Di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «No all assistenzialismo, noi vogliamo creare posti di lavoro veri». Questo è il mantra che viene ripetuto dal Centrodestra ogni volta che vi sono dei dati positivi riguardanti la crescita del reddito, oppure quella dei posti di lavoro.
Un modo diverso di dire la stessa cosa sarebbe non vogliamo dare ogni giorno un pesce ma insegnare a pescare. È difficile non essere d’accordo con questo principio. Rendere autonomo ciascuno, consentendogli di avere una occupazione, non è importante soltanto per consentire la sopravvivenza individuale e un progetto di futuro, ma anche per rendere ciascuno libero dal bisogno, lontano dalla tentazione di scambiare il proprio voto per un diritto mancato, che viene presentato dalla classe dominante estrattiva di torno come una cortesia o un favore concesso.
L’opposizione di questo Governo al reddito di cittadinanza in realtà deriva da questa convinzione: bisogna evitare che la gente non studi come sbarcare il lunario ma si abbandoni a una inedia che non aiuta certamente il Paese ma che fa male anche al singolo individuo che, non cercando più una occupazione, entra in quella categoria maledetta che viene definita dall’acronimo Neet, né al lavoro, né in formazione, né in training. Nullafacenti per vocazione o per mancanza di lavoro, che si abbandonano al non dolce ma amaro far niente.
In realtà il provvedimento confusionario del Reddito di Cittadinanza nei suoi scopi voleva raggiungere obiettivi diversi, come quello di assistere coloro che erano in situazioni di bisogno, ma anche di trovare con i cosiddetti navigator un posto di lavoro e per questo era destinato al fallimento.
Il problema infatti non era quello di far incontrare la domanda con l’offerta di lavoro, situazione che caratterizzava soltanto alcune situazioni, ma di sopperire a una mancanza assoluta di posti di lavoro che avessero una richiesta di skill di un certo tipo, in genere anche medio alti, considerato che come è noto il mercato del lavoro è segmentato e la possibilità di passare da un settore all’altro non è sempre facile né, spesso, opportuna. Portare un ingegnere a raccogliere pomodori, se anche fosse disponibile a farlo, sarebbe uno spreco dell’investimento fatto dal Paese per farlo arrivare a quel grado di preparazione.
Lo strumento nasceva con un limite che era quello di adottare un assistenzialismo diffuso, senza quei controlli necessari per evitare che i furbetti potessero accedervi senza alcun timore di essere scovati.
Adesso con lo strumento istituito dall’Inps coloro che ne usufruiscono sono molto meno. Infatti l’Istituto comunica che al 30 giugno 2024 sono state accolte quasi 700 mila domande relative all’Assegno di inclusione (Adi), domande che fanno riferimento ad altrettanti nuclei familiari e che coinvolgono circa 1,7 milioni di cittadini.
L’Assegno d’Inclusione (Adi), come sottolinea l’Inps, «è una misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro condizionata al possesso di requisiti di residenza, cittadinanza e soggiorno, alla prova dei mezzi sulla base dell’Isee, alla situazione reddituale del beneficiario e del suo nucleo familiare e all’adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa».
Se si pensa che con il reddito di cittadinanza nella sola Campania vi era un parco di fruitori che arrivava ad oltre 600.000 persone ed in Sicilia ad oltre 500.000, si capisce come vi sia stato un taglio molto pesante.
Se questo riguarda coloro che in effetti non avevano diritto il risultato non può che essere apprezzabile, ma se invece il taglio riguarda nuclei familiari indigenti, che in tal modo non hanno nessuna forma di protezione, residenti prevalentemente nel Mezzogiorno d’Italia, allora il risparmio avviene sulla pelle dei più poveri ed emarginati.
È interessante per sciogliere tale dubbio confrontare questi dati con quelli relativi alla povertà assoluta. Si tratta di oltre 2 milioni 234 mila famiglie povere, per un totale di circa 5 milioni 752 mila individui in povertà assoluta. L’incidenza maggiore, anche se pressapoco stabile, si registra nel Mezzogiorno. Record dei minori dove l’incidenza della povertà è pari al 14%, il valore più alto dal 2014.
Le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022). Si tratta di oltre 2 milioni 234 mila famiglie, per un totale di circa 5 milioni 752 mila individui in povertà assoluta. È quanto rileva l’Istat. Sono indicate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore a una soglia minima corrispondente all’acquisto di un paniere di beni e servizi considerato essenziale a garantire uno standard di vita minimamente accettabile e a evitare gravi forme di esclusione sociale.
L’incidenza di povertà assoluta familiare per ripartizione, spiega l’Istituto, mostra nel 2023 il valore più elevato nel Mezzogiorno (10,3%, coinvolgendo 866mila famiglie), seguito dal Nord (8,0%, un milione di famiglie) e dal Centro (6,8%, 365mila famiglie). L’incidenza individuale conferma il quadro tratteggiato, con il Mezzogiorno che mostra i valori più elevati (12,1%).
Questi dati dimostrano che la dieta dimagrante dell’assistenza ha coinvolto anche famiglie che ne avrebbero avuto diritto. Se non siamo alla macelleria sociale bisogna stare attenti a non esservi vicino.
Certamente l’eliminazione del reddito di cittadinanza o di qualunque altra forma di assistenza costringe molta gente ad accettare ogni forma di lavoro, spesso al limite dello sfruttamento, o anche a trasferirsi dal Sud a centinaia di chilometri di distanza pur di conseguire un reddito. Spero che non fosse questo l’obiettivo non dichiarato della riforma che partiva dal concetto sbagliato di occupabile, che presupponeva che il mercato del lavoro non fosse segmentato, come in effetti è.
Siamo tutti d’accordo che bisogna limitare per quanto possibile le forme di assistenza per evitare che gli individui si adagino e pensino di potersi farsi mantenere a vita da uno Stato troppo buono, ma allora il vero sistema è quello di creare veri posti di lavoro, e nelle realtà in cui servono. Perché altrimenti si rischia come sta avvenendo un continuo processo migratorio che certamente non fa bene al Paese. (pmb)
[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]