La Messa in latino, noi chierichetti

di GREGORIO CORIGLIANO – Per anni ed anni ho “fatto” il mese di maggio nel periodo dell’adolescenza. Che significa? Significava andare in Chiesa tutte le sere perché quello di Maggio è il mese della Madonna. Allora non c’era la Messa vespertina, ma solo i riti serali, le preghiere all’altare della Immacolata Concezione, i salmi, le litanie, i canti di noi “pueri cantores”. C’era, però, il rito dell’incensiere. Chi, tra noi ragazzi dell’Azione cattolica, arrivava per primo, andava in sacrestia e si accaparrava l’incensiere, appunto. Non essendo stati inventati ancora i carboncini, occorreva uscire e andare a vedere in quali case ti davano la brace da sistemare nel turibolo, il vaso in metallo dove poi veniva bruciato l’incenso, utilizzato come espressione dell’offerta di sé da parte dei credenti. Se poi faceva freddo, ci riscaldavamo le mani, dopo che le pie donne avevano riposto la brace nel turibolo.

All’inizio del sacro rito salivamo sull’altare e, per non far spegnere la brace, muovevamo l’incensiere, da destra a sinistra, fino a quando il celebrante non veniva a sistemare i grani di incenso che, bruciando, rappresentavano la divulgazione della parola del Signore in tutti i posti e a tutte le persone presenti. Poi il Santo Rosario, le preghiere alla Madonna, le giaculatorie. Pratiche queste che affondano le radici nella storia. Già nell’antica Grecia, maggio era dedicato ad Artemide, la dea della fecondità, mentre nell’antica Roma, maggio era dedicato a Flora, la dea dei fiori e delle fioriture.

Questo, tutti i trentuno giorni del mese. La domenica, invece, la celebrazione della Santa Messa. Noi chierichetti eravamo convocati per le nove perché dovevamo servir messa. Eravamo muniti di tonaca e cotta (una veste bianca indossata da tutti i ministranti )  e, davanti al sacerdote, andavamo verso l’altare. Allora, si davano le spalle ai fedeli. Il sacerdote ai piedi dell’altare, noi due chierici, ai lato del sacerdote per rispondere “all’introibo ad altare Dei” con l’ad Deum qui laetificat iuventutem meam, a Dio che rallegra la mia giovinezza. Poi continuavamo a servir Messa, rispondendo alle domande del sacerdote o provvedendo, per esempio, a versare l’acqua ed il vino dalle ampolline nel calice. C’era chi tra noi era chiamato a suonare il campanello in alcuni momenti della funzione eucaristica. Eravamo particolarmente felici di scampanellare, non so perché. Al punto che spesso nascondevamo il campanello per evitare che altri lo usassero al posto nostro. Ricordo una volta che lo nascosi talmente bene, che il parroco, don Girolamo Sgambetterra andò su tutte le furie perché non mi ero presentato a servir messa perché ammalato.

E dovette, il sacerdote, far ricorso al campanello che faceva utilizzare solo nelle feste comandate, ma non aveva il suono squillante e coinvolgente che caratterizzava quello di uso quotidiano. Mi punì, non facendomi servir messa per un paio di domeniche. C’è voluto l’intervento di don Peppino Stagno, l’economo vice parroco perché mi facesse la perdonanza, facendomi giurare un mai più, mai più. E quando mi ha visto ubbidiente, don Gilormo, il parroco burbero mi ha invitato nel pomeriggio a casa sua, dove viveva con due nipoti. “Assuntina, prepara un caffè a Gregorio”. “Aspettate zio, rispose la ragazza, che prima mi lavo le mani e poi lu culu”. Non era una parolaccia, perché allora il caffè veniva fatto in una macchinetta diversa da quella in uso oggi. Il caffè, infatti, non saliva, ma scendeva, colava. Naturalmente, l’espressione di Assuntina, mi aveva fatto sorridere.

Neanche l’arciprete aveva capito il perché. Era il dialetto del suo paese, Cittanova. Per premio, inoltre, don Gilormo, mi aveva fatto leggere, per la prima volta in vita mia, alcuni passi del Vangelo sull’altare, rivolto ai fedeli. Tremavo, quella volta, ma riuscii a leggere quello che oggi si fa con più naturalezza. E se l’”orate fratres” era di competenza del celebrante, a noi – Rocco ed io – veniva consentito il “Suscipiat Dominus sacrificium de manibus tuis”: “riceva il Signore il sacrificio dalle tue mani”. Per poi giungere all’”Ite missa est” che, come oggi, era il “la messa è finita”!. In latino, allora, la Messa mi coinvolgeva molto, più di adesso.

Partecipavo più intensamente, senza distrazioni di sorta, forse perchè mi impegnavo mentalmente a tradurre visto che peraltro studiavo il latino. Poi andavamo in sacrestia a svestirci, la casa del rosmarino, mi aspettava per i compiti ed il quadrato di Don Nando “u gnuri” per due calci al pallone. Oggi non c’è più don Nando, men che meno il quadrato, e neanche il pallone. E neanche don Gilormo o don Peppino. (gc)

La disavventura di un viaggio in treno

di GREGORIO CORIGLIANOParto per un paio di giorni per stare  un paio d’ore sulla spiaggia ammirando l’impareggiabile mare d’inverno, che non tutti apprezzano. Vado in treno. Biglietto col diretto, senza cambi a Paola.

Ritorno, dopo aver letto che si poteva ripartire di sabato alle 17.55. Stazione di Rosarno. Tento di fare il biglietto, ma non essendoci il servizio mi viene in soccorso il barista, che funge da bigliettaio. Mi accosto al binario facendo tutti i tipi di scale perché l’ascensore c’è, ma quel che è peggio, non funziona. Chiuso perchè in tilt! Tanto per gradire, con tre bagagli. Sono le 17.54 ma del treno nessun segnale, neanche quello usuale di avviso con l’alto parlante. Torno al manifesto della sala d’aspetto, lo stesso che avevo letto per sapere dell’orario.

E noto, con mio rammarico, ancora non incazzato, che  accanto all’orario in grassetto, c’era scritto in miniatura, come i bugiardini delle medicine, che di sabato e domenica quel treno non era operativo. Ah. Mia colpa, mia colpa, mia massima colpa, dico tra me e me. Vabbè. Una soluzione ci sarà. Ritorno al binario 3, per controllare i bagagli. Non c’è nessun passeggero a cui chiedere. Torno al bar, la biglietteria, da tempo, è stata abolita.

«Il prossimo treno sarebbe stato dopo le 20, più o meno».

«È bona lavata sta trippa marinaru» avrebbe detto uno dei seniores del mio paesello. Oppure «pagati mastru ca u furnu catti». Insomma come e cosa devo fare? Mi sento perso. Mio fratello che da San Ferdinando mi aveva accompagnato alla stazione di Rosarno aveva già fatto ritorno a casa. Solo e morto di freddo e senza treno. Sento un fischio ed un annuncio. Treno Italo per Roma, parte alle 18.15. Oh, Dio sia benedetto, mi dico. In men che non te la racconti il treno arriva.

È un’alta velocità, ma chi se ne frega, intanto arrivo a Paola, poi si vedrà. Salgo a bordo, a fatica con tre bagagli, avviso il capotreno (una splendida ragazza in divisa rossa) perché il biglietto delle Ferrovie non era valido. Mi siedo, arriva lei, e, giustamente, mi dice di dover fare il biglietto. Certo, subito. Quant’è? Lei controlla sul suo smartphone e, giusto perché non ero in contravvenzione, mi dice che il costo era di 33 euro. Madonnina mia, dico. Quasi quanto un low cost aereo da Lamezia a Bologna. 33 euro da Rosarno a Paola.

Abbasso la testa e non la mando affanculo perché lei da simpaticissima mi era diventata, pur senza colpa alcuna, cordialmente antipatica. C’è di più, ha voluto la carta di credito. E dire che non ero un clandestino. Mah. Anziché stare a Rosarno per altre due ore, almeno arrivo a Paola, da dove – ho sperato – prenderò un regionale per Cosenza. Un’ora di “alta velocità”, alle 19.15 ero nella città del Santo. Chiedo al bigliettaio, che a Paola c’è, l’orario del trenino per Cosenza.

Apre il computer, ero l’unico passeggero della sera, e senza batter ciglio, mi dice che il primo treno utile, sarebbe stato alle 22.58. Cosa? Si, non ce ne sono altri. Fermo e senza comprensione. Ed un pullman? Non lo so, risponde. Vada al bar. L’omino del panino della mattina mi dice. A quest’ora?

Ma sono appena le 19,30. Non ce ne sono. Ed un taxi? Se ci sono, vogliono da 150 a 200 euro. Addirittura. Ma ci sono? E che ne so. Esco fuori dalla stazione. Entrano due poliziotti di guardia, chiedo una soluzione per arrivare a Cosenza. Calorosamente mi dicono, non c’è! L’unico treno è attorno alle ventitré. Ed un taxi? Non ce ne sono stasera perché c’è stato un incidente alla Crocetta e quindi la strada è chiusa. Ed io come torno a Cosenza? Non c’ che la soluzione del trenino regionale delle 23.

E dalle 20 alle 23 cosa faccio, muoio di freddo in sala d’aspetto?  Gliela do io una soluzione mi dice il più buontempone dei poliziotti. Che guarda caso, era di Fiumefreddo Bruzio – cercavo di commuoverlo perché inventasse una soluzione che non c’era- gli dico che del suo paese conoscevo il suo concittadino più illustre, il senatore Paolo Naccarato – ma niente da fare, se non elogi per l’amico comune ed importante.

C’è di più. Il secondo dei due poliziotti mi dice di andare a mangiare un piatto di pasta, a bere un po’ di vino per fare passare il tempo e poi prendere il treno delle 23! Bella soluzione, gli dico! Auguri e buona nottata. Non chiedo a mia figlia di venire da Cosenza a Paola perché la strada era interrotta per l’incidente. La disperazione mi assale. Mi viene in mente il mio amico Antonio De Masi, dirigente delle Ferrovie. Lo chiamo solo per dei consigli impossibili, viste le strade tutte esperite.

Botta di fortuna, nella sfortuna più nera. Dopo avergli spiegato la mia condizione di difficoltà mi tranquillizza. Stai li perché alle 20.10 arrivo da Napoli ed ho la macchina a Paola. Infatti così è stato, grazie mr. De Masi. Mi sarebbe toccata una brutta nottata, con un freddo indicibile. Chiedo e mi chiedo: è possibile, è giustificabile, è consentito, è ammesso, è giusto che tra Paola e Cosenza alle 19.30 di un giorno (da cani, direbbe la scrittrice spagnola Alicia Gimenez) si possa verificare tutto questo?  Ai posteri l’ardua risposta! (gc)

IL RICORDO / Giuseppe Smorto: Quell’apologo di Eugenio Scalfari nei primi anni ’90

di GIUSEPPE SMORTO  – Il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, è mancato a 98 anni Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. In pochi hanno ricordato la sua calabresità (mi vengono in mente Peppe Baldessarro, Pietro Comito, Gilberto Floriani): la terra degli avi emergeva ogni tanto nei suoi libri e nei suoi scritti, per lui era spesso amore verso il nonno di cui portava il nome, professore di ginnasio e uomo di cultura.
Mi fa piacere quindi raccontare una specie di apologo che lui destinò alla riunione del mattino riservata ai Capi redattori, nei giorni fantastici della sede di Piazza Indipendenza, primi anni ‘90. Era quello l’appuntamento delle 10,30 (nella foto l’ultima riunione, data probabile 4 maggio ‘96 ) con una lezione di giornalismo, un momento impareggiabile di risate, cazziate furibonde, telefonate in viva voce, sigarette, caffè: per un breve periodo arrivarono anche pizze e tramezzini, ma durò poco, perché distraevano.
Successe un giorno che Repubblica intervistò un leader democristiano di cui per fortuna non ricordo il nome. Uno che aveva fatto il prezioso prima di rilasciare l’intervista, uno che si era negato a lungo.
Nella prima parte della riunione, Scalfari commentava il giornale in edicola pagina per pagina, per poi passare al timone del giorno dopo. Quella mattina, davanti all’inutile spazio dedicato al politico DC si piantò.
“Ora – disse – devo raccontarvi un fatto successo al paese paterno, Vibo Valentia. Ma, scusatemi tanto, devo usare anche il dialetto calabrese”.
Sottovoce mi rallegrai, pronto a tradurre ai vicini di posto. La platea, composta da una ventina di canaglie, intellettuali, supponenti sbracati di ogni età, ex cronisti di strada, ex comunisti, ex gruppettari, ex tutto, stagisti curiosi, redattori liberi di intervenire, uomini e donne uniti da una comune euforia per il momento d’oro del giornale e convinti di avere il mondo in mano, fece silenzio.
E Scalfari raccontò.
“C’era una volta al mio paese un bambino che non parlava. Lo portarono da tutti gli specialisti, anche quelli di Messina.
Ma lui niente. Gli anni passavano, e lui si esprimeva solo attraverso semplici versi gutturali, facevano quasi paura.
La madre, disperata, andò a chiedere la grazia a San Francesco da Paola. Invano. La famiglia aveva perso le speranze.
(Nota mia: come ha raccontato qualche volta don Giacomo Panizza, a quei tempi i bambini disabili venivano nascosti). Una mattina, all’improvviso, la cittadina fu scossa da un urlo che arrivava dalla casa del bambino.
Parrau!
L’urlo si moltiplicò per i vicoli, raggiunse il corso, il Comune, i belvedere e i bar. U’ figghiolu parrau. Il bambino finalmente aveva parlato.
Parrau! Parrau! E fu giubilo, brindisi, preghiere di ringraziamento che si moltiplicarono per i vicoli, il Corso, i belvedere e i bar.
Ma poi una domanda collettiva rimbalzò, fino a tornare verso la casa e la famiglia che era passata dalla tristezza più nera alla felicità.
Parrau parrau, e c’dissi? Si fece silenzio di nuovo. C’ dissi?
Dalla felicità si passò all’imbarazzo, fino a quando il padre prese coraggio e urlò parrau, parrau.
I’ dissi “cazzu”.
Scalfari dedicò così il racconto al politico che aveva rilasciato l’intervista senza dire nulla di significativo. E io oggi lo dedico a me stesso e a tutti quelli che spesso – sui social, ma anche sui giornali – pur di dire qualcosa dicono “cazzu”.
Buon anno allora ai nostri maestri ovunque essi siano (ciao Mario, salutami Gianni, non litigate troppo su Mourinho).
Sono nuvole che accompagnano i nostri passi, che poi è un verso di una canzone del caro Peppe Voltarelli. Sono dentro di noi. (gs)

IL RACCONTO / Frank Gagliardi: La Trebbiatura

di FRANK GAGLIARDI –  Al termine della mietitura del grano le donne raccoglievano i covoni che venivano portati sull’aia dove si costruiva “la timugna”. Sul tetto veniva posta una croce fatta di spighe di grano a guardia del grano. L’attesa della trebbiatura era uno dei momenti più carichi d’ansia perché era forte il timore che potesse piovere, grandinare o che potesse sprigionarsi un incendio.

La pioggia e la grandine avrebbero danneggiato i covoni, l’incendio avrebbe distrutto tutto il raccolto. Prima dell’uso della trebbiatrice i covoni di grano venivano sparsi sull’aia e su di essi veniva fatta passare una grossa pietra “la triglia” tirata da due grossi e robusti buoi in un continuo movimento circolare per fare uscire i chicchi di grano dalla spiga. Gli uomini, poi, con forconi di legno “tridenti” sollevavano la paglia che col vento veniva separata dai chicchi, i quali, venivano raccolti, questa volta dalle donne, in grandi cesti (crivi) e così il grano “cernuto” veniva separato dalla pula.

La paglia veniva raccolta e usata principalmente come foraggio per il bestiame o messa nei porcili. La trebbiatrice da noi arrivò negli anni Cinquanta. La introdusse mio cognato mastro Eduardo Perri. Una sola volta, nell’immediato dopoguerra, venne da noi una grande e rossa trebbiatrice. Era di proprietà di Francesco Socievole. Si fermò a trebbiare il grano in contrada Vallone ai lati della provinciale Cosenza – Amantea, vicino l’abitazione di zio Antonio Gagliardi.

Fu una grande festa non solo per il vicinato ma per tutta la popolazione sampietrese. Era la prima volta che vedevamo una grande macchina di colore rosso  tirata da un grande trattore che trebbiava il grano. Le donne che lanciavano i covoni, gli uomini addetti alla trebbiatura che li spingevano all’interno della trebbiatrice senza che qualche spiga fuoriuscisse. Che spettacolo! Da una parte usciva la paglia, da un’altra la pula, da un’altra parte i chicchi di grano che andavano a finire nei sacchi di juta che venivano subito chiusi e legati con lo spago e portati via dalle donne nei granai che poi erano grandi “casciuni” che si trovavano nei nostri scantinati o magazzini.

Giugno, la falce in pugno. Così recita un antico proverbio contadino. Vuol dire che la mietitura del grano doveva avvenire nel mese di giugno, quando cioè il grano era completamente maturo e le spighe si ripiegavano sotto il loro peso. Le piantine del grano venivano tagliate, da uomini esperti, con una grande falce e poi riunite in fasci. Le donne poi facevano i covoni per comporre le gregne. Per incominciare a mietere il grano si aspettava quando il sole era alto e si lavorava fino all’imbrunire, prima della umidità della sera. La falce era ed è uno strumento a mano d’uso antichissimo formata di un corto manico al quale è unita una lama curva avente un lembo dentato.

Si operava con la mano destra mentre con la sinistra, le cui dita erano protette da “cannuoli” di canna, s’isolava il manipolo da tagliare per poi depositarlo a terra e farne dei fasci. La falciatura e la trebbiatura del grano sono solo il momento finale della raccolta del grano. Bisognava prima preparare il terreno. Si partiva nel mese di luglio e agosto col dissodare il terreno e poi a novembre si seminava il grano. La sera prima della semina il grano veniva mischiato con una soluzione di acqua e “pietra turchina” (minerale a base di rame) perché impediva al grano di diventare nero quindi inutilizzabile al fine della semina. A marzo venivano tolte dal campo seminato le erbacce cattive. Seguiva la sarchiatura. Questa operazione era eseguita per lo più dalle donne utilizzando come attrezzo “u zappuniellu”, attrezzo molto piccolo e meno pesante della zappa che veniva usata dagli uomini robusti.

L’operazione consisteva non solo nel distruggere le erbe infestanti ma per favorire principalmente la circolazione dell’aria nel terreno rimescolando lo strato superficiale. A giugno poteva iniziare la mietitura e poi la trebbiatura, lavoro molto duro, però erano una festa per tutta la famiglia che coronava un lungo periodo di lavoro. Le macchine per la mietitura del grano da noi non sono mai arrivate. Non erano adatte a causa del terreno scosceso e collinare del nostro territorio. Però, in seguito alla meccanizzazione agricola la mietitura manuale è oggi scomparsa.

Ricordo una poesia che la mia maestra di quinta elementare, la cara e indimenticabile Lillina Luciani, mi ha fatto imparare a memoria che serviva per farmi ricordare i mesi dell’anno e le loro caratteristiche: Gennaio mette ai monti la parrucca……/ Luglio falcia le messi al solleone / Agosto, avido ansando le ripone.