di FRANCESCO KOSTNER – Si avverte un senso di preoccupazione, dopo aver letto Il fuorilegge di Mimmo Lucano. Ciò, nonostante le positive riflessioni che scaturiscono dalla testimonianza, senza dubbio suggestiva e avvincente, dedicata dall’autore al “modello” Riace: la “rivoluzione copernicana” nel rapporto con gli immigrati, di cui è stato protagonista nel piccolo centro della città metropolitana di Reggio Calabria. Il comune assurto agli onori della cronaca internazionale nel 1972, dopo il ritrovamento in mare di due statue bronzee di epoca greca, e diventato poi il simbolo di una straordinaria esperienza di integrazione multiculturale. Un meraviglioso caleidoscopio di relazioni interetniche, che ad un certo punto, però, viene messo con le spalle al muro. Vittima (fa capire, ma talvolta dice, Lucano) di oscure dinamiche politico-istituzionali. Forse anche di quella misteriosa “energia autodistruttiva”, che sembra perennemente gravare sul destino della Calabria, e di cui anche il “modello” Riace ha saggiato la micidiale forza disgregatrice.
Si viene assaliti dal dubbio che la meravigliosa epopea del sistema di accoglienza riacese possa cadere nell’oblio: questo preoccupa! Un timore affatto immotivato, sol che si consenta alla memoria di fare capolino nella sterminata distesa dell’identità calabrese, e nell’inquietante “cimitero” della (in)coscienza che vi è ospitato. Un luogo in cui hanno trovato posto (ignorati o sacrificati, a seconda dei casi) contributi ed esperienze importanti sui quali è calato il sipario. Proprio come è accaduto a Lucano. E al modello “Riace”. Concepito in rapporto alla dignità dell’uomo. Contro i diktat asfissianti della globalizzazione. Le logiche esclusive del profitto. I pregiudizi. L’assurda schematizzazione tra “buoni” e “cattivi”, operata sulla pelle di migliaia di immigrati, provenienti da territori poveri e senza prospettive.
Di quel “modello”, purtroppo, oggi rimane solo una fievole traccia. Dovremmo chiederci perché. Come sia stato possibile chiudere un’esperienza sociale e culturale di questa portata. Non tutti lo facciamo. Eppure sarebbe necessario. Senza questi interrogativi, d’altra parte, è difficile entrare con lo spirito giusto nell’intensa testimonianza di Mimmo Lucano. Riuscire a cogliere i valori fondanti della sua storia. La sua visione del mondo, in cui tutti hanno il diritto di vivere dignitosamente. E nel quale ognuno è chiamato a fare la propria parte per alleviare le sofferenze degli altri. Non è “aria fritta”. Chiacchiericcio abusato e inconsistente. Distante dalla realtà. Dai “veri” bisogni, dalle “priorità” del Paese. Dalle “leggi” del mercato. Dalle logiche del profitto. Dalle differenze e dalle sperequazioni, tra chi vive bene e chi soffre, contro cui niente e nessuno potrà mai qualcosa. Insomma, il meglio dell’armamentario populista e dell’inconsistenza parolaia di questi tempi bui. Niente di tutto questo. Lucano ha sconfessato sul campo questa costruzione “ideologica” e “strutturale”. A Riace è riuscito a stabilire priorità e valori diversi. A porre al centro dell’attenzione l’uomo. Le sue sofferenze. I suoi disagi. Le sue aspirazioni. Le sue speranze. Le mille identità che ne abitano e ne colorano la vita. Senza confini né barriere. Un enorme “apparato” antropologico, culturale, sociologico, che Lucano è riuscito a decifrare (e a cui ha dato forma) nel solco di una visione solidale della Storia. Di una relazionalità cosmopolita. Che privilegia l’abbraccio alla distanza. L’incontro alla diffidenza. La condivisione all’emarginazione. In una parola: il significato vero, concreto di un’umanità che ritrova sé stessa, fino in fondo, uscendo dal tunnel di egoismi sfrenati. Di aberranti logiche isolazioniste. In cui tutto è solo numero. Valore materiale.
Accoglienza. Amore. Solidarietà. Sono i pilastri di questo prezioso libro di Lucano. Le strutture portanti sulle quali poggia il suo racconto. A partire dall’infanzia, quando (inconsapevolmente) i dolorosi addii di parenti e amici, di interi nuclei familiari costretti ad emigrare con la morte nel cuore, diventano il “combustibile” della formazione culturale e politica del futuro sindaco di Riace. Della sua progressiva presa di coscienza dei drammi umani e sociali che affliggono il mondo. Riferimenti imprescindibili, che Lucano non perderà mai di vista. Insieme con i valori della libertà e della giustizia sociale. Parole discrete, ma efficaci, rivelano il contesto pedagogico in cui si è formato: “Non sono mai stato capace di guardare con gli occhi di chi esclude. Non sopporto i privilegi e le discriminazioni. Nella Riace della mia infanzia ho scoperto l’umanità come bellezza…mia madre mi invitava a essere curioso e mai diffidente verso l’altro, a essere generoso, perché tutti eravamo bisognosi”. E ancora, in un flusso di ricordi che arriva fino ai giorni nostri: “Ho scelto di condividere il senso della fragilità esistenziale, delle precarietà quotidiane, del popolo che si muove ai margini delle strade, dei cittadini più deboli, categoria sociale a cui sento con orgoglio di appartenere”. Tutto nel segno dell’operosità e della concretezza: “Intorno al tema dell’accoglienza c’è tanta retorica non supportata dagli ideali, ma solo fine a se stessa. A me interessa soltanto il sapore della libertà, la mia libertà e quella degli altri, di coloro che ne hanno sete”. Libertà, giustizia, solidarietà. Ma anche lotta alla ‘ndrangheta. Innanzitutto creando opportunità di lavoro, dice con chiarezza Lucano (e noi con lui), le sole in grado di affrancare i giovani dal rischio della deviazione, purtroppo sempre dietro l’angolo.
Insomma, il disegno di quella nuova società, multirazziale e cosmopolita, alla cui realizzazione Lucano ha dedicato la vita. Ogni energia. Un lavoro paziente. Tenace. Coraggioso. Sulla scia di testimonianze ed esempi eticamente vigorosi. Una straripante platea di eroi “senza tempo”: Rocco Gatto, il proprietario di un mulino ucciso il 12 marzo 1977 a Gioiosa Jonica, per non avere accettato di pagare il pizzo ad una cosca locale; Peppe Valarioti, segretario del partito comunista e consigliere comunale di Rosarno, sopraffatto da due colpi di lupara, l’11 giugno 1980; Giannino Losardo, assessore comunista al comune di Cetraro e segretario capo della Procura della Repubblica di Paola, ammazzato il 21 giugno 1980; Gianluca Congiusta, un giovane imprenditore sidernese eliminato nel 2005 per essersi opposto alla prepotenza della ‘ndrangheta. E Dino Frusillo, giornalista e attivista pacifista foggiano, con una lunga militanza politica in Democrazia proletaria: “A lui”, scrive, “devo gli strumenti mentali per comprendere la causa curda. Diceva che non possiamo limitarci solo a essere oppure a non essere d’accordo, ma dobbiamo anche, in qualche misura, fare come loro. Dobbiamo agire. Il suo impegno, infatti, passava dall’azione, al punto da rischiare in prima persona. Nel 1998, per esempio, con una delegazione di pacifisti, giornalisti e simpatizzanti viaggiò fino a Dijarbakir, in Turchia, per festeggiare con la comunità curda e con il Partito dei lavoratori il loro capodanno, la festa del Nawruz. I festeggiamenti si trasformarono presto in una marcia di protesa contro i diritti negati, le ingiustizie, i massacri subiti. La polizia turca intervenne disperdendo il corteo a colpi di manganello su uomini, donne e bambini, e arrestando circa cento manifestanti, tra cui Dino e due studenti partiti insieme a lui, Giulia Chiarini e Marcello Musto. I due ragazzi furono scagionati dopo un paio di giorni, lui rimase in carcere per oltre quaranta giorni e infine venne espulso dalla Turchia il 16 giugno, dopo le timide pressioni del parlamento europeo e del governo italiano”. Altri incontri fondamentali per Lucano sono quelli che, attraverso attente letture, lo avvicinano via via a Michail Bakunin, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Paul Sartre, “i fautori del pensiero anarchico”; a padre Pino Puglisi, ai teologi della Liberazione Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff, Camilo Torres, Pedro Casaldàliga. E a quattro giganti della libertà e dei diritti umani: Gandhi, Che Guevara, Martin Luther King e Nelson Mandela.
Lucano rende omaggio anche a Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri dal 1994 al 2007, convinto sostenitore del suo “modello”; ad Alex Zanotelli, “il missionario comboniano dalla camicia variopinta, segnato da venti anni di lotte e sacrifici in Africa”, capace di mettere in discussione la propria fede “al punto da domandarsi se Dio fosse ‘malato’, dopo aver visto nei lunghi e faticosi anni in Kenya degrado, fame, miseria e bambini malati di Aids”. Un testimone di quella Chiesa degli ultimi, riflesso del messaggio evangelico: “ama il prossimo tuo come te stesso”, in cui Lucano si è sempre riconosciuto. E si inchina, infine, davanti a Papa Bergoglio, che il 12 dicembre 2016 scrive al “Caro fratello sindaco”, esprimendogli “ammirazione e gratitudine per il suo operato intelligente e coraggioso a favore dei nostri fratelli e sorelle rifugiati”.
“Un’altra Riace è possibile”, aveva promesso presentando la sua candidatura a sindaco nel 2004, premiata dai riacesi anche cinque anni più tardi. Proprio di quella seconda competizione elettorale Lucano ricorda l’intervento, nella piazza “Bronzi” di Riace Marina, del presidente della Regione Agazio Loiero: «Venne a sostenerci di sua spontanea iniziativa e iniziò il suo intervento quasi chiedendo scusa alla lista avversaria, e cercando di giustificare la sua presenza. Io sono il presidente di tutti i calabresi, per cui dovrei essere neutrale, al di sopra delle parti, ma in questo Comune è accaduto qualcosa di straordinario: accogliendo in ogni maniera possibile i profughi in fuga dagli orrori delle guerre, il mondo ha potuto conoscere il volto più autentico della Calabria, una terra destinata dalla storia ad accogliere chiunque abbia un sogno per la propria vita. Tutto ciò mi rende orgoglioso di essere il presidente di questa terra. Un patrimonio così non può essere disperso, il mio auspicio è che questa storia sopravviva, continui a prescindere dal risultato elettorale». La lista di Lucano vinse con 44 voti di scarto. Un segnale di insoddisfazione, da parte di una fetta consistente di elettori, accolto con consapevolezza: «Ho sempre pensato – scrive Lucano – che lo sviluppo della Marina dipendesse molto dal centro storico, dalla sua bellezza, dalla riqualificazione urbana, dall’idea di riportare l’intera Riace in una dimensione che la legasse all’identità storica delle comunità agropastorali. L’immagine delle botteghe artistiche, dei carretti con gli asini, le vie antiche curate e pulite, il valore sacro dell’accoglienza, l’assenza di pregiudizi, la volontà di riscattare l’antropologia dei luoghi sono valori e qualità che per le comunità locali dovrebbero suscitare orgoglio. Ecco perché chi non vive questa dimensione, chi non ha vissuto mai in una realtà dove tutto sembra essere comunitario, non può capire cosa significhi vivere gli spazi dell’abitare da uomini liberi. Nei nostri borghi la chiave alle porte quasi non serve, non c’è bisogno dei campanelli, basta bussare ed entrare. Non c’è neppure bisogno di sentirsi dire che la porta è aperta. Quando qualcuno si sentiva male, tutti i vicini accorrevano per prestare soccorso e dare una mano in qualche modo. C’è un risvolto anche nella tradizione culinaria: “il levatu”. Quando si preparava il pane si metteva da parte un po’ dell’impasto per conservarlo per i bisognosi. Si dice che il levatu non si nega nemmeno al peggiore nemico! Basta confrontarsi con i contadini, con le persone più umili, per averne conferma, ancora oggi: meno le realtà hanno subito la contaminazione della società moderna, quel senso irrefrenabile del consumo, della competitività, degli arrivismi, più vi si trovano una dimensione umana e una generosità disinteressata».
Uno straordinario esempio di integrazione multiculturale, messo nero su bianco anche da documenti rimasti (stranamente) a lungo indisponibili, come la relazione del Centro di accoglienza straordinaria ricevuta dal comune di Riace il 20 febbraio 2018. Lucano ne propone giustamente più di un passaggio: «Si comincia dalla scuola, un edificio che ospita un numero cospicuo di ospiti stranieri, grandi e piccoli, in classi composite, variegate e multilingue, in un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine. In una stanza più grande giocano quattro bambini africani, piccoli, che guardano i visitatori con occhi sgranati. La stanza, spiega il Sindaco, che serve oggi da asilo nido, sarà presto sostituita da una struttura completamente nuova, ormai in fase di avanzata realizzazione, nella vicina frazione Marina. La giovane, anch’essa di origine africana, che accompagna amorevolmente i piccoli e li segue nei loro spostamenti, al tempo del suo arrivo in Italia, ci spiegano si prostituiva per sopravvivere.
«Nelle classi, ai cui muri sono attaccati i manifesti elementari che spiegano i rudimenti della lingua italiana, troviamo persone del Gambia, del Mali, della Siria (una coppia di sposi non più giovanissimi e che portano ancora sul volto i segni della paura), del Pakistan, dell’Africa subsahariana. Giovani e meno giovani, adolescenti con il loto smartphone e bambini minuscoli attaccati alle loro madri, impegnate nello studio. La pluriclasse, infine, è un tripudio di razze dietri i banchi della scuola. Due ragazzini di Riace scherzano e scambiano commenti ironici con i loro coetanei dell’Africa o del vicino Oriente, fino a radunarsi su invito della maestra per una foto di gruppo. Sono lì tutti insieme, in arrivo da tante parti del mondo, lontane tra loro…».
Alla Commissione prefettizia non sfugge anche l’effervescenza sociale che ha pervaso la nuova Riace: «Scendiamo e risaliamo lungo i vicoli del paese e troviamo case nelle quali riconosciamo anche alcuni degli alunni della scuola, visti prima. Chi ci accompagna spiega loro che siamo della Prefettura e tutti ci lasciano entrare per consentirci di guardare come vivono e cosa fanno. Pur nella povertà dei mezzi, si scorge sempre una dignità nel modo di vivere e nel modo di affrontare la vita. Sono persone che cercano un riscatto, che hanno voglia di dimenticare il passato e che mantengono l’entusiasmo di poter ricominciare. Riace è anche questo. E’ un paese che ha ricominciato a fare tante cose. Risalendo, nei pressi della scuola, un bellissimo parco giochi invade la nostra visuale. Non se ne vedono molti così, nei paesi spogli e disadorni della provincia reggina. Non c’erano bambini in quel momento ma non era difficile immaginarlo arricchito da decine di facce nere, gialle, bianche e rosse per il freddo, ma felici per le arrampicate, le cadute, le ginocchia sbucciate e la voglia, infine, di tornare a casa…».
Anche gli esercizi commerciali e le tradizioni artigianali hanno ripreso a pulsare: «…Sono le famose botteghe artigiane di Riace dove si lavora il legno, il vetro, la lana, i tessuti e molte altre cose. In ognuna di queste troviamo un ragazzo (o una ragazza) di Riace ed almeno un o una migrante, tutti nelle rispettive uniformi di lavoro, intenti nelle loro attività quotidiane, frutto di un apprendimento paziente di mestieri antichi, di una bellezza mai spenta. Dentro un bugigattolo lungo e stretto, ingombro di giocattoli di legno di ogni forma e dimensione, troviamo un uomo di mezz’età (ha 50 anni, dice), che viene dal Kurdistan e, racconta, è arrivato a Riace nel 1998. Ci spiegano che è uno dei primi stranieri ad essere arrivato a Riace e, da allora, non se ne è mai andato. Lavora il legno mentre parla, dipinge a mano una bambolina. Il tocco è preciso, solo un momento si ferma ed alza gli occhi, quando gli chiediamo del suo Paese. ‘Non va bene’, dice…’Non va bene’ e ricomincia a dipingere, quasi a voler mantenere il distacco dalle idee e dai ricordi di un tempo…».
La relazione prefettizia si sofferma anche su uno degli aspetti più caratteristici del “modello” creato da Lucano: “…Più in basso, per una estensione di svariate decine di metri, sono stati realizzati alcuni terrazzamenti ordinati, in cima ai quali si palesa una specie di aia, con degli asini al pascolo. Servono per la differenziata, ci spiegano, che viene fatta con il metodo della raccolta porta a porta (a dorso di mulo), nelle stradine strette di Riace, dove le automobili non passano. Su quelle terrazze, che degradano sotto gli zoccoli dei muli, sorgono ad intervalli differenziati delle piccole costruzioni vuote, con un ampio spazio di terra intorno. Il sindaco spiega che il progetto che stiamo osservando prevede la concessione in uso ai migranti di tutte quelle casettine, nelle quali custodire i propri animali domestici e provvedere quindi alla coltivazione, da parte di ciascuno, di un orto, i cui frutti potranno approvvigionare le dispense con i prodotti della terra (casomai i bonus non dovessero bastare). Riace è anche questo: l’inventiva legata alla tradizione, l’idea di recuperare spazi per lavorare la terra e sfamare i propri familiari con quello che la fatica delle mani riesce a realizzare. Certo, avremmo potuto chiedere al Sindaco maggiori dettagli sul rispetto delle regole urbanistiche nella realizzazione del progetto e se le casette fossero state realizzate da ditte iscritte nella white list o individuate con manifestazione d’interesse aperta almeno a 5 concorrenti, ovvero se le dimensioni dei terrazzamenti fossero rispondenti a quelle previste dalla legge agraria del 1982, ma eravamo lì per l’ispezione ai Cas e non potevamo venire meno all’incarico che ci era stato affidato…”.
L’opera di Lucano non è stata oggetto solo di legittimi interrogativi, come quelli appena ricordati. Anche la magistratura ha indagato sul sindaco di Riace, finito agli arresti domiciliari e successivamente riconosciuto estraneo ai fatti che gli erano stati contestati. Un esito importante, certo, ma che non potrà cancellare l’umiliazione delle prime pagine dedicate a Lucano dalle principali testate, dai siti web, dalle tv di tutto il mondo. E nemmeno l’amarezza per la fine del grande sogno di Riace. Un gran peccato. Tutto funzionava bene. L’orologio della solidarietà segnava un tempo preciso. Costante. Regalava sorrisi. Era stato capace di restituire la speranza di una vita diversa ad un esercito di donne, uomini, bambini provenienti da territori poveri, piagati dalla fame, dalle malattie. Dilaniati dalla guerra. Teatro di profonde sopraffazioni. «Chiunque bussi alla nostra porta, che sia un miserabile, un profugo o un viaggiatore, rappresenta l’unica salvezza per il mondo intero, la sola speranza contro la violenza della storia», rispondeva Lucano a chiunque gli chiedesse il segreto di quella positiva esperienza. Aggiungendo che Riace contribuiva a «riaffermare i valori della Costituzione nata dalla lotta dei partigiani, in nome di un’umanità solidale che deve essere ribadita per contrastare l’onda nera che sta attraversando il mondo. Un fenomeno globale, come è globale l’esistenza di un popolo in viaggio affamato d’umanità. È un processo che investe l’Africa e il Medio Oriente, come ben sappiamo, così come l’America con le carovane che attraversano il Centro America e si muovono verso gli Stati Uniti solo per trovarsi davanti a trafficanti di uomini, muri, fucili e propaganda».
Lucano, nonostante tutto, continua a credere che ogni comunità debba fondarsi sul rispetto della dignità umana. Merita la nostra ammirazione anche per questo. Ma ognuno di noi deve avere fiducia in questa idea e operare perché non cada nell’oblio. Significherebbe non solo tradire i valori fondamentali della nostra democrazia, ma indebolire il senso stesso della nostra esistenza. (fk)
IL FUORILEGGE – La lunga battaglia di un uomo solo
di Mimmo Lucano
Feltrinelli (2020) ISBN 9788807173813