di MARIACHIARA MONACO – L’Associazione Itaca, capitanata dal suo presidente, Antonio Guarascio, e dal suo vice, Enrico Lia, ha organizzato presso l’Aula Andreatta dell’Università della Calabria, il primo Festival della Letteratura, manifestazione unica nel suo genere all’interno dell’ateneo calabrese, al fine di mettere in vetrina i nuovi giovani talenti della scrittura, che, con le loro opere danno lustro ad una terra difficile, dove però batte sempre il sole.
Itaca rappresenta la metafora del viaggio, inteso come arricchimento personale, fatto di esperienze, incontri, e proprio per questo motivo, in molti hanno deciso di salire “a bordo”, per scoprire la ricchezza che ha da offrire la letteratura.
«L’obiettivo dell’associazione è quello di diffondere il valore della cultura ed oggi lo facciamo attraverso la presentazione di due splendidi libri, degni di nota. Quando abbiamo dato vita a questo nuovo organismo, ci siamo basati su una vera e propria dichiarazione dei princìpi, ovvero non solo fare rappresentanza studentesca e aiutare giornalmente i nostri colleghi, ma essere un faro del sapere all’interno del Campus», ha dichiarato il presidente in apertura.
A prendere la parola, è stato poi il Senatore Accademico, Costantino Basile: «In una vita frenetica, che ci allontana spesso dal piacere di leggere un buon libro, ritornare con i piedi per terra è fondamentale. Perché è vero che la letteratura può cambiare la vita delle persone, proprio com’è successo ad un mio amico, che ha ritrovato sé stesso attraverso le parole di altri, come se per la prima volta avesse guardato il suo volto allo specchio», confessa.
In ordine di scaletta, la prima opera presentata s’intitola Quel bisestile, scritta da Antonella Mandarino, dottoressa in Lettere e Beni Culturali e studentessa di Filologia Moderna.
Si tratta di un romanzo contemporaneo che narra la storia di una giovane ragazza, Serena, catapultata nel buio periodo della pandemia, a dover fare i conti con le proprie ansie e le proprie paure, ma anche con un amore travagliato, una situazione familiare difficile (viene trattato il tema della violenza domestica, in maniera molto oculata e riflessiva dalla giovane autrice).
Violenza domestica che viene esercitata dal padre di Serena nei confronti di quella donna che in un passato non troppo remoto aveva sposato, e che l’aveva reso genitore, di una ragazza, che di “serena” portava solo il nome. In questo periodo “silenzioso” la protagonista, vive una tragedia che poi alla fine tramuterà in riscatto, proprio come succede alle opere d’arte che il tempo trafigge, pur mantenendone la bellezza e la fragilità.
Ecco che ella pian piano ricostruisce quel filo rosso che lega la sua anima a quella della migliore amica, Natalia, il suo centro di gravità permanente, e successivamente a quella di un ragazzo, la parte mancante di sé, la sua dolce metà. C’è poi il tema del viaggio, che si collega in maniera netta a quello della cultura, abbracciando e calpestando le strade di Roma e di Napoli con naturalezza e disinvoltura, ricordando a noi tutti l’importanza del confronto con l’altro, del dialogo, e perché no, anche della riflessione.
Serena siamo tutti noi, quando si vede riflessa nelle rovine della Capitale e si sente esattamente in quel modo, distrutta, in un mondo che non le appartiene, e forse figlia di un’epoca sbagliata, dove apparire è più importante che essere.
È una sorta di diario personale, scritto in prima persona, scelta che dà una forte carica emotiva, pronta a scuotere gli animi dei lettori più attenti e facendo i conti con le umane sensazioni. Una particolarità, che si nota fin dai primi capitoli, è la volontà, da parte dell’autrice, di voler inserire a volte delle frasi, a volte versi, o parti di canzoni.
E non possiamo fare altro che notare un omaggio al grande Shakespeare, che nel suo “Mercante di Venezia” ha osservato: “L’uomo che non ha musica in se stesso, che l’armonia dei suoni non commuove sa il tradimento, e la perfida frode. Le sue emozioni sono una notte cupa. I suoi pensieri un Erebo nero. Alla musica credi, non a lui.”
E non è proprio così?
La seconda opera, Il tempo dell’attesa, scritta dal giovane Giuseppe Meta, (anch’egli dottore in lettere e beni culturali, e studente di filologia moderna), è un romanzo che si snoda in un tempo distante rispetto al nostro, ambientato in una Calabria molto povera, arretrata, caratterizzata da una classe sociale “chiusa”.
Giacinto, il protagonista, è esistito veramente, e oltre ad essere il bisnonno dell’autore, è uno degli 800.000 italiani, che dal 1871 al 1900, si spostarono in Argentina. Un viaggio complesso il suo, che lo porta dall’altra parte del mondo per affari di cuore, egli infatti si era innamorato di una donna molto ricca, Filippina, che non avrebbe mai potuto sposare, provenendo da una famiglia umile.
La paura continua a persistere in Giacinto, che crede inizialmente di essere approdato in una “nuova Calabria”, fatta di villaggi, di gente che camminava scalza, e dove si percepiva a pieno il significato della parola povertà. L’uomo stringe i denti, lavora faticosamente per dieci lunghi anni, lontano dalla sua amata, presente sempre nei suoi pensieri, e unica forza per andare avanti in condizioni disastrose.
Ma lo spazio sa essere molto crudele, e la mancanza si fa sempre più forte, da parte della madre di Giacinto, che continua sempre lo scambio epistolare con il figlio, senza avvertirlo della morte del suo caro fratello, per evitare un ulteriore crepa su un cuore che continua nonostante tutto a pulsare.
Il riscatto sociale è uno dei tanti temi che invadono questa meravigliosa, e perché no anche attuale opera, perché alla fine Giacinto torna in Italia ed apre una grande sartoria, potendo così sposare l’amore della vita, Filippina.
Costanza, dedizione, amore, impegno, se cerchiamo sul vocabolario un termine che possa descrivere l’immensità di questa storia, probabilmente faremo fatica a trovarlo.
Ma una cosa è certa: chi non vorrebbe un amore così? (mm)