L’OPINIONE / Mons. Francesco Savino: Non è sufficiente condannare la mafia

di MONS FRANCESCO SAVINO – Sento il dovere, innanzitutto, di ringraziare tutti voi qui presenti e, in particolare, i confratelli Vescovi, i relatori e gli organizzatori di quest’iniziativa, che si colloca come momento culturale particolarmente significativo nella serie di appuntamenti pensati per dare rilievo al decimo anniversario della visita di Papa Francesco in Calabria, nella Diocesi di Cassano all’Jonio.

Sono indelebili le parole che il 21 giugno 2014 il Papa pronunciò durante l’omelia della Messa, celebrata nella spianata di Sibari, nei primi vespri della Domenica del Corpus Domini: «Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa, che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».

Sul senso della scomunica e, in particolare, di quella con cui Papa Francesco ammonì i mafiosi, si sono interrogati i relatori che sono intervenuti nella due sessioni della tavola rotonda.

Occorre anche chiederci, guardando oltre la vita più consueta delle comunità cristiane: quanto quelle parole hanno scosso la coscienza dei mafiosi? E quanto quelle parole continuano a interpellare la nostra coscienza di cristiani, impegnati nella sequela del Risorto e inviati ad annunciare la vita buona del Vangelo in questo territorio?

Il rischio, infatti, può essere quello di ridurre la questione a ricercare e a elaborare una veste giuridica per configurare un nuovo reato nell’ordinamento canonico della Chiesa, con la conseguente sanzione. Ma è sufficiente la configurazione di un reato e della relativa pena perché le parole profetiche del Papa sortiscano l’effetto per le quali sono state pronunciate dieci anni or sono?

Certamente una tale prospettiva è utile, se viene considerata nel più ampio contesto del fine della pena canonica e, in particolare, della tipologia delle pene medicinali, a cui appartiene la scomunica, ovvero quello di fare in modo che il criminale receda dalla contumacia e ritorni nella comunione ecclesiale, garanzia della comunione con il Signore Risorto.

Tuttavia, per coloro che non hanno affatto a cuore la comunione ecclesiale, né tantomeno la propria comunione con Dio, che fine potrà mai sortire una eventuale scomunica? È chiaro che non è affatto sufficiente sanzionare quando manca quasi del tutto il senso di appartenenza al popolo di Dio.

È necessario, perciò, domandarci quale “conversione pastorale” richiedono le parole profetiche di Papa Francesco per l’evangelizzazione in Calabria.

Tenterò, perciò, di abbozzare alcune piste. La prima pista possiamo accoglierla nell’opportunità costituita dal cammino sinodale in atto che, ancor prima di offrire risposte e risultati, riconsegna uno “stile” di essere Chiesa che cammina insieme, che sa ascoltare, che dialoga con il mondo, che esercita la propria vocazione profetica a partire dalla testimonianza di una vera e propria “differenza” costituita dalla “vita buona del Vangelo”, che si pone con uno stile autenticamente diaconale nei confronti degli uomini e delle donne, di cui sa condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” (GS, n. 1). Questo “stile”, antico quanto la Chiesa stessa, è davvero “sostanziale”. D’altra parte, la mentalità mafiosa attecchisce proprio quando alla fatica del camminare insieme si preferisce l’apparente facilità del ricercare e del perseguire innanzitutto interessi individuali o familiari, slegati dal bene della comunità.

Una tale mentalità diabolica – Papa Francesco nella sua omelia parla significativamente di “adorazione del male” – può insinuarsi anche nella Chiesa, a tutti i livelli e in tutte le sue articolazioni. Come Chiesa, perciò, saremmo condannati a tacere se noi per primi non facessimo continuo esercizio sinodale.

Una prima conversione pastorale, perciò, riguarda l’identità più profonda del nostro essere Chiesa. Solo praticando la sinodalità, infatti, potremo incidere significativamente su quella cultura marcatamente individualistica e familistica su cui si annida la cultura e l’organizzazione mafiosa.

In tale pratica sinodale rientra anche la fatica pastorale per la riqualificazione dell’Istituto Teologico Calabro, che da alcuni anni è al centro della riflessione di noi Vescovi calabresi e che, nei prossimi mesi, si concretizzerà. In questo processo di riqualificazione sarà urgente e necessario rilanciare le due licenze di specializzazione in teologia dell’evangelizzazione e in teologia morale sociale, sollecitando una teologia contestuale, che contribuisca significativamente allo sviluppo integrale della nostra gente e al bene della nostra terra di Calabria.

Una seconda “conversione pastorale”, di carattere più generale, ma urgente e cogente per un’evangelizzazione seriamente efficace in Calabria, riguarda la sfida e l’opportunità costituita dall’iniziazione cristiana.

In un contesto socio – culturale come il nostro, nel quale ancora, almeno per tradizione, le famiglie continuano a chiedere il battesimo per i propri figli e i fanciulli ricevono ancora, nella maggioranza dei casi, i sacramenti della Confermazione e dell’Eucaristia, le nostre Diocesi hanno la grave responsabilità di elaborare insieme percorsi significativi perché l’itinerario di iniziazione incida profondamente nella cultura della nostra gente e la conduca a testimoniare la vita buona del Vangelo nei diversi contesti.

Nonostante alcuni tentativi e alcune sperimentazioni in atto, il modello di iniziazione cristiana utilizzato nelle prassi pastorali delle nostre Diocesi, infatti, rimane quello collaudato all’inizio degli anni ’70 dello scorso secolo quando, almeno nella grande maggioranza dei casi, la prima evangelizzazione – come esperienza dei valori della fede.

Per il nostro Meridione quel sistema era già allora precario, perché alcuni dei tre “grembi generatori” – famiglia, scuola, paese – che quel modello implicava erano compromessi: lasciavano spazio a elementi sub-culturali ancestrali, custoditi e trasmessi dalla famiglia/clan, che contaminano la genuinità della fede con elementi di tipo religioso-magico. Così, alcuni “riti di passaggio” nelle famiglie/clan avvenivano e continuano ad avvenire in concomitanza con feste e momenti religiosi e più specificamente sacramentali. L’urgenza di un nuovo modello di iniziazione cristiana è quindi improcrastinabile!

Non è sufficiente “condannare”. È necessario, piuttosto chiederci in modo autocritico dove abbiamo pastoralmente fallito come Chiese in Calabria e riscoprire il potenziale che il Vangelo offre per una vera e propria trasformazione culturale.

In questa direzione, il cammino sinodale in atto sta ricordando alle nostre comunità cristiane tre attitudini fondamentali perché possano tornare a essere grembi generativi, soprattutto in Calabria: la capacità di discernere, ovvero la capacità che si ha di porsi dentro il presente convinti che anche in questo tempo è possibile annunciare il Vangelo e vivere la fede cristiana; la capacità di vivere forme di adesione radicale e genuina alla fede cristiana, che sanno testimoniare già con il loro semplice esserci la forza trasformatrice di Dio nella nostra storia; una revisione del legame ecclesiale, in grado di renderne visibile il carattere missionario ed

In Calabria e non solo in Calabria qualcosa di simile è stato proposto anche dai convegni regionali. Si è potuto sintetizzarlo secondo questa scansione: sulle orme di Gesù, nel suo nome e in continuità con la sua prassi, la comunità cristiana compie [o deve riprendere o cominciare a compiere] anche oggi questa triplice attività: attività kerygmatica, attività liberatrice, attività convocatrice.

Per la prima (Kerygmatica), l’evangelizzazione deve necessariamente essere profetica, secondo una declinazione che è una progettualità confrontata continuamente con quella del Regno di Dio, o meglio con il progetto già in fieri della regalità di Dio e, pertanto, secondo una progettualità profetica e testimoniale, che mira ad un’anticipazione escatologica attraverso una formazione critica e autocritica.

Per la seconda (liberatrice) l’evangelizzazione diventa prassi continua come ministerium visitationis (a fronte delle tante e spesso immani solitudini esistenziali di oggi), ministerium consolationis (riproponendo e attualizzando la tenerezza di Dio a fronte delle durezze e delle tante ferite dei nostri contemporanei) e come ministerium medicationis (curando e, ove possibile, guarendo le ferite umane e colmando il bisogno di felicità cui aspira ogni essere umano). Ne derivano un impegno permanente della comunità cristiana per la dignità della vita umana, per la salvaguardia del creato, per la difesa degli oppressi.

Per la terza (convocatrice) l’evangelizzazione genera continuamente, nello Spirito di Gesù e nell’accoglienza della sua Parola e della sua Prassi, una fraternità contemplante e agente, nel recupero continuo della significanza esistenziale, nell’impegno per rendere trasparenti i sacramenti e le nostre celebrazioni, nella condivisione di beni materiali oltre che spirituali.

Si vuole troppo? Si cerca di ritornare al Vangelo. Questo ciò che ci ha invitati a fare Papa Francesco il 21 giugno 2014.

Possiamo ancora restare indifferenti verso tale urgenza? La riflessione di questa tavola rotonda è un tentativo per dire con chiarezza il nostro impegno comune per l’evangelizzazione permanente nella nostra Calabria. (fs)

[Mons Francesco Savino è vescovo di Cassano allo Ionio e vicepresidente della Conferenza Episcopale Calabra]

«NON PIÙ SERVITORI MUTI» MA IMPEGNATI
IN UNA POLITICA NEL SEGNO DELLA LIBERTÀ

di PINO NANODi mons. Francesco Savino so quel tanto, o quel poco, che di solito si racconta in Vaticano di ogni altro Vescovo scelto in questi anni da Papa Francesco, e di lui in Vaticano – in Sala Stampa si sa sempre tutto – si dice sia un pastore di grande carisma e di grande intelligenza. Ma si dice soprattutto che Papa Francesco, ormai quasi dieci anni fa, lo abbia fortemente voluto alla guida della Diocesi di Cassano allo Jonio per la fermezza delle sue idee e per la severità con cui già da giovane sacerdote in Puglia, sua terra di origine, lui trattava e giudicava sé stesso.

Non mi meraviglia, dunque, il fatto che in queste ore lui abbia preso carta e penna e abbia deciso di scrivere una lettera-aperta alla politica, e a chi in queste ore si candida alle elezioni europee o comunali.

Francamente non accadeva da tempo. E non mi meraviglia affatto che questa sua lettera alla politica, lui l’abbia consapevolmente definita nel titolo di apertura che ne fa “Un atto politico”.

Un “atto politico” per un pastore della Chiesa come lui, per giunta Vice Presidente della Conferenza Episcopale Italiana per il Sud, vuol dire una cosa importante. 

Vuol dire che è un appello a cui nessuno può sottrarsi.

Vuol dire che siamo in presenza di una riflessione che non può e non deve passare inosservata. Vuol dire che non è solo un monito per tutti, ma è anche una lezione di vita e di morale cristiana. Sono tre cartelle piene, di pensieri e parole, che fanno di questo “atto politico” una sorta di testamento spirituale per la storia di questa regione.

«Non è un atto di ingerenza in ambiti che non mi competono- sottolinea Mons. Savino- non è una indebita invasione di campo, né un tentativo di condizionamento delle scelte che farete, delle parole che pronuncerete, delle idee che porterete. Questa invece è la piena assunzione di responsabilità di chi, come me, convinto da sempre – come avrebbe detto don Lorenzo Milani – che “il problema degli altri è uguale al mio, sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”, certamente avverte di non avere nessun titolo per dare lezioni a nessuno e nessuna presunta autorità sacrale nel nome della quale profondere elevati consigli, tuttavia si sente fortemente gravato dalla responsabilità di “sortire insieme» dai problemi che attanagliano gli uomini e le donne di queste nostre comunità.

«Un atto politico», lo chiama Mons. Savino. Forse, però, è molto di più che un “atto politico”. 

Direi, piuttosto, che è “Un atto di fede”.

«Prima ancora che da cristiano – dice mons. Savino – io vi scrivo da uomo che nella vita ha deciso di stare sulla terra con entrambi i piedi e di starci così come ci è stato l’Uomo dei Vangeli: schierato con la gente che fa fatica, dalla parte di chi è stato privato di ogni dignità e compagno di strada degli ultimi, di quanti sono costretti al silenzio, degli scomunicati, dei falliti, dei tanti che vivono ai margini».

Altro che un“Atto politico”. 

Questa di Mons. Savino è una denuncia sociale di dimensioni enormi. Se non altro, per come lui la argomenta e la spiega al mondo esterno.

«Guardo queste nostre comunità nelle quali, seppur con i miei limiti e le mie fragilità, cerco di mettercela tutta per contribuire a realizzare quel sogno di Terra impastata con il Cielo che il Maestro di Nazareth chiamava Regno di Dio, e non posso non pensare a quanti invece il cielo non sanno più guardarlo stanchi di tante promesse non mantenute, rassegnati per i tanti treni in partenza con figli che non faranno più ritorno, sopraffatti dalle angherie del malaffare, della furbizia, della violenza criminale e della volgarità ‘ndranghetista».

Rieccola, finalmente, la Chiesa del coraggio, la Chiesa della preghiera, la Chiesa della pietà, la Chiesa della speranza, la Chiesa degli altri.

«Seguo il dibattito politico che da tempo caratterizza la vita di questo nostro Paese e non posso non annotare -scrive il Vescovo- uno scadimento culturale e per certi versi anche etico che sta sdoganando un linguaggio sempre più violento e modalità sempre più irruenti di chi attraverso la politica dovrebbe dare testimonianza di rispetto, di garbo e di cortesia, e invece alimenta situazioni di tensione, rancore e spaccature».

Mi chiedo, ma come si fa a sintetizzare un testamento spirituale di questa portata senza però correre il rischio di tralasciare le parti più salienti del messaggio della Chiesa di Francesco?

Francamente non lo so, ma proverò a farlo.

«Vi confesso – scrive ancora Mons. Francesco Savino – che sento sempre più mie le parole di quell’inusuale e duro atto di accusa che tanti anni fa fece il santo vescovo Tonino Bello dinanzi ad una classe intellettuale silente e per certi versi complice di una politica che già allora involgariva i propri toni: “siete latitanti dall’agorà – scriveva don Tonino – è più facile trovarvi nelle gallerie che nei luoghi dove si esprime l’impeto partecipativo che costruisce il futuro. State disertando la strada. Per scarnificare la storia di ieri state abbandonando la cronaca di oggi che, senza di voi, è destinata a diventare solo cronaca nera (…). Vi siete staccati dal popolo, così che per la vostra diserzione, stanno cedendo nell’organismo dei poveri anche quelle difese immunologiche che li hanno preservati finora dalle più tragiche epidemie morali (…). E intanto la città muore».

Quante verità assolute nascondono queste dichiarazioni, e quanto coraggio deve avere avuto il vescovo di Cassano nel chiedere ad ognuno “Dove siete finiti?”

«Lasciate – aggiunge mons. Savino – che vi consegni, infine, la mia pena e la mia tristezza per quelle scene di violenza sempre più numerose che in questi ultimi tempi stanno caratterizzando le tante piazze nelle quali i nostri giovani ovunque in Italia – e non solo – manifestano il loro dissenso e la loro contrarietà ad ogni forma di discriminazione, di guerra, di aggressione all’ambiente. Scene che, come tanti fra voi, pensavo di aver relegato alla memoria della mia gioventù, a quando anche io volevo dire la mia per un mondo più giusto e solidale durante quelle stagioni piene di tensioni sociali che pensavamo non potessero più tornare. Ed invece eccole riaffiorare di nuovo come una specie di fiume carsico che in realtà non ha mai smesso di scorrere in silenzio sotto i nostri piedi».

Una denuncia dietro l’altra, ma che fanno di questa lettera-aperta ai candidati politici un documento di grande valenza nazionale.

«Da qui – sottolinea l’Uomo della Cei al Sud – la necessità di ribadire che la politica la facciamo tutti “insieme” e non voi soltanto, da qui il dovere di rigettare la logica delle deleghe in bianco, da qui la responsabilità da parte mia di rivolgermi a voi con una franchezza che, credetemi, lungi dal voler essere l’atto presuntuoso di chi pensa di avere sempre qualcosa da insegnare, è semplicemente la parresia del vangelo, quella che ti monta dentro quando incroci i volti della fatica, gli sguardi della rassegnazione, le lacrime della sottomissione, quella che ti fa parlare a nome di chi non ha più voce perché gli è stata strozzata in gola, e ha perso ogni speranza perché le speranze sono andate tutte deluse».

Ma come se ne esce Padre?

«Una sola cosa – scrive Mons. Savino nella sua lettera – mi limiterò a dirvi, anzi a chiedervi riprendendo proprio le parole di padre Ernesto Balducci, un religioso, filosofo e teologo al quale la mia formazione deve tanto, che negli anni Ottanta diceva che “la nostra premura è che le coscienze delle persone non diventino subordinate a noi”, qualcosa che io vivo quotidianamente sulla mia pelle come terribile responsabilità».

Rieccola, dunque, la Chiesa della speranza, del perdono, del futuro, dove ciò che davvero conta è la libertà di ognuno.

Questo passaggio conclusivo è bellissimo.

«Nella vostra azione politica e nel lavoro che ora andrete a fare in occasione di questa importante tornata elettorale – ripete mons. Savino – abbiate come sola premura «che le coscienze delle persone non diventino subordinate» a voi. Rifuggite piuttosto da certa politica clientelare che alimenta il “desiderio di dipendere, di consegnarsi in mano a qualcuno, di scaricarsi della responsabilità di scegliere”, e impegnatevi piuttosto per una politica che restituisca ad ogni persona «il desiderio di essere libero».

Un inno alla libertà individuale e collettiva, altro che “atto politico”. Un inno al rispetto dell’altro, altro che “atto politico”. Un inno alla ricerca del bene comune, altro che “atto politico”. 

«Quel grande teologo svizzero che è stato Hans Urs von Balthasar – conclude l’apostolo della Cei al Sud – esortava perché gli uomini e le donne che incrociamo ogni giorno non siano “più servitori muti di dèi muti”. Non vi nascondo che in questa frase io trovo ogni giorno il senso ultimo ma anche la bellezza del mio ministero. Auguro a voi di scoprire in queste parole il significato più profondo della vostra vocazione politica e la motivazione più radicata del vostro impegno».

Grazie Padre, per aver trovato il coraggio di essere sempre così diretto. (pn)

 

Mons. Francesco Savino eletto vicepresidente per Area Sud della Conferenza Episcopale Italiana

Prestigioso incarico per mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Ionio, che è stato eletto vicepresidente per l?Area Sud della Conferenza Episcopale Italiana.

L’elezione è avvenuta nel corso dell’assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana, che hanno espresso «con il voto l’apprezzamento per l’impegno pastorale del presule  di Cassano che andrà a ricoprire per un quinquennio il servizio all’interno del Consiglio Permanete della Cei ed affiancherà il Presidente cardinale Matteo Maria Zuppi nel Consiglio di Presidenza».

Mons. Savino è nato a Bitonto il 13/11/1954, entra nel Seminario Regionale di Molfetta dopo aver conseguito la Maturità  al Liceo Classico “C. Sylos” di Bitonto, nel 1973.
Ordinato sacerdote il 24 agosto 1978, insegna religione e svolge il servizio di educatore nel seminario per minori.
Vice-parroco della Parrocchia San Silvestro-Crocifisso e poi, dal 20 gennaio 1985 è nominato Parroco della Parrocchia Cristo Re Universale di Bitonto.

Il 2 ottobre 1989 è nominato Parroco Rettore della Parrocchia Santuario Santi Medici e dirige la rivista trimestrale “Eco dei Santi Medici” ed una collana della Casa Editrice “Ed Insieme” di Terlizzi dal titolo “Scrigni/contenuti preziosi su fogli leggeri”.
Nel 1998 riceve a Bitonto il Premio “L’uomo e la città. L’8 luglio 2007 inaugura l’Hospice Centro di Cure Palliative “Aurelio Marena”, che ospita ammalati in fase terminale.
Il 28 Febbraio 2015 viene eletto da Papa Francesco Vescovo della Diocesi di Cassano all’Jonio. Il 31 Maggio 2015 inizia il suo ministero episcopale nella stessa

La Cei nasce settant’anni fa a Firenze l’8 gennaio del 1952 sotto forma di assemblea dei presidenti delle conferenze episcopali delle regioni conciliari italiane e gradualmente si delineerà per come oggi presta il suo servizio alle Chiese che sono in Italia.

Felicitazioni sono state espresse da Tonino Russo, segretario generale della Cisl Calabria, che ha ribadito che si tratta di «un meritato riconoscimento  per chi ha sempre operato nelle periferie della storia, quelle periferie che la Cisl mette al centro dell’attenzione dedicandovi cura e sostegno per salvaguardare la dignità della persona. Questo nuovo importante impegno certamente la porterà a lavorare  perché l’Episcopato del Mezzogiorno ricerchi insieme le linee di sviluppo della nuova questione meridionale. Insieme alle felicitazioni voglia, dunque, gradire i nostri auguri di buon lavoro». (rrm)

LA DOMENICA / L’omelia del vescovo di Cassano allo Ionio Francesco Savino

Domenica 27 dicembre
Nella prima Domenica dopo il Natale celebriamo la Santa Famiglia di Nazareth. Il Vangelo annuncia, oggi, l’esperienza di Maria, Giuseppe e Gesù mentre si consolidano nel legame familiare e nell’abbandono fiducioso in Dio. L’Incarnazione di Gesù comprende il suo appartenere ad una famiglia e il suo crescere in un ambiente sociale e religioso determinato: “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la Grazia di Dio era su di lui”.
Come ogni essere umano Gesù ha avuto una crescita globale, umana e spirituale, affettiva e psicologica. Egli è veramente uomo ed è veramente Dio e, in quanto veramente uomo, ha fatto esperienza del divenire uomo ogni giorno, dall’obbedienza dei genitori fino all’inserimento nell’ambiente socio-religioso. Egli viene circonciso al compimento dell’ottavo giorno e diventa così partecipe del popolo dell’alleanza; al quarantesimo giorno i suoi genitori, Maria e Giuseppe, lo portano al tempio di Gerusalemme per presentarlo al Signore e offrire il “sacrificio dei poveri”, cioè una coppia di colombi invece di un agnello (cfr. Lv 5, 7; 12, 8), e così adempiono alle norme previste per la purificazione.
Nel Tempio avviene il riconoscimento di Gesù grazie a due anziani “poveri del Signore”, Simeone e Anna, che attendevano la venuta del Messia. Simeone, uomo giusto e pio, accoglie tra le sue braccia il bambino e rivolge a Dio il canto di benedizione, il  Nunc dimittis (che recitamo ogni sera nell’Ufficio di Compieta, l’ultima preghiera della giornata prima del riposo notturno): Simeone può morire in pace perché i suoi occhi hanno contemplato in quel bambino la salvezza di Dio, Colui che è “luce per la rivelazione alle genti e gloria del popolo di Israele”. Di Simeone si può dire che è fra coloro di cui Gesù dice: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete.(Lc 10,23)
Del Bambino Gesù Simeone dice a Maria: “Egli è qui per la caduta e la resurrezione di molti in Israele” e come segno di contraddizione; e aggiunge che a lei una spada avrebbe trafitto l’anima perché fossero “svelati i pensieri di molti cuori”.
Questa è la Verità che coinvolge tutti: chi incontra Gesù è chiamato a prendere posizione, non può essere neutrale.
L’anziana profetessa Anna, una vedova che “non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuno e preghiera”, intuisce che è arrivata l’ora del compimento tanto atteso. E loda e ringrazia Dio perché è fedele alla sua promessa.
Simeone ed Anna non “trattengono” il Bambino Gesù ma si rallegrano per la rivelazione loro concessa e ci indicano che, per incontrare in Verità Gesù e riconoscerlo come Salvatore di tutta l’umanità, sono necessarie la povertà di spirito e l’attesa costante.
Mentre contempliamo la famiglia di Nazareth, pensiamo alle tante ferite delle famiglie di oggi, consapevoli che soltanto la persistenza dell’amore, quotidianamente vissuto con fedeltà, sana ogni tipo di ferita e rende la famiglia comunità duratura di volti rivolti, trasparenti e autentici.
Come dice Peter Handke, la ripetizione non annienta l’amore ma lo rende infinito: “Il canto della durata è di una poesia d’amore. Parla di un amore al primo sguardo seguito da numerosi e altri primi sguardi. E questo amore ha la sua durata non in qualche atto, ma piuttosto in un prima e in un dopo, dove per il diverso senso del tempo di quando si ama, il prima era anche un dopo e il dopo anche un prima”.
+ Francesco Savino
vescovo di cassano allo Ionio