Luca (Campania), Vito Bardi (Basilicata), Michele Emiliano (Puglia), Donato Toma (Molise), Marco Marsilio (Abruzzo) e Nello Musumeci (Sicilia).

«C’è la necessità – ha spiegato – di suddividere in modo equo le quote relative agli interventi, tenendo in considerazione il fatto che le regioni del Mezzogiorno hanno urgenze che non rimangono all’interno dei loro confini, ma riguardano l’organizzazione dell’intero continente, dal momento che si tratta di progetti strategici che interessano l’Europa, come, ad esempio, il Ponte sullo Stretto».

Durante l’incontro, i presidenti delle Regioni meridionali hanno anche parlato del raddoppio della linea ferroviaria Reggio Calabria-Bari e dell’alta velocità Reggio Calabria-Salerno, «due progetti  ha commentato Spirlì – che, insieme, consentirebbero la libera circolazione, in chiave moderna, delle persone in Europa».Attenzione anche sul porto di Gioia Tauro, «che è stato – dice ancora il presidente calabrese – completamente dimenticato dal ministro Paola De Micheli, malgrado non sia lo scalo di un piccolo comune della Calabria, ma il porto più importante del Mediterraneo e tra i più strategici d’Europa».

«Le proposte della Calabria, unite a quelle degli altri presidenti – ha concluso Spirlì –, andranno a formare un pacchetto di richieste precise al Governo nazionale, il quale, troppo spesso, così come quelli che lo hanno preceduto, dimentica le regioni del Sud privilegiando, a volte, nessuno». (rcz)

Orlandino Greco (Idm): Il Sud rinasce se rinascono i partiti politici

Il segretario federale di Italia del MeridioneOrlandino Greco, ha dichiarato che «è, ormai, evidente il vulnus democratico nel quale versa la Calabria ed il Paese intero».

«Da tangentopoli ad oggi – ha aggiunto – lo svuotamento dei partiti novecenteschi, rispetto ai quali ne è rimasta soltanto una parvenza ideologica, ha comportato la nascita di quelli che i sociologi americani definiscono “Cartel Party”, ossia comitati elettorali che si riuniscono e favoriscono la partecipazione solo durante gli appuntamenti del voto, salvo poi concentrarsi sull’attività amministrativa ed istituzionale degli eletti».

«Un concetto di militanza diametralmente opposto – ha proseguito – rispetto a quanto conosciuto nelle vecchie scuole di partito, vere fucine di classi dirigenti consapevoli della loro mission e delle istanze da difendere. Gli effetti di questo nuovo modo di concepire l’impegno politico hanno segnato la storia della nostra Repubblica dagli anni ‘90 fino ai giorni nostri. Il primo di questi è stato la personalizzazione dello scontro politico e l’incarnazione dei partiti (e il destino) nella figura del leader, il quale intrattiene un rapporto diretto con gli elettori, quasi come se la collegialità nelle scelte, tipica dei partiti di massa, fosse suffragata dal consenso della cosiddetta società civile, rimuovendo lungaggini burocratiche e svilendo il ruolo della mediazione tra classi dirigenti. In questo contesto, allo svuotamento dei corpi intermedi ha fatto seguito un continuo assalto al Parlamento e al suo potere legislativo, in quanto percepito come causa ostativa dell’iniziativa politica dei leader (molto meglio definirli capi carismatici), non solo mediante tentativi di instaurare un sistema bipartitico, contrario ai precetti costituzionali della rappresentanza delle minoranze, ma anche attraverso leggi elettorali iper-maggioritarie che cooptano in sostanza la deputazione, vincolando il mandato elettorale dei parlamentari alla fedeltà verso il segretario del proprio partito (spesso coincidente, a differenza del passato, con la presenza del segretario stesso in Parlamento)».

«Venuto meno, dunque, – ha detto ancora Orlandino Greco – quell’alto senso delle Istituzioni tipico di chi, facendo militanza, magari amministrando la cosa pubblica, ha portato, nella continua mediaticità dello scontro politico, alla demonizzazione non solo degli avversari stessi ma anche del concetto di interesse in politica, come se ogni istanza proveniente dai partiti coincidesse con interessi propri o a beneficio di una cerchia ristretta di persone, a scapito del bene comune».

«È ormai giunta l’ora – ha evidenziato il segretario federale di Italia del Meridione – affinché si scongiurino guerre fratricide e si perda definitivamente il senso di comunità, di tracciare un bilancio della storia. Quella del Mezzogiorno è da sempre una storia fatta di comunità, solidarietà e responsabilità sociale, dimostrata anche nell’ultima emergenza pandemica. Una tenuta sociale che anche a queste latitudini rischia di venir meno perché la disperazione è tanta. Forte è il disagio sociale, frutto di una disoccupazione e di una migrazione ai massimi storici ed un ceto politico subalterno alle politiche centraliste delle segreterie romane».

«Urge, dunque – ha ribadito – un ritorno alla politica e ai luoghi della politica, capaci di selezionare la migliore classe dirigente ed esaltandone la militanza e la competenza fuori da ogni schema ideologico. Non è più tollerabile un impegno politico tutto incentrato al carrierismo e a chi la spari più grossa, non è concepibile che dopo le elezioni vi siano tribù, tifoserie e truppe cammellate che continuino ad incitare l’odio verso l’avversario politico, facendo venir meno non solo il rispetto verso la legittimità delle posizioni altrui ma fomentando un clima poco costruttivo in una normale dialettica tra maggioranza e minoranza che dovrebbe caratterizzare ogni consesso pubblico».

«Nel frattempo – ha detto ancora – una globalizzazione sempre più sregolata ha fatto sì che realmente le nicchie di potere assumessero rendite di posizione indipendenti dalla politica stessa, mentre i bisogni reali della gente rimanessero inascoltati o mal risolti da una classe politica ormai concentrata a parlare su se stessa e per se stessa.  Promesse roboanti, rinnovamento anagrafico magari senza nessuna esperienza, stravolgimento dell’esistente, tesi spesso non confermate dai fatti perché figlie di riflessioni non approfondite, il cosiddetto pensiero breve che viaggia alla velocità di un tweet, hanno determinato la fine dei partiti politici come laboratori di idee, quelli che soprattutto al Sud creavano coscienza civile e comunità sociali, radicati nella società come corpi intermedi tra le istanze dal basso e il potere legislativo, capaci di formulare programmi di lunga visione, attraverso concezioni ideali, politiche e studio».

«Mezzogiorno, sanità, scuola, welfare, sviluppo economico e perfino il Recovery Fund – ha detto – sono ormai merce di scambio per qualche manciata di voto in più nei sondaggi. Temi che, a causa della mala politica, rischiano di far sprofondare il Paese nel baratro se non affrontati nella giusta maniera. Tutto questo perché le scelte fatte non sono basate su convinzioni così solide da essere aperte al compromesso e al contributo di tutti, anche di chi la pensa diversamente ma in modo costruttivo».

«C’è bisogno – ha concluso – di una reale presa di coscienza da parte di tutti: un nuovo modello partecipato di democrazia, che guardi al futuro senza perdere di vista le buone prassi della mediazione e mai del compromesso, della concertazione e della selezione di classi dirigenti figlie di militanza, conoscenza e competenza. Un nuovo modello di partecipazione slegato da ciò che piace ai sondaggisti ma legato a ciò che serve al Paese, che non sia solo legata al momento elettorale ma che, al contrario, valorizzi il pluralismo delle vocazioni territoriali degli interessi delle comunità». (rrm)

Biondo (Uil Calabria): Il Governo vuole assegnare al Sud solo 68 miliardi del Recovery Fund

Santo Biondo, segretario generale della Uil Calabria, ha denunciato l’intenzione, da parte del Governo Conte, di destinare al Sud solo 68 miliardi, di cui 23 recuperati dal Fondo Sviluppo e Coesione, del Recovery Fund, quando la Commissione Europea, dei 209 miliardi destinati all’Italia, 111 erano stati assegnati per la ripartenza del Mezzogiorno.

«Nella gazzarra parlamentare e nella mancanza di trasparenza da parte del Governo – ha detto Biondo – aspetti che stanno caratterizzando l’assurda discussione che la politica sta portando avanti sul Recovery plan, a farne le spese probabilmente sarà la ripresa, post pandemia, del Mezzogiorno e della Calabria. A causa di questo trambusto mediatico, che in parte sta andato in scena in Parlamento, sta sfuggendo l’attenzione sul fatto che, nel Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, oltre a mancare i progetti e una visione di Paese, mancano anche le risorse economiche per spingere la convergenza del Sud».

«Si continua, quindi – ha detto ancora – a sacrificare il Sud e la Calabria, nella distribuzione della spesa pubblica nazionale.  La deputazione parlamentare e la politica calabrese, battano un colpo, per provare a dare alla discussione sul Recovery plan, idee e proposte e, soprattutto, una direzione che aiuti a costruire nella nostra regione l’uscita da una crisi che ormai è divenuta strutturale». (rrm)

Fiscalità di vantaggio, Sofo (Lega): per le infrastrutture solo briciole

L’europarlamentare della Lega, Vincenzo Sofo, accoglie positivamente l’entrata in vigore, a partire da oggi, della fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud, sottolineando come «gli sgravi fiscali proposti sono una buona base di partenza e concordo anche con l’idea di destinare il 34% del Recovery al Meridione, che pur essendo stata l’area meno colpita dalla crisi sanitaria sarà quella che soffrirà di più le conseguenze economiche».

«Peccato – ha aggiunto – che proprio dalla lista di progetti da presentare per il Next Generation Eu il Governo abbia riservato briciole agli investimenti per le infrastrutture dei territori meridionali. Lo sviluppo infrastrutturale del Sud è imprescindibile per consentire alle aziende di investire e commerciare e dunque a questa area di rilanciarsi, creando quelle opportunità di lavoro che sono il fulcro della misura economica».

«Senza adeguati investimenti in strade, ferrovie, porti e aeroporti – ha concluso – il Governo lascerà il Sud zoppo vanificando anche le buone intenzioni della fiscalità di vantaggio».

Per il presidente di Confindustria CosenzaFortunato Amarelli, «poter contare su una fiscalità di vantaggio a favore della creazione di nuove opportunità di lavoro è un dato certamente positivo», e saluta con favore «l’entrata in vigore, a partire da oggi, della misura che prevede un taglio del 30% nei contributi a carico dell’impresa per tutti i dipendenti la cui sede di lavoro si trovi in una regione meridionale».

«La fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud – ha dichiarato il presidente degli industriali cosentini Amarelli – crea le condizioni per pensare a rapporti di lavoro qualificati, stabili e duraturi, consente di pianificare scelte di investimento importanti per le imprese e di favorire l’occupazione in territori a ritardo di sviluppo. Il gap tra le diverse aree del Paese è sotto gli occhi di tutti e le conseguenze della pandemia da Covid-19 potrebbe acuirle. Come ha avuto modo di ribadire il presidente di Confindustria Carlo Bonomi in occasione dell’Assemblea nazionale, serve coesione sociale ed un impegno mirato e responsabile da parte di tutti per lavorare al progetto di rilancio del Paese».

«La misura straordinaria presentata dal Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano sulla fiscalità di vantaggio per il lavoro nel Mezzogiorno – ha spiegato Amarelli – nasce dalla constatazione che fare impresa a queste latitudini è più gravoso a causa dei deficit di produttività connessi ai mancati investimenti decisi dai Governi che si sono succeduti nel tempo».

«La priorità, quindi – ha aggiunto – è il rilancio degli investimenti pubblici e la creazione di nuovi posti di lavoro se si pensa che – secondo dati di Bankitalia – la disoccupazione nel Mezzogiorno coinvolge oltre il 18% della forza lavoro, pari a 1 milione e 400 mila persone, con un divario di 11 punti percentuali rispetto al Centro Nord. Una situazione ancora più grave tra i giovani con meno di 35 anni, una fascia d’età dove i senza lavoro arrivano quasi al 34%, 19 punti in più rispetto alle regioni settentrionali. In valori assoluti si stima che circa 1 milione e 700 mila giovani meridionali, oltre un terzo del totale, uno dei valori più alti d’Europa, non lavora né accumula conoscenze».

Per il numero uno di Confindustria Cosenza, Fortunato Amarelli «infrastrutture, scuola, salute, innovazione ed attrazione degli investimenti sono le macro direttrici che occorrerà seguire con cura anche in riferimento al Recovery Fund. Senza tentazioni egoistiche occorrerà tendere all’equilibrio socio economico del Paese come condizione necessaria per dare avvio ad una nuova stagione solida e duratura di crescita e di sviluppo». (rrm) 

C’È FISCALITÀ DI VANTAGGIO IN CALABRIA.
UN’OPPORTUNITÀ PER I NUOVI INVESTITORI

di ANTONIO AQUINO – Da alcuni mesi il tema di una “fiscalità di vantaggio” sembra essere tornato alla ribalta fra le politiche da perseguire per stimolare la crescita dell’occupazione e del reddito nelle regioni del Mezzogiorno. In una intervista su Repubblica del 26 luglio 2020, Fabio Panetta, componente del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, a proposito dell’utilizzo delle risorse che il Recovery fund ha riservato all’Italia, ha sollecitato il governo italiano a cogliere l’opportunità di utilizzare i fondi europei per modernizzare l’economia,  rendendola più rispettosa dell’ambiente, più digitale, più inclusiva,  attenuando le diseguaglianze con la crescita e il lavoro. Ha poi messo in evidenza come una sfida cruciale sia quella del Mezzogiorno, una economia in cui un terzo della popolazione ha un reddito pro-capite pari alla metà di quello del resto del Paese e intere regioni sono afflitte da disoccupazione diffusa e carenza di infrastrutture.

A proposito della possibilità di introdurre  una fiscalità di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno,  Panetta ha affermato che  si tratta di un obiettivo ambizioso, su cui in passato ha riflettuto con i colleghi della Banca d’Italia: «Un obiettivo da valutare in ambito sia nazionale sia europeo per le sue implicazioni sulla finanza pubblica e sulla concorrenza, che può essere di importanza fondamentale per rilanciare l’economia del Mezzogiorno». Dichiarazioni a sostegno della fiscalità di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno sono state rilasciate  dai principali esponenti del  Governo italiano, e alcune misure sono state introdotte nel decreto legge del 14 agosto 2020. Si ha, però, l’impressione che, per le modalità secondo cui essa sembra essere prefigurata nel decreto legge del 14 agosto e le dichiarazioni dei principali esponenti del Governo italiano (riduzione del corso del lavoro di circa il 10 per cento fra il 2021 e il 2025 e poi gradualmente decrescente fino ad annullarsi entro il 2030), difficilmente essa potrebbe avere un impatto significativo sulla crescita dell’occupazione e del reddito nelle regioni del Mezzogiorno. Per una crescita verso livelli fisiologici del tasso di occupazione nel Mezzogiorno le produzioni a mercato internazionale dovrebbero poter contare su una riduzione del costo del lavoro dell’ordine del 40 per cento garantita per almeno 20 anni. Per evitare che essa abbia un costo eccessivamente elevato per la finanza pubblica essa dovrebbe essere allora drasticamente selettiva; il decreto legge del 14 agosto sembra, invece, prefigurare una fiscalità di vantaggio sostanzialmente “a pioggia”, che comporterebbe una riduzione del tutto insufficiente del costo del lavoro e con un orizzonte temporale troppo breve.

L’articolo 27 del decreto legge 14 agosto 2020 n. 104 prevede che, previa autorizzazione della Commissione europea, al fine di  contenere gli effetti straordinari  sull’occupazione determinati dall’epidemia da COVID-19 in aree caratterizzate da gravi situazioni di disagio socio-economico e tutelare i livelli occupazionali, dal 1° ottobre al 31 dicembre 2020, sia riconosciuta ai datori di lavoro  privati, con esclusione del  settore agricolo e del lavoro domestico, per i dipendenti  la cui sede di lavoro è situata in regioni con un prodotto interno lordo pro capite inferiore al 90 per cento  della media EU27 e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale, un  esonero pari al 30 per cento dei  contributi previdenziali, con esclusione di quelli  spettanti all’Inail, con un onere complessivo per la finanza pubblica pari a circa 1,5 miliardi di euro. Secondo la relazione tecnica della Ragioneria generale dello Stato questa agevolazione contributiva  verrebbe applicata a poco più di tre milioni di lavoratori, con un monte retributivo mensile pari a poco meno di cinque miliardi di euro. La decontribuzione equivarrebbe quindi in media a circa il 10 per cento della retribuzione, e, in termini assoluti a circa 170 euro mensili per lavoratore. Per ogni cento abitanti, i  lavoratori beneficiari della decontribuzione sarebbero  circa 10 in Calabria, 12 in Sicilia, 14 in Molise, 15 in Sardegna, Campania e Puglia, 16 in Basilicata, 19 in Abruzzo e 20 in Umbria.

Il secondo comma dell’articolo 27 prevede ulteriori misure di decontribuzione per gli anni dal 2021 al 2029, di accompagnamento agli interventi di coesione territoriale del Piano Nazionale di ripresa e Resilienza e dei Piani Nazionali di Riforma, al fine di favorire la riduzione dei divari territoriali. La definizione delle  caratteristiche di queste future misure di agevolazione contributiva è rimandata a un decreto del Presidente del Consiglio del Ministri da adottarsi entro il 30 novembre 2020. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Ministro dell’Economia e delle finanze e dal Ministro per il Sud e la Coesione territoriale nella prima metà di agosto l’intenzione del Governo sembrerebbe essere di estendere sostanzialmente gli sgravi già decisi per gli ultimi tre mesi del 2020 fino al 2025, e di ridurli poi gradualmente fino ad azzerarli entro il 2030.

Si tratterebbe di una decontribuzione sostanzialmente “a pioggia”, essendo applicata a quasi tutti i lavoratori dipendenti da imprese private nelle regioni del Mezzogiorno e quindi necessariamente di una entità troppo modesta e per un periodo di tempo troppo breve per poter incidere significativamente sull’occupazione. Una decontribuzione settorialmente molto selettiva applicata in misura molto più forte e per un periodo di tempo molto più lungo potrebbe stimolare una crescita verso livelli fisiologici del tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno, senza oneri significativi, e probabilmente anzi con effetti positivi nel lungo periodo, per la finanza pubblica.

L’Italia presenta una diversificazione regionale dal punto di vista del tasso di occupazione  che non  sembra avere corrispondenza in nessun  altro paese industriale. Una differenza di quasi 30 punti percentuali è stato registrato nel 2018 nel tasso di occupazione  fra l’Emilia Romagna nel Nord dell’Italia (70) e Campania e Sicilia nel Mezzogiorno (41). Nelle altre regioni del Nord il tasso di occupazione, analogo a quello medio dei grandi paesi industriali, è soltanto di poco inferiore a quello dell’Emilia Romagna  (68 in Lombardia e Triveneto, 66 in  Piemonte). Tassi di occupazione soltanto di poco inferiori alla media delle regioni del Nord sono registrati dalla Toscana (67), da Umbria e Marche (65), e dalla provincia di Roma (64). Il tasso di occupazione scende verso valori intorno a 56 nelle altre province del Lazio (59 Rieti, 55 Latina e Viterbo, ma solo 48 nella provincia di Frosinone), e in tre regioni del Mezzogiorno settentrionale (58 in Abruzzo, 55 in Molise e 54 in Sardegna). Fra le altre regioni del Mezzogiorno, soltanto la Basilicata registra un tasso di occupazione, sia pur leggermente, superiore a 50, mentre il tasso di occupazione è in Puglia soltanto di un punto superiore alla media del Mezzogiorno (46). Queste differenze, rilevate per il 2018, sono rimaste, sia pur con oscillazioni, sostanzialmente invariate negli ultimi 30 anni secondo i dati della Banca d’Italia.

Oltre al bassissimo tasso di occupazione, le regioni del Mezzogiorno sono caratterizzate da forti flussi emigratori di  persone in età da lavoro, da un tasso di irregolarità del lavoro molto elevato (circa il doppio di quello, sostanzialmente fisiologico, delle regioni del Nord), da una domanda di lavoro proveniente pressoché esclusivamente da attività produttive a mercato esclusivamente locale e da una forte carenza di occupazione in attività produttive a mercato internazionale.

Principalmente in conseguenza del bassissimo tasso di occupazione, e in minor misura della minore produttività, il reddito per abitante prodotto nelle regioni del Mezzogiorno è in media circa la metà di quello delle regioni del Nord dell’Italia. Gli effetti sul reddito disponibile delle famiglie della minore produzione di reddito sono in misura significativa compensati in media da trasferimenti dal Nord dell’Italia che negli ani settanta e ottanta superavano il 20 per cento del prodotto interno lordo del Mezzogiorno e che, pur essendo diminuiti in misura significativa negli ultimi 30 anni, rappresentano ancora circa il 16 per cento del PIL del Mezzogiorno. Dal punto d vista degli equilibri complessivi di finanza pubblica, la forte carenza di occupazione, e quindi di produzione di reddito, nelle regioni del Mezzogiorno ha comportato una crescita fin verso livelli molto levati del debito pubblico italiano, nonostante elevati livelli di tassazione e significative restrizioni della spesa pubblica con effetti particolarmente negativi per la sanità e l’istruzione. Amartya Sen ha inoltre magistralmente messo in evidenza come la carenza di opportunità di lavoro abbia effetti negativi di natura anche non economica. La determinante fondamentale della forte carenza di occupazione è la carenza di competitività delle produzioni del Mezzogiorno. Nelle regioni del Mezzogiorno l’impatto sulla domanda di lavoro della finanza pubblica, misurato da spesa pubblica meno tassazione è fortemente espansivo, questo effetto espansivo è tuttavia più che compensato  da un valore estremamente basso di domanda di beni prodotti nel Mezzogiorno proveniente da altre regioni o paesi e da un valore molto elevato della quota del reddito disponibile nel Mezzogiorno speso nell’acquisto di beni prodotti in altre regioni e paesi.

Non essendo politicamente praticabile un aumento significativo dell’effetto espansivo della finanza pubblica,  l’unica via realisticamente perseguibile per stimolare  un forte aumento delle opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno sembra essere un forte aumento della competitività delle produzioni del Mezzogiorno esposte alla concorrenza internazionale, in modo da stimolare un forte aumento della domanda per i beni prodotti nel Mezzogiorno proveniente da altre regioni e paesi e una forte diminuzione della quota della domanda interna del Mezzogiorno rivolta a beni prodotti in altre regioni e paesi. Ciò può essere efficacemente perseguito concentrando la fiscalità di vantaggio sui beni a mercato internazionale, così da consentire con un lungo orizzonte temporale un drastica riduzione del costo del lavoro per le produzioni nel Mezzogiorno di beni a mercato internazionale, senza oneri rilevanti per la finanza pubblica. Mediante una fiscalità di vantaggio drasticamente selettiva ma molto forte e con un lungo orizzonte temporale sarebbe possibile innescare nelle regioni del Mezzogiorno un vigoroso processo di crescita dell’occupazione e del reddito trainato dalle esportazioni nette (Net exports led growth) in grado di avviare verso la normalità la relazione fra domanda e offerta di lavoro senza oneri rilevanti, e probabilmente con effetti nel lungo periodo addirittura positivi, per la finanza pubblica.

Circa tre milioni di posti di lavoro separano in complesso  le regioni del Mezzogiorno da un tasso di occupazione analogo a quello delle regioni del Nord dell’Italia, a sua volta sostanzialmente analogo a quello medio dei principali paesi industriali (fra 65 e 70 occupati per ogni cento persone in età da lavoro. Un aumento di occupazione di un tale ordine di grandezza potrebbe essere ottenuto stimolando un aumento dell’ordine di un milione di unità della domanda di lavoro per le attività produttive di beni a mercato internazionale localizzate nelle regioni del Mezzogiorno,  portando così l’occupazione in queste attività dalle attuali circa 800 mila unità verso quasi  due milioni di unità. Un aumento di occupazione di tale ordine di grandezza potrebbe essere stimolato da una  “svalutazione fiscale” tale da ridurre di circa il 40 per cento il costo del lavoro per le produzioni a mercato internazionale, mantenendo al contempo  le retribuzioni di chi lavora in queste imprese pienamene competitive rispetto a quelle ottenibili nelle produzioni a mercato esclusivamente locale, e in particolare nel pubblico impiego. Il reddito aggiuntivo prodotto in queste attività, ipotizzando un valore pari a 2 per il moltiplicatore keynesiano, potrebbe stimolare una domanda aggiuntiva di lavoro nelle attività produttive a mercato esclusivamente locale localizzate nelle regioni del Mezzogiorno dell’ordine di due milioni di unità. Il reddito aggiuntivo prodotto in queste attività potrebbe a sua volta generare entrate fiscali e contributive addizionali tali da più che compensare  gli iniziali sgravi fiscali e contributivi per le attività produttive di beni a mercato internazionale.

Soltanto per le produzioni di beni a mercato prevalentemente non locale una fiscalità di vantaggio volta  a ridurre il costo del lavoro  può stimolare un aumento significativo della domanda di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno. Ciò perché per queste produzioni una riduzione del costo del lavoro può determinare significativi spostamenti di domanda sia interna che esterna verso le produzioni localizzate nel Mezzogiorno. Per le produzioni a mercato esclusivamente locale, invece, la domanda di lavoro è determinata pressoché esclusivamente dalla dimensione della domanda locale. Per le produzioni di beni a mercato internazionale un forte aumento della domanda di lavoro richiede però un fiscalità di vantaggio così forte da determinare una riduzione del costo del lavoro tale da più che compensare la minore produttività in queste attività delle imprese localizzate nel Mezzogiorno; essa  inoltre dovrebbe diminuire molto gradualmente, soltanto nella misura in cui diminuisce il divario di produttività. A parità di onere per la finanza pubblica gli effetti di sgravi fiscali e contributivi sarebbero molto più forti se venissero concentrati selettivamente sulle produzioni localizzate nelle regioni del Mezzogiorno di beni a mercato internazionale (principalmente prodotti dell’industria manifatturiera e servizi informatici). Paradossalmente, una espansione significativa dell’occupazione nelle produzioni a mercato esclusivamente locale potrebbe essere determinato proprio dalla concentrazione degli sgravi contributivi nelle attività produttive esposte alla concorrenza esterna, per via dell’aumento di occupazione e reddito in queste attività, e quindi della domanda interna nel Mezzogiorno.

Dopo alcuni anni l’aumento di reddito generato nelle attività produttive a mercato internazionale determinerebbe ulteriori aumenti di reddito nelle produzioni a mercato locale e quindi aumenti delle entrate fiscali e contributive che potrebbero più che compensare nel lungo periodo le iniziali riduzioni di entrate fiscali e contributive. Un altro effetto positivo sarebbe rappresentato dagli aumenti di produttività stimolato dal fenomeno del “learning by doing”, particolarmente significativo in particolare nelle produzioni manifatturiere. Gli oneri delle iniziali riduzioni delle entrate fiscali e contributive possono essere in realtà considerati come spese per investimento in capitale umano, e in particolare in quel capitale umano la cui carenza è all’origine della carenza di opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno: le abilità e capacità necessarie per essere competitivi nella produzione di beni a mercato internazionale. Infine, l’aumento delle opportunità di lavoro potrà anche a stimolare un aumento del “capitale sociale” nelle regioni del Mezzogiorno, per i suoi effetti sulla fiducia nelle istituzioni, e rendere più efficaci le azioni di  contrasto alle attività illegali.

In sintesi, per avere un impatto significativo su occupazione e reddito nelle regioni del Mezzogiorno con un onere contenuto, o addirittura con effetti positivi nel lungo periodo, per la finanza pubblica, la riduzione degli oneri fiscali e contributivi dovrebbe: 1) essere applicata soltanto alle produzioni  a mercato internazionale, e in particolare alle attività manifatturiere; 2) determinare una riduzione del costo del lavoro per le imprese  di almeno il 40 per cento[7]; 3) essere credibilmente garantita alle imprese per almeno 20 anni, con una possibile graduale, lenta  riduzione negli anni successivi, man mano che diminuisce il divario di produttività fra Nord e Sud dell’Italia nelle produzioni a mercato internazionale.

Carlo Azeglio Ciampi, durante la sua Presidenza, aveva sottolineato più volte come il Mezzogiorno sia l’area dell’Italia con le maggiori potenzialità di crescita della produzione e del reddito per  la grande disponibilità di lavoro non utilizzato. Fino ad oggi, tuttavia, il lavoro non utilizzato nelle regioni del Mezzogiorno ha rappresentato un problema, invece che una opportunità di crescita per l’Italia. Neppure la “nuova programmazione” impostata negli anni novanta anche su impulso del Presidente Ciampi è riuscita a stimolare nel Mezzogiorno una significativa crescita dell’occupazione. Se il Mezzogiorno fosse un paese politicamente indipendente, la piena occupazione sarebbe raggiunta mediante salari nominali dell’ordine del 60 per cento di quelli del Nord dell’Italia, in tutti i settori produttivi, incluso il pubblico impiego. Il fatto di non essere politicamente indipendente comporta per il Mezzogiorno, da un lato la possibilità di ottenere trasferimenti da altre regioni di una entità che non sarebbe possibile per una paese politicamente indipendente, dall’altro però ha precluso la possibilità di perseguire efficacemente un livello dei salari nominali compatibili con un equilibrio competitivo di piena occupazione. Considerato il clamoroso fallimento delle politiche “strutturali” volte ad aumentare la produttività nel Mezzogiorno al livello del Nord dell’Italia, l’unica possibilità che potrebbe oggi essere efficace per la piena occupazione nelle regioni del Mezzogiorno sembrerebbe essere quella di una forte “svalutazione fiscale” che comporti per un lungo periodo di tempo una riduzione dell’ordine del 40 per cento del costo del lavoro  per le imprese che producono nel Mezzogiorno beni a mercato internazionale.

Considerato che essa verrebbe inizialmente applicata a circa 800 mila lavoratori, pari a circa un quarto di quelli per i quali la fiscalità di vantaggio  è prevista dal decreto legge del 14 agosto, l’impatto iniziale per la finanza pubblica sarebbe dello stesso ordine di grandezza di quella preventivata (circa 5 miliardi all’anno). Man mano però che per effetto di uno shock fiscale di questa dimensione si innesca  un forte processo di crescita di occupazione e reddito nella produzione di beni a mercato internazionale, il reddito aggiuntivo provocherebbe un aumento della domanda di beni a mercato esclusivamente locale prodotti nel Mezzogiorno, con un conseguente aumento di entrate fiscali e contributive. A regime l’impatto complessivo per la finanza pubblica potrebbe essere neutrale o addirittura significativamente positivo. Con il passar del tempo, inoltre, per effetto del “learning by doing” particolarmente importante nelle produzioni a mercato internazionale, la differenza di produttività fra Mezzogiorno e Nord dell’Italia potrebbe significativamente diminuire e quindi potrebbe diminuire anche l’intensità della fiscalità di vantaggio. (aa)  [Courtesy Opencalabria.com]


 

  • Antonio Aquino è Professore Emerito di Economia Politica presso il Dipartimento di Economia Statistica e Finanza DESF “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria. Laureato in Economia e Commercio presso l’Università L. Bocconi di Milano nel 1970. PhD presso la London School of Economics. Nel 1987 ha ricevuto il Premio Saint Vincent per l’economia.

COVID-19: SUD E CALABRIA MENO COLPITI,
MA PER LA SVIMEZ CRESCERÀ IL DIVARIO

I numeri sono impietosi e il nuovo allarme che proviene dalla Svimez, l’Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno, con la pubblicazione delle Previsioni regionali 2020-2021 non danno spazio ad alcun dubbio: il Mezzogiorno e la Calabria, “risparmiati” dalla pandemia con numeri di contagio molto bassi, patiranno in modo pesante gli effetti economici della crisi. Ovvero il divario Nord-Sud anziché restringersi andrà ad allargarsi: secondo quanto scrive la Svimez «resiste la chiave di lettura Centro-Nord/Mezzogiorno, ma le previsioni per il 2021 mostrano i segnali di una divaricazione interna alle due macro-ripartizioni: le tre regioni forti del Nord ripartono con minori difficoltà; il resto del Nord e le regioni centrali mostrano maggiori difficoltà; un pezzo di Centro scivola verso Mezzogiorno; il Mezzogiorno rischia si spaccarsi tra regioni più resilienti e realtà regionali che rischiano di rimanere “incagliate” in una crisi di sistema senza vie di uscita».

Secondo l’autorevole Istituto di studi e ricerca sul Mezzogiorno, «la differenziazione territoriale dei processi di resistenza allo shock e di ripartenza nel post-Covid pone al governo nazionale il tema della riduzione dei divari regionali come via obbligata alla ricostruzione post-Covid. Creare le condizioni per restituire alle regioni del Centro in difficoltà i tassi di crescita conosciuti in passato, liberare le regioni più fragili del Sud dal loro isolamento che le mette al riparo dalle turbolenze ma le esclude dalle, ricompattare il sistema produttivo nazionale intorno ad un disegno di politica industriale volta a valorizzare la prospettiva euro-mediterranea l, sono tutte premesse indispensabili per far crescere, insieme, l’economia nazionale. Anziché affannarsi a sostenere la causa delle tante questioni territoriali (del Nord, del Centro, del Mezzogiorno) che si contendono il primato nel dibattito in corso sulle vie di uscita dalla pandemia, è tempo di compattare l’interesse nazionale sul tema che le risolverebbe tutte se solo l’obiettivo della crescita venisse perseguito congiuntamente a quello della riduzione dei nostri divari territoriali».

In poche parole, le previsioni regionali «aprono la “scatola nera” del differenziale di crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel 2021 svelando una significativa diversificazione interna alle due macro-aree nella transizione al post-Covid». Dai dati diffusi si evince che l’unica regione italiana che recupera in un solo anno i punti di Pil persi nel 2020 è il Trentino. A seguire, le tre regioni settentrionali del “triangolo della pandemia” guidano la ripartenza del Nord: +7,8% in Veneto, +7,1% in Emilia Romagna, +6,9% in Lombardia. Segno, questo, che le strutture produttive regionali più mature e integrate nei contesti internazionali perdono più terreno nella crisi ma riescono anche a ripartire con più slancio, anche se a ritmi insufficienti a recuperare le perdite del 2020. Maggiori le difficoltà a ripartire di Friuli V.G., Piemonte, Valle d’Aosta e, soprattutto, Liguria.

«Le regioni centrali – evidenzia la Svimez – sono accomunate da una certa difficoltà di recupero, in particolare l’Umbria e le Marche. Alla questione settentrionale e a quella meridionale intorno alle quali tradizionalmente si polarizza il dibattito nelle crisi italiane, sembra aggiungersi una “questione del Centro” che mostra segnali di allontanamento dalle aree più dinamiche del paese, scivolando verso Sud».

Tra le regioni meridionali, le più reattive nel 2021 sono, nell’ordine, Basilicata (+4,5%), Abruzzo (+3,5%), Campania (+2,5%) e Puglia (+2,4%), confermando la presenza di un sistema produttivo più strutturato e integrato con i mercati esterni. A fronte del Sud che riparte, sia pure con una velocità che compensa solo in parte le perdite del 2020, nel 2021 ci sarà anche un Sud dalla ripartenza frenata: Calabria (+1,5%), Sicilia (+1,3%), Sardegna (+1%), Molise (+0,9%). Si tratta di segnali preoccupanti di isolamento dalle dinamiche di ripresa esterne ai contesti locali, conseguenza della prevalente dipendenza dalla domanda interna e dai flussi di spesa pubblica.

L’impatto sui redditi delle famiglie nel 2020 è in media meno intenso nel Mezzogiorno (-3,2% contro il -4,4% del Centro-Nord) anche per effetto degli ingenti trasferimenti previsti dalle misure di sostegno al reddito previsti dal Governo. Il calo riguarda in particolare l’Emilia Romagna (-6,3%), Marche (-5,7%), Umbria (-5,2%) e Piemonte (-5,2%). Per il 2021 è atteso un recupero in tutte le regioni del Centro e del Nord, soprattutto nel “triangolo della pandemia”. Le regioni meridionali condividono una riduzione meno intensa dei redditi nel 2020 ma, al tempo stesso, un recupero più debole nel 2021. È questo il caso, in particolare, di Calabria, Molise, Sardegna e Sicilia, che non recupereranno le perdite del 2020.

Anche dal punto di vista del reddito, nel post-covid, ci sono evidenti condizionamenti sui consumo delle famiglie. La spesa delle famiglie cala bruscamente in tutte le regioni italiane con una variabilità interna alle due macro-aree piuttosto correlata alla dinamica dei redditi. Nelle Marche (-12,3%) e in Umbria (-12.2%) i crolli più evidenti; in Lombardia (-7,3%), Molise (-7,4%), Trentino (-7,7%) e Sicilia (-7,7%) quelli meno intensi ma di entità comunque eccezionale. La forbice si allarga se si guarda alla ripresa della spesa delle famiglie nel 2021. Nelle regioni del Centro e del Nord, in media, i consumi delle famiglie aumenteranno del 5,0% recuperando solo la metà della perdita del 2020; nelle regioni del Mezzogiorno il recupero sarà meno di un terzo: +2,7% dopo la caduta del -9,0% del 2020. Particolarmente stagnante sarà la spesa delle famiglie in Sardegna, Sicilia e Calabria.

Non meno significativa la differenziazione per quel che riguarda gli investimenti delle imprese. Su base regionale mostrano caratteristiche comuni alla spesa delle famiglie: una maggiore differenziazione nella ripartenza, comunque stentata, del 2021 rispetto alla caduta del 2020. Al Nord il crollo è particolarmente intenso in Emilia Romagna (-17,9%) e Piemonte (-18,0%); al Centro in Toscana (-17,5%); nel Mezzogiorno in Campania (-16,3%).  Gli investimenti torneranno a crescere a tassi più sostenuti, ma comunque insufficienti a compensare le perdite del 2020, in Lombardia (+9,8%), Veneto (+9,5%) ed Emilia Romagna (+8,2%). Debole la ripartenza degli investimenti in Calabria (+2,2%), Sicilia (+2,5%) e Campania (+2,7%).

La domanda estera, infine, in profonda contrazione nel 2020 (-15,3% in media nel Mezzogiorno; -13,8% nel Centro-Nord), tornerà a crescere nel 2021 – secondo la Svimez – a ritmi più sostenuti nelle economie regionali dalle vocazioni produttive più orientate all’export. (ed)

Tab. 1: Previsioni per il Pil, Regioni, Circoscrizioni e Italia, var. %.

Regioni 2019 2020 2021
Piemonte -0,2 -11,0 5,3
Valle d’Aosta 0,3 -7,0 3,7
Lombardia 0,0 -9,9 6,9
Trentino A.A. -0,4 -6,0 5,9
Veneto 1,0 -12,2 7,8
Friuli V.G. 0,6 -10,1 4,5
Liguria 0,1 -8,5 3,7
Emilia-Romagna -0,5 -11,2 7,1
Toscana 0,7 -9,5 5,5
Umbria 1,6 -11,1 4,7
Marche 0,6 -10,6 5,0
Lazio 0,7 -8,1 4,1
Abruzzo 0,1 -8,3 3,5
Molise 1,7 -10,9 0,9
Campania 0,3 -8,0 2,5
Puglia 0,6 -9,0 2,4
Basilicata 1,4 -12,6 4,5
Calabria 1,1 -6,4 1,5
Sardegna 0,7 -5,7 1,0
Sicilia 1,1 -5,1 1,3
Mezzogiorno 0,9 -8,2 2,3
Centro-Nord 0,4 -9,6 5,4
Italia 0,6 -9,3 4,6

Fonte: Modello NMODS.

 

Tab. 2: Previsioni per spesa e redditi delle famiglie, investimenti e delle esportazioni, Regioni, Circoscrizioni e Italia, var. %.

Regioni Spesa famiglie Reddito Famiglie Investimenti Esportazioni
2019 2020 2021 2019 2020 2021 2019 2020 2021 2019 2020 2021
Piemonte 0,8 -10,5 5,0 -0,6 -5,2 6,5 0,7 -18,0 6,1 -4,3 -16,2 7,8
Valle d’Aosta 0,3 -11,2 4,1 0,1 -5,0 6,0 1,5 -10,4 4,6 -6,3 -2,0 3,9
Lombardia 0,0 -7,3 5,5 -1,2 -3,5 7,5 0,9 -16,5 9,8 -1,4 -5,9 11,1
Trentino A.A. 0,4 -7,7 4,4 0,8 -3,9 7,3 0,8 -15,8 7,7 0,9 -16,1 5,6
Veneto 0,3 -11,7 5,3 -0,1 -4,2 8,0 2,0 -15,9 9,5 0,2 -18,2 10,5
Friuli V.G. 0,6 -10,8 4,9 -0,5 -4,1 6,3 1,9 -9,8 5,2 -1,6 -15,6 6,9
Liguria 0,8 -8,2 5,1 -0,8 -2,7 4,6 1,4 -15,2 4,2 -7,3 -17,1 7,4
Emilia-Romagna 0,6 -10,2 5,6 -0,2 -6,3 7,0 0,7 -17,9 8,2 2,7 -15,9 10,2
Toscana 0,4 -10,4 5,2 0,4 -4,5 6,7 1,9 -17,5 6,8 13,6 -17,0 4,0
Umbria 1,0 -12,2 4,4 0,5 -5,2 5,2 2,8 -11,4 5,6 -0,9 -2,2 4,5
Marche 1,2 -12,3 4,2 2,2 -5,7 6,1 1,9 -16,1 5,1 2,6 -20,4 11,8
Lazio 1,0 -9,2 6,0 -0,5 -3,1 5,8 1,9 -11,0 5,3 13,5 -18,8 8,9
Abruzzo 0,9 -9,1 2,7 3,1 -3,2 4,2 1,5 -13,3 5,9 -1,9 -13,4 9,7
Molise 1,1 -7,4 2,8 3,9 -4,0 2,2 3,0 -12,8 3,2 11,1 -19,2 3,8
Campania 1,0 -10,1 2,6 1,8 -3,5 4,6 1,5 -16,3 2,7 7,5 -16,8 11,9
Puglia 0,5 -9,1 3,3 -0,6 -1,8 3,9 1,7 -14,3 4,0 -4,3 -13,2 7,1
Basilicata 1,0 -9,4 4,8 3,7 -3,5 4,1 2,1 -12,8 4,2 -17,6 -32,1 20,8
Calabria 0,8 -9,4 1,3 2,1 -2,9 2,1 2,5 -9,2 2,2 -17,0 -8,5 7,0
Sardegna 1,2 -10,1 2,2 2,6 -3,6 2,1 2,1 -11,3 4,6 8,2 -10,1 7,5
Sicilia 1,2 -7,7 1,9 2,3 -3,0 2,3 3,3 -12,2 2,5 -1,9 -9,5 10,1
Mezzogiorno 1,0 -9,0 2,7 2,4 -3,2 3,2 2,2 -12,8 3,7 -2,0 -15,3 9,7
Centro-Nord 0,6 -10,2 5,0 0,0 -4,4 6,4 1,5 -14,6 6,5 1,0 -13,8 7,7
Italia 0,8 -9,7 4,1 1,0 -3,9 5,1 1,8 -13,9 5,4 -0,2 -14,4 8,5

Fonte: Modello NMODS.

Quasi 43 i milioni per i comuni della Calabria
destinati a iniziative sociali, scuole e comunità

Dei 300 milioni destinati ai Comuni del Mezzogiorno dal Fondo Infrastrutture sociali, ben 42.878.013 andranno alla Calabria: lo ha annunciato il ministro per il Sud e la Coesione Sociale Peppe Provenzano. La somma, ripartita in quattro anni, è stata sbloccata, dopo un confronto con l’Associazione dei Comuni d’Italia (Anci) e con la presa d’atto della Conferenza Stato-Città. Sono risorse destinate a privilegiare le amministrazioni locali del Mezzogiorno e in particolar modo le città piccole e medie. I fondi sono destinati a nuovi interventi, manutenzioni straordinarie, su scuole, strutture e residenze sanitarie, edilizia sociale, beni culturali, impianti sportivi, arredo urbano, verde pubblico e altri ambiti della vita sociale.

Ripartizione fondi sociali Calabria

Le somme sono state ripartire secondo un criterio inversamente proporzionale alla popolazione di riferimento, proprio per avvantaggiare i piccoli comuni. In questo modo viene garantito anche a un comune di 500 abitanti un contributo totale di 32.000 euro (mentre un comune con popolazione maggiore di 250.000 abitanti riceverà un contributo totale pari a 655.000 euro), relativamente maggiore in pro capite. Si abbandona il criterio storico di attribuzione delle risorse e si pone attenzione alle zone deboli del paese per offrire a tutti i cittadini le medesime opportunità.

Soddisfatto il ministro Provenzano, convinto meridionalista (è stato vicedirettore della Svimez), il quale ha voluto sottolineare che «Grazie a questi trecento milioni le amministrazioni locali potranno investire subito per garantire servizi sociali e spazi pubblici, anche con piccoli interventi che contribuiscono a rilanciare, soprattutto dopo la pandemia, l’economia locale e la qualità della vita. Il decreto mette al centro i Comuni, e finalmente riconosce risorse adeguate anche ai piccoli e piccolissimi per prendersi cura delle persone e delle comunità, in ragione delle fragilità troppo spesso ignorate da un’azione pubblica che non deve più fare parti eguali tra diseguali».

Il ministro, in un post, ha sottolineato che «anche il rilancio della Strategia Nazionale Aree interne va avanti, lo dimostrano i 120 milioni di euro stanziati nel dl Rilancio a sostegno delle attività economiche, artigiane e commerciali e la nomina che ho appena firmato di Francesco Monaco coordinatore del Comitato nazionale delle aree interne, che con il suo profilo aiuterà a rinnovare la centralità e l’importanza di un punto di vista attento al protagonismo locale nella governance. Le aree interne, i comuni medi e piccoli sono un’opportunità. Lo abbiamo visto durante la fase più acuta della pandemia, mettiamola ora al centro della ripartenza».

Ha espresso la sua soddisfazione anche il Presidente dell’Anci Antonio Decaro, secondo il quale, «grazie alla collaborazione collaborazione tra il sistema dei Comuni e il governo, questo fondo potrà incidere su territori che hanno maggiori bisogni, come i centri piccoli e medi del Sud, e soprattutto in un settore che, mai come ora, ha esigenza di cure, quello del sociale: scuole, verde pubblico, impianti sportivi, arredo urbano, edilizia sociale potranno godere di interventi piccoli e grandi spesso indispensabili e urgenti. I Comuni sono ottomila centri di spesa diffusi su tutto il territorio. Ogni risorsa che ci viene affidata per realizzare o anche solo apportare migliorie al patrimonio di luoghi in cui si erogano i servizi sociali coglie due obiettivi, entrambi essenziali: migliorare l’aspetto e la fruibilità delle nostre città e paesi e attivare un’immediata circolazione economica a livello locale».

La dotazione più cospicua delle risorse destinate alla Calabria spetta a Cosenza con oltre 16 milioni (150 comuni), seguono Reggio con quasi 10 milioni e mezzo (97 comuni), Catanzaro con poco più di 8 milioni (80 comuni), Vibo Valentia 5 milioni (50 comuni) e ultima Crotone con poco più di 3 milioni (27 comuni). (rp)

E SUI BILANCI COMUNALI CONTE RASSICURA I SINDACI

Il sindaco metropolitano di Reggio Giuseppe Falcomatà. responsabile Mezzogiorno dell’Anci, ha riferito che «Il Presidente Conte ha accettato tutte le priorità sottolineate dai Sindaci e sono convinto che il Governo manterrà la parola data. Ci aspettiamo che al suo impegno personale ora seguano i fatti. Al più presto il Ministero delle Finanze deve individuare norme e risorse per mettere a disposizione i 3 miliardi indispensabili per far fronte ai servizi essenziali per i cittadini, oltre alle norme per mettere in sicurezza i bilanci comunali. Staremo a vedere».

«In queste settimane – ha detto Falcomatà – abbiamo lavorato insieme ai sindaci metropolitani per individuare gli aspetti prioritari per questa fase di rilancio servono più risorse, il doppio di quelle fino ad oggi previste, e strumenti normativi più incisivi per velocizzare le procedure e sburocratizzare i processi su alcuni aspetti fondamentali: le politiche per il sostegno alla famiglie, a partire dal rinnovo dei buoni spesa, il rilancio delle imprese, il trasporto pubblico locale, il turismo, ma anche una maggiore flessibilità finanziaria per i bilanci comunali, la sospensione dei piani di riequilibrio e poteri commissariali per procedure più veloci e meno burocratiche su appalti e lavori pubblici». «Su questi temi abbiamo ricevuto piena condivisione dal Presidente Conte – ha concluso – Ora ci aspettiamo che alle parole seguano velocemente gli atti necessari per dare seguito al piano per la ripresa socioeconomica dei territori». (rrc)

Svimez: «Il Mezzogiorno non è una causa persa» La Calabria cenerentola d’Italia a -0,3 % di Pil

di SANTO STRATI – È l’unica regione, non solo nel Mezzogiorno ma anche in Italia, ad accusare una flessione del Pil, -0,3% nel 2018: la Calabria è la cenerentola del Paese e, al contrario delle altre regioni meridionali che mostrano timidi segnali di ripresa, rivela la sua ormai cronica debolezza nella crescita. Il Rapporto Svimez 2019 offre una fotografia reale della disuguaglianza Nord-Sud, impietosa nei confronti di chi ci ha governato in questi ultimi dieci anni, spiega come la politica italiana si sia dimenticata del Mezzogiorno. Di come abbia indebolito il contributo del motore interno della crescita, trascurando il Sud e la sua gente. Il risultato è che rispetto al 2018 siamo sotto di dieci punti rispetto ai livelli di dieci anni prima.

Luca Bianchi, direttore dello Svimez, introdotto dal presidente Adriano Giannola, espone con chiarezza e lucida convinzione i dati che, implacabili, le slides del Rapporto mostrano sullo schermo numeri incontrovertibili che segnano inequivocabilmente il cosiddetto divario, non solo territoriale, ma anche sociale tra Nord e Sud. Quello che colpisce di più è la povertà in campo che si registra in campo educativo (300mila ragazzi nel Mezzogiorno si fermano alle III media), preludio alle altre povertà economiche e di crescita sociale.

Non è sufficiente la considerazione che le disuguaglianze fanno sì che possa parlare solo di debole recessione, se non di stagnazione, a livello nazionale, il punto che emerge dall’affollato incontro alla Sala dei gruppi parlamentari della Camera, è che – a politiche invariate – il Mezzogiorno viaggia al 6,1% contro il 21,6 % nazionale della spesa pubblica. Lo scippo continuerà fino a che non sarà riaffermata, in modo univoco, la centralità della clausola del 34% da destinare al Mezzogiorno. Non solo per la spesa corrente, ma per ogni utilizzo di fondi strutturali e di fondi addizionali (di provenienza UE), così da annullare quella che il ministro per il Sud, Peppe Provenzano, ha significativamente indicato come “divergenza”. Ecco, il divario che non è solo territoriale, ma, ben più in profondità, sociale, va colmato con iniziative, investimenti, con progetti di cui andrà valutata non solo l’efficacia ma anche l’efficienza.

Proprio questo aspetto, quello dell’efficienza, mostra la parte debole del discorso investimenti. C’erano a disposizione circa 110 miliardi, il nostro Paese ne ha appena utilizzati 2. Non mancano le risorse finanziarie, manca la capacità di spesa. Viene meno l’efficienza dell’apparato pubblico che non risponde alle esigenze di imprenditori, investitori pubblici e privati, e lascia decadere ogni iniziativa.

L’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri, su questo tema, provocatoriamente, ha detto se dobbiamo chiederci se il Sud vuole lo sviluppo. Certo che lo vuole, ma occorre dare una svolta all’abitudine di valutare le iniziative in termini di obiettivi e di strumenti. Il vero elemento di competizione – ha detto Arcuri – è il tempo. Il riferimento alle capacità straordinarie della nostra gente viene da due esempi: l’Autostrada del Sole, costruita in cinque anni (e consegnata con sei mesi di anticipo) e i lavori sul canale di Panama (a matrice italiana): si scopre, poi, che in Italia per fare trenta km di ferrovia ci vogliono vent’anni. La risposta a questo “giallo”, a questo mistero che avvolge la tempistica assurda che caratterizza ogni progetto sta – secondo Arcuri – nella moltitudine di attori interessati alle dinamiche dello sviluppo. Occorre sfoltire in termini di età media la pubblica amministrazione e, soprattutto, fornire ai responsabili la tranquillità di firmare senza il terrore di essere poi perseguiti dalla giustizia contabile per eventuali errori, anche se commessi in buona fede.

Marcella Panucci
Da sinistra: Domenico Arcuri, Ad di Invitalia, Adriano Giannola e Luca Bianchi della Svimez e il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci

Il direttore generale di Confindustria, la calabrese Marcella Panucci, ha insistito proprio su questo punto: la pubblica amministrazione è debole al Sud, va rinforzata e preparata ad affrontare i problemi autorizzativi, con competenza e autorevolezza, ma senza la spada di Damocle di una giustizia amministrativa pronta a richiedere il danno erariale. D’altro canto – ha evidenziato il ministro Provenzano – l’età media nella pubblica amministrazione è di 55 anni: come si può parlare di innovazione se non si svecchia questa classe dirigente inserendo le migliaia di giovani preparati e capaci di captare le trasformazioni e i vantaggi nelle valutazioni che la tecnologia offre?

Il presidente Giannola ha detto che occorre guardare alla storia per capire le problematiche del Mezzogiorno. La crisi non è solo di natura economico-finanziaria: c’è una crisi di natalità, che è il fenomeno più preoccupante – ha rilevato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte – che deriva dalla grande disuguaglianza che affligge il territorio. Servono tre milioni di posti di lavoro per il Mezzogiorno, senza i quali si andrà a svuotare ancor di più il nostro Meridione. E Conte, ribadendo il suo ormai abituale ritornello «Se riparte il Sud riparte l’Italia» si è detto soddisfatto delle misure previste dalla manovra a favore del Mezzogiorno e ha annunciato il prossimo varo del Piano per il Sud.

«Un piano per l’Italia – gli ha fatto eco il ministro Provenzano – perché occorre pensare soprattutto ai giovani e alle donne (anche qui il divario in termini occupazionali col Nord è terribile) guardando alla bio-economia, all’agricoltura, all’energia da fonti rinnovabili. Contro la logica della contrapposizione del territorio che indica stupidamente al Sud l’assistenza, al Nord lo sviluppo, bisogna radicalmente cambiare registro. «L’Italia vive della sua unità» ha esordito nel suo intervento il segretario generale aggiunto della Cisl Luigi Sbarra: la dispersione scolastica è un problema intollerabile e servono misure che fermino questo inaccettabile gap.

Il lavoro, gli investimenti, nuove progettualità e voglia di innovare. Il presidente Conte è ottimista: le risorse saranno distribuite con la clausola del 34% (che corrisponde alla percentuale degli abitanti del Mezzogiorno). Ma, avverte Conte, non basta stanziare risorse, bisogna saperle spenderle. «Definanzieremo i progetti che non vanno avanti: una task force avrà il compito di controllare e verificare l’attuazione degli investimenti fino al loro completamento». Basterà per il rilancio del Sud? Intanto è una buona base di partenza. (s)

Svimez, la Calabria a -0,3% del Pil. In corso la presentazione del rapporto 2019

Uno scenario insostenibile, quello che emerge nel Rapporto 2019 della SvimezL’economia e la società del Mezzogiorno, in corso di presentazione al Palazzo dei Gruppi Parlamentari della Camera di Roma.

«Entro i prossimi 50 anni – si legge nel Rapporto – il Paese si ritroverà con una popolazione molto più piccola e decisamente invecchiata, in particolare il Mezzogiorno il destinato a un lento e pesante declino demografico».

Secondo quanto emerge dal Rapporto, «per effetto della rottura dell’equilibrio demografico – bassa natalità, emigrazione di giovani, invecchiamento della popolazione – il Sud perderà 5 milioni di persone e, a condizioni date, quasi il 40% del Pil. Solo un incremento del tasso d’occupazione, sopratutto femminile, può spezzare questo circolo vizioso».

I dati più preoccupanti, però, riguardano la Calabria, che è l’unica regione del Mezzogiorno – e in Italia – ad accusare una flessione del Pil nel 2018 (-0,3%), mentre la Campania ha registrato crescita zero, la Puglia, insieme all’Abruzzo e alla Sardegna, hanno registrato, nel 2018, il più alto tasso di crescita.

Nel corso della presentazione, è intervenuto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha dichiarato che «il Governo intende promuovere un piano strutturale di investimenti e di misure e di rilancio per il Mezzogiorno».

«Entro la fine dell’anno – ha proseguito il presidente Conte – sarà varato un Piano per il Sud. Una delle priorità del nostro Piano, è quella di realizzare un vero riequilibrio territoriale della spesa ordinaria per investimenti che, negli ultimi decenni, non è stata distribuita tra le Regioni italiane in misura proporzionale alla popolazione residente». (rrm)

COSENZA – Il convegno su Mezzogiorno e Regionalismo differenziato

Questo pomeriggio, a Cosenza, alle 17.00, nella sala degli spechi del Palazzo del Governo, il convegno su Mezzogiorno. Valorizzazione dei tesori e dei talenti nascosti tra vocazione euro mediterranea e Regionalismo differenziato: strumenti.

L’iniziativa, presieduta e coordinata dalla giornalista Carmen Lasorella, si terrà proprio in occasione della presentazione alla Città della Rivista MYRRHA – Il dono del Sud – pubblicazione trimestrale, telematica e senza scopo di lucro, che nasce per dare rilievo e visibilità alle realtà culturali e imprenditoriali del Mezzogiorno d’Italia.

I lavori saranno introdotti dal presidente della Provincia di Cosenza, Franco Iacucci, dal presidente della I Commissione del Consiglio Regionale – Presidente Koinos, Franco Sergio, e dal direttore della Rivista “MYRRHA – Il dono del Sud”, Giorgio Salvatori.

Ne discutono Cesare Imbriani, presidente della Università degli Studi di Roma “Unitelma Sapienza” – Ordinario di Economia Politica, Carlo Curti Giardino, ordinario di Diritto dell’Unione Europea Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Giuseppe Soriero, componente Comitato Presidenza Svimez;, Paolo Naccarato, dirigente generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Angela Dalmazio Tarantino, notaio del Distretto di Cosenza e Francesco Saverio Sesti, civilista – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. (rcs)