LA CALABRIA IN 30 ANNI TRA MIGRAZIONE
SPOPOLAMENTO E GELO DEMOGRAFICO

di GIUSEPPE DE BARTOLOLa storia demografica della Calabria è stata segnata da fasi ben distinte. Regione scarsamente popolata fino ai primi dell’800, con l’Unità conosce una dinamica naturale positiva, temperata, tra la fine dell’800 e l’inizio della Prima guerra mondiale, dal grande esodo migratorio.

Questo esodo, interrotto nel ventennio fascista, prosegue con rinnovata, ma più ridotta intensità, fino agli anni ’70 del secolo scorso, epoca in cui termina la parabola dell’emigrazione italiana.

In seguito, anche se con cadenze e intensità differenti da regione a regione, l’Italia da Paese di emigrazione diventa luogo di accoglienza di flussi migratori via via più consistenti. Negli ultimi trent’anni, la potenzialità demografica della Calabria ha conosciuto un forte rallentamento per effetto della lenta ma costante riduzione delle componenti naturali della sua popolazione, natalità e mortalità, che hanno completato quella che viene chiamata la “Transizione Demografica”.

Nel contempo si sono affacciati nuovi processi di redistribuzione della popolazione, continui nel tempo ed estesi nello spazio. Terminata l’emigrazione tradizionale, è via via cresciuto però il numero dei giovani istruiti che emigrano dalla Calabria, conseguenza diretta della crisi economica. Tutti questi accadimenti ci consegnano oggi una regione profondamente segnata da denatalità, spopolamento, nuova emigrazione e immigrazione straniera.

Sin dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso la propensione della donna a procreare (fecondità osservata) si è ridotta in tutte le regioni italiane, anche se in modo più o meno marcato, fino a scendere in ciascuna di esse al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni di 2,1 figli per donna feconda. Si sono modificate anche le caratteristiche strutturali del comportamento riproduttivo, quali l’ordine e la cadenza delle nascite.

Questi cambiamenti hanno prodotto la contrazione del numero di nascite in tutte le regioni italiane, scese nel complesso del Paese sotto la soglia psicologica delle 400 mila unità. In Calabria, più in particolare, negli ultimi trent’anni le nascite sono diminuite del 28% e della medesima percentuale sono aumentati invece i decessi. L’effetto congiunto delle dinamiche naturali e migratorie ha fatto si che la popolazione calabrese sia diminuita progressivamente nel tempo: nel 1995 era di 2.064.738 abitanti, nel 2001 di 2.009.623 abitanti, al 1/1/2025 di 1.832.147 con una riduzione dell’11,3% nell’ultimo trentennio.

Un tratto che oggi caratterizza il territorio calabrese è lo spopolamento, definito come una sintesi delle conseguenze demografiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche che si osservano in una popolazione a seguito dell’alterazione della sua struttura per età, sinteticamente rappresentata dalla forma quasi rovesciata della piramide della popolazione che per la Calabria del 2024 abbiamo qui di seguito riportato. La popolazione in età giovanile diminuisce per effetto della riduzione del numero delle nascite; quella anziana invece cresce  grazie all’aumento dell’aspettativa di vita che negli ultimi trent’anni ha superato la soglia degli 80 anni (nel 1995 era di 77, 8 anni; nel 2024 di 82,3 anni). Ciò nonostante, si osserva un costante aumento del suo divario rispetto al valor medio italiano che oggi è di 83,4 anni; sintomo evidente del peggioramento del livello del servizio socio sanitario calabrese.

Lo spopolamento, pur presente su tutto il territorio regionale, segnato da denatalità e emigrazione giovanile, ha interessato soprattutto le zone interne e montane. A questo fenomeno, rilevante per le sue conseguenze negative, come lo svuotamento di interi centri abitati, lo sperpero di risorse umane e economiche, la perdita di un grande patrimonio culturale e ambientale, fino ad oggi è stata data poca importanza, e comunque è mancato un disegno integrato per contrastarne gli effetti negativi.

Conseguenza delle dinamiche prima descritte è stato il progressivo invecchiamento della popolazione, misurato dal rapporto vecchi/giovanissimi. Più in particolare, dal 1995 al 2025 il numero dei vecchi per 100 giovanissimi è aumentato da 75,5% a 196,2% con differenze molto marcate tra centri più urbanizzati e piccoli comuni. In questi ultimi si osservano infatti indici di vecchiaia elevatissimi: solo per fare qualche esempio ricordiamo che ad Alessandra del Carretto e a Castroregio in provincia di Cosenza oggi convivono rispettivamente 988 vecchi per 100 giovanissimi e 667 vecchi per 100 giovanissimi; a San Nicola dell’Alto in provincia di Crotone questo rapporto è di 620 vecchi per 100 giovanissimi.

L’invecchiamento demografico ha conseguenze potenzialmente molto negative, in particolare in una regione come la Calabria, caratterizzata in passato da un intenso esodo e da scarsi flussi migratori in entrata, per cui essa può essere considerata a ragion veduta un chiaro esempio di come la recente evoluzione dei comportamenti demografici e familiari (e le modificazioni quantitative che ne derivano) rappresentino un forte ostacolo ad un armonico sviluppo del sistema sociale ed economico del suo territorio. Una regione, dunque, a rischio concreto di implosione demografica e sociale se non saranno messi in campo strategie a livello nazionale e locale quanto meno per temperare le forti criticità prima segnalate.

La diminuzione della natalità, oltre alle conseguenze esaminate in precedenza, sta causando la riduzione numerica della popolazione giovanile: i giovani stanno divenendo sempre di più una risorsa rara. Di contro, l’aumento continuo della sopravvivenza sta gonfiando a dismisura le classi di età più elevate. Ricordiamo che questi trend demografici non rappresentano una prerogativa della popolazione italiana, ma sono un tratto comune a molti Paesi sviluppati. In Italia, però, questi accadimenti si caratterizzano per la forte intensità e velocità, provocando un intenso “inverno demografico”, che si avvia a divenire molto “severo” con conseguenze sociali ed economiche di grande impatto, per esempio anche sul mercato del lavoro e sul sistema pensionistico, per citarne soltanto due.

Recentemente la CGIA di Mestre in un suo Report ha mostrato, sulla base degli ultimi dati Istat disponibili, gli effetti della natalità sulle età giovanili, e in particolare nella fascia tra i 15 e i 34 anni, che è il segmento in procinto di entrare nel mercato del lavoro o che vi è entrato da poco, evidenziandone il calo nell’ultimo decennio e rimarcando i decrementi differenziali a livello regionale e provinciale. Per l’autorevolezza della fonte, quest’analisi ha avuto una vasta eco nei media, con considerazioni e prese di posizione e proposte a volte estemporanee da parte di commentatori politici, commenti che denotano una scarsa conoscenza dell’impatto delle dinamiche demografiche sulla società mentre, come le esperienze della storia sociale passata e più recente insegnano, far nascere più figli in un paese, e nel nostro in particolare, richiede una politica demografica razionale e molto pervasiva, di non facile implementazione, con corposi investimenti finanziari di lungo periodo che vadano a incidere in modo profondo sulla vita delle famiglie, in modo da creare un clima favorevole verso una prole più numerosa; che sappia trasformare l’immigrazione da problema a risorsa strategica.

Politica demografica fino ad oggi da noi del tutto assente, a parte alcuni interventi: semplici “ristori” alle famiglie che hanno già dei figli. Dai dati del Report della CGIA si coglie ancora che le regioni del Mezzogiorno negli ultimi dieci anni hanno occupato le prime posizioni nella graduatoria delle regioni italiane per diminuzione della popolazione giovanile (15-34 anni), con riduzioni che vanno da -19,9% della Sardegna a -19.0 della Calabria, che è il valore negativo più elevato del Mezzogiorno dopo la Sardegna, e via via fino ad giungere al -12,7% della Campania, a fronte di un calo medio dell’Italia di -7,4%. Ricordiamo che, sempre nello stesso periodo, il calo della numerosità della fascia giovanile nelle altre ripartizioni italiane è stato molto contenuto: Nord- Ovest -1,0%; Nord-Est -0,5%; Centro -6,6%.

Gli effetti della denatalità sulle popolazioni giovanili del Mezzogiorno si associano a livelli di disoccupazione molto elevati. Ricordiamo che nel 2022 i tassi di disoccupazione giovanile (15-24 anni di età) di queste regioni sono i più alti d’Italia: Sicilia 43,2%, Campania 42,6%, Calabria 34,8%, Puglia 32,0%, Molise 30,8%, Sardegna 27,4%, Basilicata 25,1%, Abruzzo  23,8%, valor medio Italia 23,7%. Secondo le previsioni Istat, ipotesi mediana, nel 2030 la popolazione complessiva della Calabria dovrebbe ridursi a 1.755.756, nel 2040 a 1.646.306, nel 2050 a 1.516.652 e addirittura a 1.236.168 abitanti nel 2070. Sulla base di queste previsioni la fascia dei giovani calabresi conoscerà una ulteriore e continua diminuzione, passando da 395.436 giovani del 2023 a 267.758 nel 2050 (-32,3%): una risorsa dunque sempre più rara ma nel contempo sempre più fragile.

Questi dati, insieme con gli alti tassi di abbandono scolastico e livelli educativi bassi osservati, marcano un’area del Paese, e la Calabria in particolare, con un grave disagio sociale che sarà ancora più acuto se andrà in porto l’autonomia differenziata, che costringerà le giovani generazioni del Mezzogiorno a emigrare verso le aree più ricche del Paese, dove avranno la possibilità di trovare più facilmente un lavoro e salari più elevati. Coloro i quali resteranno andranno verosimilmente incontro ad una vita lavorativa precaria e frammentata, destinata a concludersi,”, con una pensione molto prossima a quella sociale, stante il sistema pensionistico attuale del “retributivo puro.

In epoca recente la mobilità degli italiani è cresciuta notevolmente. Questo aspetto si coglie chiaramente dalle statistiche dell’Aire – l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Infatti, negli ultimi diciotto anni il numero degli iscritti all’Aire è raddoppiato, passando da 3 milioni 106 mila del 2006 a 6 milioni 134 mila nel 2023. Ciò è da attribuire, oltre all’accresciuta mobilità degli italiani, anche alla maggiore consapevolezza che l’iscrizione all’Aire è il requisito essenziale per poter usufruire di tutta una serie di servizi forniti dalle rappresentanze consolari.

L’esame degli espatri degli anni più recenti, oltre a confermare che la gran parte di essi riguarda i giovani e i giovani adulti, fa emergere anche un aspetto nuovo, e cioè l’aumento degli espatri nell’età adulta (classe 50-64, incremento del 21,0%), ma soprattutto quello dei pensionati (classe 65 e oltre, incremento del 43,4%), fenomeno, quest’ultimo, ancora tutto da analizzare. Da questa fonte, anche se lacunosa ma comunque importante, si coglie anche quanto sia consistente la comunità dei calabresi all’estero, conseguenza in parte della sua storia passata ma anche della nuova mobilità: nel 2023 è la Sicilia ad avere la popolazione residente all’estero più numerosa, 815 mila iscritti all’Aire, seguono Lombardia con 611 mila iscritti, Campania con 549 mila, Veneto con 526 mila, Lazio con 502 mila e la Calabria con 441 mila iscritti, che risulta altresì una delle prime regioni per incidenza rispetto alla popolazione residente (24%). Dunque, un patrimonio di persone molti dei quali possiedono un livello di istruzione elevato; importante oltre che dal punto di vista numerico anche sociale ed economico; una comunità fortemente legata alla terra di origine dalla quale si aspetta attenzione e considerazione.

Da regione di emigrazione a regione di immigrazione e di accoglienza. Sono questi anche altri due tratti importanti che si colgono da uno sguardo alla Calabria degli ultimi decenni. Ricordiamo che al censimento del 2023 la popolazione residente straniera in Calabria è risultata essere 99.097 su una popolazione di 1.838.568 (incidenza 5,4%; valor medio italiano 8,8%). Ricordiamo ancora che a fine 2023 sono stati oltre 6 mila i presenti nelle strutture di accoglienza regionali e che la Calabria si colloca al decimo posto per  numero di persone accolte.

Questo fenomeno, pur ancora poco rilevante sia numericamente sia per incidenza sulla popolazione residente è comunque in crescita e sta trasformando sempre di più la nostra regione in una società multi etnica e multi culturale, facendo emergere è vero nuovi problemi, come quelli connessi per esempio all’integrazione, pur tuttavia non dobbiamo dimenticare gli indubbi apporti postivi dei lavoratori immigrati al settore agricolo, a quello dell’edilizia, all’assistenza familiare e il loro contributo alla crescita del Pil regionale. (gdb)

[Giuseppe De Bartolo, già ordinario di Demografia Università della Calabria]

AL SUD NON SERVE ASSISTENZA, MA CREARE
VERA OCCUPAZIONE PER FERMARE LA FUGA

Di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «No all assistenzialismo, noi vogliamo creare posti di lavoro veri». Questo è il mantra che viene ripetuto dal Centrodestra ogni volta che vi sono dei dati positivi riguardanti la crescita del reddito, oppure quella dei posti di lavoro. 

Un modo diverso di dire la stessa cosa sarebbe non vogliamo dare ogni giorno un pesce ma insegnare a pescare. È difficile non essere d’accordo con questo principio. Rendere autonomo ciascuno, consentendogli di avere una occupazione, non è importante soltanto per consentire la sopravvivenza individuale  e un progetto di futuro, ma anche per rendere ciascuno libero dal bisogno, lontano dalla tentazione di scambiare il proprio voto per un diritto mancato, che viene presentato dalla classe dominante estrattiva di torno come una cortesia o un favore concesso. 

L’opposizione di questo Governo al reddito di cittadinanza in realtà deriva da questa convinzione: bisogna evitare che la gente non  studi come sbarcare il lunario ma si abbandoni a una inedia che non aiuta certamente il Paese ma che fa male anche al singolo individuo che, non cercando più una occupazione, entra in quella categoria maledetta che viene definita dall’acronimo Neet, né al lavoro, né in formazione, né in training. Nullafacenti per vocazione o per mancanza di lavoro, che si abbandonano al non dolce ma amaro far niente.  

In realtà il provvedimento confusionario del Reddito di Cittadinanza nei suoi scopi voleva raggiungere obiettivi diversi, come quello di assistere coloro che erano in situazioni di bisogno, ma anche di trovare con i cosiddetti navigator un posto di lavoro e per questo era destinato al fallimento. 

Il problema infatti non era quello  di far incontrare la domanda con l’offerta di lavoro, situazione che caratterizzava soltanto alcune situazioni, ma di sopperire a una mancanza assoluta di posti di lavoro che avessero una richiesta di skill di un certo tipo, in genere anche medio alti, considerato che come è noto il mercato del lavoro è segmentato e la possibilità di passare da un settore all’altro non è sempre facile né, spesso, opportuna. Portare  un ingegnere a raccogliere pomodori, se anche fosse disponibile a farlo, sarebbe uno spreco dell’investimento fatto dal Paese per farlo arrivare a quel grado di preparazione. 

Lo strumento nasceva con un limite che era quello di adottare un assistenzialismo diffuso, senza quei controlli necessari per evitare che i furbetti potessero accedervi senza alcun timore di essere scovati.      

Adesso con lo strumento istituito dall’Inps coloro che ne usufruiscono sono molto meno. Infatti l’Istituto comunica che al 30 giugno 2024 sono state accolte quasi 700 mila domande relative all’Assegno di inclusione (Adi), domande che fanno riferimento ad altrettanti nuclei familiari e che coinvolgono circa 1,7 milioni di cittadini. 

L’Assegno d’Inclusione (Adi), come sottolinea l’Inps, «è una misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro condizionata al possesso di requisiti di residenza, cittadinanza e soggiorno, alla prova dei mezzi sulla base dell’Isee, alla situazione reddituale del beneficiario e del suo nucleo familiare e all’adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa». 

Se si pensa che con il reddito di cittadinanza nella sola Campania vi era un parco di fruitori che arrivava ad oltre 600.000 persone  ed in Sicilia ad oltre 500.000, si capisce come vi sia stato un taglio molto pesante. 

Se questo riguarda coloro che in effetti non avevano diritto il risultato non può che essere apprezzabile, ma se invece il taglio riguarda nuclei familiari indigenti, che in tal modo non hanno nessuna forma di protezione, residenti prevalentemente nel Mezzogiorno d’Italia, allora il risparmio avviene sulla pelle dei più poveri ed emarginati.  

È interessante per sciogliere tale dubbio confrontare  questi dati con quelli relativi alla povertà assoluta. Si tratta di oltre 2 milioni 234 mila famiglie povere, per un totale di circa 5 milioni 752 mila individui in povertà assoluta. L’incidenza maggiore, anche se pressapoco stabile, si registra nel Mezzogiorno. Record dei minori dove l’incidenza della povertà è pari al 14%, il valore più alto dal 2014. 

Le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022). Si tratta di oltre 2 milioni 234 mila famiglie, per un totale di circa 5 milioni 752 mila individui in povertà assoluta. È quanto rileva l’Istat. Sono indicate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore a una soglia minima corrispondente all’acquisto di un paniere di beni e servizi considerato essenziale a garantire uno standard di vita minimamente accettabile e a evitare gravi forme di esclusione sociale. 

L’incidenza di povertà assoluta familiare per ripartizione, spiega  l’Istituto, mostra nel 2023 il valore più elevato nel Mezzogiorno (10,3%, coinvolgendo 866mila famiglie), seguito dal Nord (8,0%, un milione di famiglie) e dal Centro (6,8%, 365mila famiglie). L’incidenza individuale conferma il quadro tratteggiato, con il Mezzogiorno che mostra i valori più elevati (12,1%).

Questi dati dimostrano che la dieta dimagrante dell’assistenza ha coinvolto anche famiglie che ne avrebbero avuto diritto. Se non siamo alla macelleria sociale bisogna stare attenti a non esservi vicino. 

Certamente l’eliminazione del reddito di cittadinanza o di qualunque altra forma di assistenza costringe molta gente ad accettare ogni  forma di lavoro, spesso al limite dello sfruttamento, o anche a trasferirsi dal Sud  a centinaia di chilometri di distanza pur di conseguire un reddito. Spero che non fosse questo l’obiettivo non dichiarato della riforma che partiva dal concetto sbagliato di occupabile, che  presupponeva  che il mercato del lavoro non fosse segmentato, come in effetti è. 

Siamo tutti d’accordo che bisogna limitare per quanto possibile le forme di assistenza per evitare che gli individui si  adagino e pensino di potersi farsi mantenere a vita da uno Stato troppo buono, ma allora il vero sistema è quello di creare veri posti di lavoro, e nelle realtà in cui servono. Perché altrimenti si rischia come sta avvenendo un continuo processo migratorio che certamente non fa bene al Paese. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud  – L’Altravoce dell’Italia]

LA “QUESTIONE ITALIANA” È L’EMIGRAZIONE
DEI GIOVANI DEL SUD, NON L’IMMIGRAZIONE

La “Questione italiana” è l’emigrazione, non l’immigrazione. È l’allarme lanciato dalla Svimez, nel corso del convegno FestambienteSud promosso da Legambiente e svoltosi in Puglia, evidenziando come «l’incremento delle diseguaglianze di genere, generazionali e territoriali è la principale causa del gelo demografico italiano».

Negli ultimi anni, infatti, il tasso di natalità sempre più basso e un’aspettativa di vita sempre più lunga hanno portato l’Italia tra i paesi più anziani in Europa e nel Mondo; ma le dinamiche naturali hanno avuto impatti territoriali differenziati, colpendo in maniera più rapida e severa il Sud. Anche la componente migratoria interna e internazionale ha contribuito ad ampliare gli squilibri demografici Sud-Nord.

Nelle regioni settentrionali si concentrano prevalentemente le comunità immigrate, contribuendo a ringiovanire una popolazione strutturalmente anziana. Il Mezzogiorno continua a soffrire di un deflusso netto di giovani (1 su 3 laureato) verso il resto del Paese e verso l’estero.

La Lombardia, ad esempio, registra una variazione netta positiva, intercettando i flussi migratori interni e esteri. Al contrario, la Puglia continua a perdere popolazione che si sposta nelle altre regioni (specialmente al Nord) e all’estero. Stando alle proiezioni Istat, al 2042 la Puglia perderà oltre 418mila cittadini (- 11%). 1/3 nei comuni delle aree interne (-100mila) in cui oggi risiede il 22% della popolazione. Le riduzioni maggiori si osservano nelle giovani fasce d’età, con la popolazione che si contrarrà di oltre il 30%, con picchi del 35% nelle aree interne. Si perde forza lavoro, si va verso una maggiore senilizzazione della società, si smantella progressivamente il sistema di servizi all’infanzia (se presente), si svuota la scuola.

Di fronte a questo quadro desolante, per la Svimez, una ripresa della dinamica demografica è conseguibile attraverso un riequilibrio delle condizioni di accesso ai diritti di cittadinanza, investendo in infrastrutture sociali per migliorare qualità dei servizi pubblici nei territori a maggior fabbisogno, a partire dalla scuola e dalla sanità, per migliorare il saldo naturale; attraverso un freno alla fuga delle competenze e creando domanda di lavoro qualificato; attraverso politiche in grado di attrarre migranti con misure di inclusione (servizi, borse di studio, accompagnamento e formazione al lavoro).

Per Luca Bianchi, direttore della Svimez, «l’autonomia differenziata determinerà un’ulteriore divaricazione dell’offerta di servizi e di conseguenza un incremento delle emigrazioni (sanitarie, universitarie, lavorative), rafforzando il trend di spopolamento dei territori marginali».

Un’ulteriore approfondimento sui divari territoriali e le difficoltà di accesso al credito l’ha fornito il presidente della Svimez, Adriano Giannola, intervenendo alla 15esima edizione della Conferenza Nazionale di Statistica: «la difficoltà di accesso al credito ostacola – non poco! – la convergenza territoriale. Oggi il dualismo è tornato prepotentemente dopo gli anni della convergenza (1951-anni ’80) e il tema creditizio merita grande attenzione».

«Nel 1972 Saraceno, fondatore con Morandi e Menichella della Svimez – ha ricordato Giannola – espresse una valutazione di grande attualità: “…quando iniziai la non facile ma interessante esperienza della Cassa dissi che tre erano gli indicatori che dovevamo monitorare attentamente perché erano quelli che sulla base degli investimenti che andavamo a realizzare avrebbero dovuto subire un sostanziale cambiamento; mi riferisco al reddito pro-capite, al tasso di disoccupazione e al costo del denaro. Dopo venti anni ci sono flebili segnali positivi sui primi due indicatori mentre sul terzo, purtroppo, non è accaduto nulla. E questo, devo essere sincero, è davvero preoccupante perchè rappresenta il riferimento determinante per un processo di crescita. Sono sicuro che…, il mondo bancario annullerà queste forme discriminanti nei confronti delle iniziative nel Mezzogiorno”».

«Alla luce delle evidenze successive al 1990 – ha aggiunto il presidente Svimez – un illustre analista commenta “…lo Stato… in tutti questi anni non ha mai dichiarato che quel rischio differenziale denunciato… possa essere assorbito ad opera sua”: è lampante in effetti che il drastico razionamento della spesa pubblica in conto capitale al Sud, il consolidamento bancario degli anni 1990, il passaggio della vigilanza da strutturale a prudenziale, sono fattori che non hanno attenuato il differenziale che condiziona il merito creditizio di famiglie e imprese del Sud».

«Lo Stato e la Banca Centrale – ha proseguito – hanno affrontato il problema con una terapia distillata da una diagnosi secondo la quale per incidere sul divario è prioritario puntare a recuperi di efficienza promossi a loro volta dall’ apertura del mercato “locale” al vento della concorrenza. Su queste basi l’ obiettivo dichiarato di eliminare oltre il 60% del dualismo creditizio ha legittimato il rapidissimo consolidamento che ha scientemente e inopinatamente spazzato via il sistema bancario meridionale. Che la terapia non fosse idonea, efficace e men che meno risolutiva lo dice la cronaca trentennale che, ormai è storia, conferma per mutuatari ed imprese del Sud che poco o nulla è cambiato: il dualismo consolidato, domina ora come allora».

«Cancellati con chirurgica rapidità i grandi banchi (gli Icdp) del Sud, aggiudicati a quelli del Nord alla cui gestione si affida il neonato mercato unico dei capitali, scompare la dimensione del fine tuning interbancario strategico per gestire il dualismo creditizio mentre la raccolta del Sud razionalmente impiegata sul mercato duale premia ovviamente, e più di prima, imprese e operatori del Centro Nord (100 mld/anno nel 2022) condizionando Pmi e clientela nel Mezzogiorno – ha detto ancora –. Né, in questo panorama, le grandi banche nazionali del mercato unico dei capitali vincono la sfida dell’ efficienza che invece perdono in assoluto e nel confronto specifico con quel che resta del sistema creditizio del Sud: le Bcc e il fragile retaggio delle Banche Popolari. Costringere la gestione operativa di un sistema ostinatamente duale nel mercato unico del credito, viola basilari regole grammaticali del dualismo perché atrofizza l’ azione tradizionalmente svolta sull’ interbancario dalla sapiente, più indipendente ed esperta gestione della Banca Centrale. Questa, abdicando al suo ruolo, senza cogliere l’ obiettivo consolida la patologia».

«L’ansia di prestazione suggerisce terapie frutto di cedimenti all’accademica nella lettura di un fenomeno ben noto proprio alla Banca Centrale che, La Banca Centrale non più sovrana a scala nazionale e al governo dell’Euro, potrebbe svolgere un ruolo di eccezionale rilevanza sul monitoraggio e gestione del dualismo – unico per intensità e storia nell’Unione proprio e su un terreno di sua stretta competenza –. È paradossale – ha concluso – che il più completo e prestigioso laboratorio di ricerca e analisi nazionale, patrimonio della Banca Centrale non contribuisca attivamente come avviene in altri contesti in modo sistematico ed operativamente incidente». (rcz)

LA MANCANZA DI VISIONE DELLA POLITICA
SUL VALORE DEGLI AEROPORTI PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Centonovantasette milioni di passeggeri nel 2023. Il presidente di Assaeroporti, Carlo Borgomeo, ha commentato: «il 2023 si è chiuso con quasi 200 milioni di passeggeri, un record assoluto per gli aeroporti italiani, un’importante soglia psicologica raggiunta. Si conferma una straordinaria voglia di volare, a riprova della resilienza del nostro comparto, che è in ottima salute e resta strategico per il Paese».

Certamente il fatto che la gente si muova potrebbe essere un indicatore di benessere. Ma se vogliamo andare a indagare sui dati possono anche essere interpretati in maniera più articolata e complessiva. Se confrontiamo infatti i dati degli aeroporti italiani con quelli degli aeroporti francesi ci accorgiamo che la Francia ha 30.000 passeggeri meno in un anno. Circa 160 milioni e se consideriamo che il reddito pro capite francese è più alto di quello italiano qualche domanda ce lo dobbiamo fare.

Infatti il grande traffico aereo può derivare, oltre che da una capacità economica maggiore dei paesi interessati, anche da altri due fattori: il primo è quello di una mobilità all’interno del paese particolarmente elevata dovuta al fatto che vi sia una sviluppo economico diseguale che porta, come accade in Italia, molta gente a viaggiare da un lato all’altro, perché si sposta dalla sua residenza al lavoro. Magari non giornalmente ovviamente, ma avendo parenti, amici, radici, in una parte e il lavoro in un’altra i viaggi diventano abbastanza numerosi e frequenti. 

Tale visione è confortata dai dati degli aeroporti meridionali che rappresentano, con i circa 60 milioni di passeggeri, quasi un terzo del traffico complessivo. Tale dato è anomalo e non è collegato al reddito pro capite, ma alla popolazione. In realtà, avendo un reddito pro capite che è la metà di quello del Centro Nord, dovrebbe avere un traffico di gran lunga inferiore, invece unico dato rispetto a tasso di occupazione, export pro capite, a tasso di povertà e potrei continuare a lungo, dati che sono ovviamente a dimostrare un diverso sviluppo, il numero di passeggeri invece é in linea con la popolazione ed evidenzia che è così alto proprio perché vi è questa mobilità interna dovuta alle migrazioni.

Il secondo aspetto, che mette in evidenza, é la carenza di alternative ferro aria o gomma aria. Cioè il fatto che le movimentazioni attraverso le ferrovie e attraverso le strade sono così carenti che l’unico mezzo disponibile diventa l’aereo. 

Tale riflessione è confermata abbondantemente dallo stato delle infrastrutture del Sud, abbandonate da anni da parte di Rfi, ma anche di Anas, che scontano un ritardo ventennale rispetto ai collegamenti del Centro Nord. Ormai da Roma a Milano si utilizza spesso l’alta velocità ferroviaria come è noto a tutti, mai da Roma a Palermo. Tali riflessioni possono aiutare a cambiare visione adesso che il Piano Nazionale degli Aeroporti, di prossima pubblicazione, deve definire le  linee strategiche per il comparto. Perché le riflessioni fatte possono aiutare  a individuare le esigenze dei nuovi scali. 

Perché evidentemente, considerato che per completare una linea di alta velocità velocità ferroviaria o un’autostrada sono necessari 10 anni e costi incredibilmente alti e che invece per fare un aeroporto bastano pochi mesi, e poco più del costo di 2 km di autostrada, se non si considerano i tempi burocratici necessari per le autorizzazioni, che teoricamente potrebbero essere ridotti, si potrebbe pensare a soluzioni provvisorie che consentano di collegare i territori più  periferici e marginali, in modo da potenziare le loro possibilità di sviluppo, in attesa di quelle infrastrutture stradali e ferroviari che possano rendere inutile una struttura aeroportuale, che come si apre potrebbe pensarsi anche che possa chiudersi, laddove le esigenze di collegamento aereo venissero meno.

L’esempio più calzante che spiega e dimostra che il ragionamento è corretto è quello delle esigenze aeroportuali di Agrigento. Cittadina che è distante oltre due ore da qualunque scalo aeroportuale e che, per i prossimi 10 anni, é certo che non avrà un’alta velocità ferroviaria né un’autostrada che la collegherà agli aeroporti più vicini. Nel frattempo però, nel 2025, sarà capitale della cultura. La sua Valle Dei Templi è un tesoro che aspetta soltanto di essere scoperto adeguatamente da un pubblico che arrivi da tutte le parti del mondo. Considerato che, se adeguatamente valorizzata,  potrebbe rientrare nei primi 10 posti che ognuno nella vita non deve perdersi, come le piramidi d’Egitto per esempio,  Petra, Machu Picchu, le cascate del Niagara, le piramidi Maya, il Partenone o il Colosseo. 

E certo una vera utilizzazione e scoperta può avvenire solo se vi sono dei collegamenti adeguati. La riserva più importante che viene posta, quando si parla di aeroporti, è quella di un traffico minimo che ne consenta la sopravvivenza, senza che vada in passivo. 

Ma è chiaro a tutti che il ragionamento va fatto non a bocce ferme, né pensando che gli aeroporti debbano servire per il collegamento dei residenti con Roma e Milano. Ma capendo perfettamente che si tratta di strutture al servizio soprattutto dell’incoming, cioè quei collegamenti che possono portare i tanti ricchi europei, che sono costretti a vivere  in posti dove, e per sei mesi, sono sotto lo zero, a venire a svernare o a viaggiare per vedere località  dove ai primi di  febbraio la primavera inizia  e inonda di bianco una Valle Dei Templi che festeggia la sua sagra del mandorlo in fiore, normalmente ignorata dalla Rai pubblica, davanti ad un Tempio della Concordia, in una area archeologica  tanto ben conservata da far invidia alla zona archeologica del Partenone. 

Bene, a parte il fatto che con accordi con compagnie tipo Ryanair anche scali come Trapani riescono ad arrivare al milione e mezzo di passeggeri che dovrebbe essere quel dato che consente un break even di utili, bisogna capire che gli aeroporti in alcune realtà possono anche costituire una struttura di servizio all’economia, che anche se può perdere qualche milione di euro in un anno, come succede ai trasporti locali o ad altre utilities, se poi mette in movimento un volano che porta ad una complessiva crescita del sistema economico, può essere una scelta che nella globalità é conveniente. 

Poi considerando come spesso la politica distribuisce mance e mancette, risorse per sagre della ricotta o del carciofo che non hanno alcun significato economico, ci rendiamo conto come le risorse che possono essere dedicate ad un’aeroporto, se non servono per  l’assistenza sociale a disoccupati che vengono assunti per avere un posto non per fare un lavoro, allora la visione può anche essere differente. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

Saccomanno (Lega): In 10 anni spariti 400 mila giovani, Ponte sullo Stretto ultima speranza

Secondo il politico della Lega, Giacomo Saccomanno, ben 400.000 giovani sono “spariti” da queste regioni, lasciando un vuoto demografico che rappresenta una sfida per il futuro. In questo contesto, il ponte sullo Stretto di Messina viene considerato come l’ultima opportunità per invertire questa tendenza negativa.
Saccomanno sostiene che il Ponte potrebbe rappresentare una svolta per il ripopolamento demografico della Sicilia e della Calabria, offrendo nuove opportunità di lavoro e sviluppo economico. Tuttavia, Saccomanno critica coloro che si oppongono al progresso e al ponte sullo Stretto, accusandoli di volere solo il male delle proprie comunità meridionali. Secondo il politico, questa opposizione al progresso è disastrosa e antidemocratica, poiché impedisce lo sviluppo e la crescita delle regioni del Sud.
Il ministro Matteo Salvini viene elogiato per la sua visione lungimirante, in grado di comprendere l’importanza di investire nel progresso e nel collegamento tra le due regioni.
Il ponte sullo Stretto, secondo Saccomanno, potrebbe rappresentare un’opportunità unica per rilanciare l’economia e attrarre nuove risorse e investimenti nelle regioni meridionali. In conclusione, il ponte sullo Stretto di Messina viene considerato come l’ultima speranza per invertire la tendenza alla diminuzione della popolazione giovanile in Calabria e Sicilia. Saccomanno sostiene che coloro che si oppongono al progresso stanno danneggiando le proprie comunità, mentre il ponte potrebbe rappresentare una svolta per il ripopolamento e lo sviluppo economico delle regioni meridionali. (rcz)

Il presidente Occhiuto: Calabria e Sicilia hanno bisogno anche di altre infrastrutture oltre che del Ponte

«Abbiamo spiegato al ministro Salvini che la Calabria e la Sicilia hanno bisogno anche di altre infrastrutture, oltre al Ponte sullo Stretto», ha dichiarato il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, nel corso della trasmissione Agorà su Rai 3.

«Nella mia Regione, ad esempio – ha spiegato – abbiamo una strada definita ‘della morte’ e si tratta di un’arteria giudicata prioritaria dall’Europa – la Statale 106 Jonica – ma negli anni i vari governi non sono mai riusciti a realizzare gli investimenti necessari per la modernizzazione e la messa in sicurezza. Abbiamo grandi emergenze sul fronte idrico e anche su questo ho chiesto al ministro Salvini un supplemento d’attenzione».

Tornando sul Ponte, il governatore ha auspicato che i lavori «inizino nel 2023 e lo spera soprattutto il ministro Salvini. Io governo una Regione che ha al suo interno il primo porto d’Italia, quello di Gioia Tauro, per cui ho sotto gli occhi quanto importante sia diventato il Mediterraneo».

«Nei prossimi anni – ha spiegato ancora – compreremo l’energia dal Mediterraneo. I Paesi che si affacciano nel nostro mare cresceranno con incrementi del Prodotto interno lordo che saranno di grande utilità anche per le nostre imprese. E allora, se il Mediterraneo è così importante, un’infrastruttura come il Ponte sullo Stretto diventa strategica per dimostrare la volontà dell’Italia di fare della Calabria e delle Regioni del Sud l’hub del Paese e dell’Europa sul Mediterraneo».

Sul tema dei migranti, invece, Occhiuto ha spiegato che «la Rise Above è stata accolta in Calabria, a Reggio, perché la Ong ha operato con il concerto delle autorità competenti. Devo dire, però, che la mia Regione non ha accolto solo questa nave. Dall’inizio dell’anno in Calabria ci sono stati sbarchi che hanno dato ospitalità a 15mila immigrati».

«Ci sono nuove rotte dell’immigrazione che stanno riguardando la Calabria – ha continuato –. C’è un Comune bellissimo, Roccella Jonica, che è stato interessato da numerosi sbarchi. Però non facciamo polemiche sui migranti. La mia è una Regione abituata a subire l’emigrazione. Tanti calabresi nel corso degli anni sono emigrati in altri Paesi del mondo. La Calabria è una Regione accogliente, ma credo che questo sia un processo che vada governato. Quando emigravano gli italiani andavano in Paesi che governavano l’immigrazione. Oggi noi non riusciamo a farlo».

«Sarebbe utile – ha continuato – che ci facessimo sentire un po’ di più in Europa e che tutta la comunità politica fosse più unita. Trovo singolare che addirittura si festeggi quando l’Europa dice no al governo nazionale. Bisogna tifare per l’Italia a prescindere del colore politico dell’esecutivo. Se l’Europa si dimostra solidale se ne avvantaggia il Paese intero, non solo una parte politica».

Il presidente della Regione, poi, dicendosi felicissimo dell’importante scoperta dei 24 bronzi a San Casciano dei Bagni in Toscana, che tuttavia viene «dopo quella dei Bronzi di Riace, che rappresentano un primato assoluto e dovrebbero essere un attrattore culturale non soltanto per la mia Regione, ma per tutto il Paese».

« È un peccato che a distanza di 50 anni non lo siano ancora diventati», ha concluso. (rrm)

Il sindaco Giuseppe Falcomatà: Fare rete per strategia comune sui fenomeni migratori

«Fare rete per costruire strategia comune  sui fenomeni migratori». È quanto ha dichiarato il sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà, nel corso del Forum internazionale From the sea to the city a Palermo.

Reggio Calabria, infatti, insieme ad altre 100 città fra le quali Valencia, Barcellona, Villeurbanne, Parigi, Marsiglia, Monaco di Baviera, Mannheim, Düsseldorf, Flensburg, Amsterdam, Bergamo, Palermo, Bologna, Bari, Atene, Tunisi e Potsdam, sostiene il network che riunisce organizzazioni della società civile che, da anni, si battono per i diritti dei migranti.

Durante il dibattito, moderato dalla giornalista del Tg3 Maria Cuffaro, Giuseppe Falcomatà ha parlato al fianco dei sindaci di Marsiglia, Michele Rubirola, di Palermo, Leoluca Orlando, di Potsdam, Mike Schubert, di Bergamo, Giorgio Gori, di Flensburg, Simone Lange, e di Pozzallo, Roberto Ammatuna, rispondendo alla domanda: Come possono le città assumere un ruolo attivo nell’accoglienza dei rifugiati?

Proprio nell’introduzione, la Cuffaro ha ricordato quello che ha definito «l’atto di ribellione e di disobbedienza civile della Città di Reggio Calabria, quando aprì il porto ad una nave con a bordo 629 persone sfidando la contrarietà dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini». 

«Quando succedono queste cose – ha detto Falcomatà – noi sindaci affrontiamo la situazione da esseri umani, da individui e padri di famiglia. Non potrebbe essere diversamente. Le tematiche dell’accoglienza, dell’integrazione, del sostegno ai rifugiati, infatti, sono cose naturali per chiunque abbia deciso di mettersi a disposizione per l’amore di una città. A Reggio Calabria, in particolare, serve anche per raccontare una terra diversa rispetto alle narrazioni che spesso i media fanno».

«Accogliere, per i reggini, fa parte di una tradizione millenaria», ha aggiunto Falcomatà riprendendo le parole della sindaca di Marsiglia o del sindaco di Palermo che hanno detto d’essere “francesi di Napoli o arabi di Sicilia”.

«La città – ha affermato Falcomatà – è di chi la abita. Noi siamo greci, ebrei, arabi, cattolici, musulmani, atei, etc. Ciò che ci unisce non è quello che è scritto sui nostri documenti, ma sono le nostre storie. Noi del Sud la migrazione l’abbiamo sentita e la sentiamo sulla nostra pelle e non si può rimanere indifferente di fronte a tragedie umane, come istituzioni certo, ma prima di tutto come essere umani nei confronti di altri esseri umani. Reggio Calabria, negli anni intensi del 2016 e 2017, ha avuto una media due, tre, a volte quattro navi per settimana arrivate al porto. Ed i cittadini, in maniera del tutto naturale, hanno creato una rete d’accoglienza anche solo per regalare un sorriso ai migranti».

«C’è un populismo della politica – ha continuato il sindaco di Reggio – e ce n’è un altro e dell’informazione che racconta, spesso parzialmente e senza il dovuto approfondimento, le storie che si nascondono dietro chi arriva sulle nostre coste. Andiamo a vedere i video della Guardia costiera o delle associazioni impegnate in mare per il recupero dei barconi. Sono tragedie immani che, se raccontate nella maniera giusta, ridurrebbero gli effetti del populismo».

«Il 3 giugno 2016 – ha ricordato Falcomatà – il mare ha restituito a Reggio i corpi di 45 vittime migranti che, oggi, trovano una degna sepoltura in un cimitero collinare dove ognuno può andare a piangere i propri cari e pregare i propri simboli religiosi. È responsabilità amministrativa di fronte a questi drammi assurdo. La nostra Commissione rifugiati, per esempio, ha intervistato oltre 10 mila persone che non scappano soltanto da guerre, carestie e tragedie, ma sul loro volto si legge la paura di continuare a sentirsi schiavi come lo sono stati fino al giorno del loro arrivo nel nostro Paese. Il nostro compito è di accompagnarli nel percorso di reinserimento sociale, lavorativo, educativo e culturale».  

«Quella di oggi – ha concluso – è una giornata importantissima e ringrazio il sindaco Orlando per aver voluto organizzare un evento  che permette a noi sindaci di fare rete responsabilizzando le Città nella ricerca di una strada per la soluzione di problemi che, purtroppo, gli Stati hanno deciso di non affrontare o di farlo in maniera non troppo efficace. Idee come il Servizio civile europeo per i rifugiati vanno sostenute, così come il prosieguo di iniziative come questa di Palermo. In questo senso, Reggio Calabria si propone per ospitare i prossimi meeting della rete solidale». (rrc)