RYANAIR PREANNUNCIA UN HUB A REGGIO
LA SFIDA DELLO SCALO DELLO STRETTO

di CLAUDIO ALOISIOLa notizia ufficiale è che Ryanair aprirà un Hub a Reggio Calabria. In parole semplici, la nota compagnia low cost farà base con un aeromobile nell’Aeroporto dello Stretto e ciò gli permetterà di programmare otto destinazioni settimanali: quattro nazionali e quattro europee. 

Partendo, quindi, da questa positiva novità desidero fare due considerazioni. La prima è funzionale, consentitemi, a un sassolino nella scarpa che mi vorrei togliere: era il 12 agosto quando dichiaravo che grazie all’ostinazione del presidente della Camera di Commercio Ninni Tramontana supportato da tutte le associazioni datoriali, dopo mesi di muro contro muro si era finalmente riavviata l’interlocuzione tra le Istituzioni reggine, la Regione e la Sacal. Interlocuzione che aveva portato a un incontro tra le parti da me pubblicamente definito proficuo, in cui si era tracciata una road map la quale, punto per punto, sino ad oggi è stata rispettata.

Ci tengo a precisarlo perché in quel periodo ho ricevuto molte critiche da chi ora, alla luce dei risultati ottenuti con l’impegno, il confronto e un atteggiamento costruttivo e non sfascista, si è già rimangiato quello che affermava unendosi al coro dei complimenti per il risultato ottenuto. D’altra parte si sa: mentre i fallimenti sono sempre orfani, i successi hanno tanti genitori veri o presunti che siano.

La seconda considerazione, invece, è molto più importante e riguarda l’ennesima grande occasione che ci viene concessa grazie a questo risultato. Un’occasione che non riguarda solo il nostro scalo il quale ha finalmente la possibilità di rinascere divenendo veramente, e non soltanto nel nome, l’Aeroporto dello Stretto, ma tutto il territorio. Ryanair è un volano formidabile per lo sviluppo turistico delle zone dove è presente. Basti pensare, giusto per fare un esempio, a Genova dove ha portato in pochi mesi un incremento del 46% degli arrivi turistici internazionali. 

Il problema è: noi siamo pronti? La risposta è tanto semplice quanto sconfortante: no, non lo siamo. Non abbiamo gli strumenti che consentano di fare rete, sviluppare servizi di incoming e accoglienza, creare opportunità agli operatori economici per prepararsi adeguatamente. 

Come Confesercenti Reggio Calabria, supportati nella nostra richiesta anche dalla Camera di Commercio, chiediamo da anni l’istituzione di una Dmo una società pubblico/privata che abbia come unico obiettivo lo sviluppo turistico dell’area metropolitana reggina. Purtroppo ad oggi inascoltati. 

Eppure basterebbe prendere esempio da quelle province e regioni dove il turismo funziona veramente per importare delle “buone pratiche” che permettano anche a noi di avviare un percorso virtuoso di sviluppo turistico condiviso. E ci si deve muovere adesso, subito, con una precisa strategia di promozione e accoglienza, facendo leva sulle peculiarità di una terra che ha tutte le carte in regola per divenire una meta ambita e apprezzata. Altrimenti si rischia il gigantesco flop di un’altra occasione irripetibile che siamo stati capaci di non cogliere: il cinquantesimo dei Bronzi di Riace. 

Non possiamo e non dobbiamo rischiare di farci trovare impreparati anche questa volta. Si deve agire immediatamente – e noi la strada da seguire l’abbiamo suggerita – creando condizioni e strumenti per il coinvolgimento attivo delle imprese e dei cittadini in un processo di sviluppo e cambiamento veramente a portata di mano e, oggi più che mai, indispensabile per risollevare le sorti di un territorio altrimenti destinato a desertificarsi e spegnersi definitivamente. (ca)

————————-

TRA PROMESSE E ASPETTATIVE

Siamo sicuri che quattro voli internazionali faranno risorgere l’Aeroporto di Reggio? Che traffico ci potrà essere da e per Marsiglia e Manchester? A Reggio servono cinque voli a/r quotidiani per Roma e altrettanti per Milano: da queste due città si raggiunge il mondo, facendo un semplice scalo (e relativa dogana). Ma i voli che interessano i reggini che viaggiano per lavoro, salute o svago, restano in mano a Ita, con orari impossibili. Dove sta il buonsenso? Trovatelo, per favore. (s)

 

NELLA COERENZA DELLE CONTRADDIZIONI
SOLO LA CHIESA HA CAPITO L’AUTONOMIA

di MIMMO NUNNARI – C’è un aspetto non considerato nella polemica che si è accesa sulle conseguenze che comporterà l’introduzione dell’Autonomia differenziata se mai arriverà al traguardo e non riguarda solo la divaricazione Nord Sud che inevitabilmente si accentuerà malgrado le ipocrite rassicurazioni della Lega il movimento nato separatista che ha sempre avuto l’obiettivo di disarticolare l’unità morale sociale e politica del Paese.

Il traguardo sogno della Padania poco più di trent’anni dopo passando da Bossi a Salvini potrebbe ora essere raggiunto, paradossalmente con l’aiuto determinante di FdI: la forza politica erede di movimenti di destra e post fascisti che fino a poco tempo fa innalzavano orgogliosamente la bandiera dell’antiregionalismo e della patria unita.

Senza andare troppo indietro nel tempo, quando Giorgio Almirante, segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano, affermava che le Regioni sarebbero state “carrozzoni clientelari e di potere” e votò contro la loro istituzione, insieme a liberali e monarchici, basterebbe adesso ricordare quando nel 2014 l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni allora esponente di Alleanza Nazionale presentò in Parlamento un progetto di riforma costituzionale – insieme al collega Edmondo Cirielli, l’attuale viceministro degli Esteri – che prevedeva l’abolizione delle Regioni tout court.

È questa l’Italia: il Paese delle conversioni per opportunismo e per convenienza, del trasformismo e degli intrighi. Aveva ragione lo scrittore Guido Morselli: “Negli uomini, non esiste veramente che una sola coerenza: quella delle loro contraddizioni”.

È questa l’Italia alla perenne ricerca di stabilità e identità: Il Paese dove non si è mai riuscito a saldare moralmente e culturalmente – con un visione suprema dello Stato –  territori dalla Sicilia alle Alpi.

Oggi, sembra che tutti in Parlamento abbiamo dimenticato – anche i “45” senatori di centrodestra del Sud che hanno chinato il capo come i sudditi – che il fanatismo e l’egoismo delle leghe nordiste è un veleno che corrode la solidarietà di cui il Mezzogiorno e le aree più deboli hanno bisogno.

Solo la Chiesa sta parlando con chiarezza: “È questo un modo per diventare più solidali, sapendo del grande divario che c’è tra una parte e l’altra d’Italia”? ha commentato il segretario di Stato Vaticano cardinale Pietro Parolin dopo il voto del Senato. E pochi giorni prima un avvertimento pesante era giunto da Matteo Maria Zuppi presidente della CEI: “Attenti i vescovi del Sud sono sul piede di guerra”.

La questione non è solo ciò che un domani potrà accadere ma ciò che sta già accadendo oggi, con uno scenario politico parlamentare terreno di scontro duro, come nell’epoca post risorgimentale e con i giornali nazionali che sulla scia di questa contrapposizione si schierano a favore o contro una causa, a sostegno o contro le forze politiche, tornando a quel vizio d’origine del giornalismo italiano che ha condizionato a lungo la sua funzione e il suo sviluppo, non solo nel ventennio fascista. Si sta facendo un tipo di giornalismo votato alle cause da sostenere, delle parti politiche da assecondare, e poco attratto dall’esigenza di informare con correttezza con il fine precipuo di comunicare notizie e di interpretare i gusti e le esigenze dei lettori e di informare a tutto campo. Anche per questo i giornali nazionali continuano a perdere lettori. Un secolo e mezzo dopo l’Unita’, i mezzi della comunicazione risentono ancora di quel vizio d’origine che malauguratamente si riflette nelle vicende storiche del Paese, anch’esse, per mancanza di visioni, tornate all’epoca dei contrasti e delle fratture politiche che allontanarono e oggi ancora allontanano il Mezzogiorno dall’Italia e dall’Europa, delegittimando i valori etici-politici dello Stato unitario. (mnu)

MUSEI IN CALABRIA SEMPRE PIÙ AFFOLLATI
IL TURISMO DEVE PUNTARE SULLA CULTURA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – È un vero e proprio riscatto culturale, quello dei musei calabresi. In tre anni, infatti, sono stati recuperati – e quasi raddoppiati – il numero dei visitatori rispetto al periodo pre-pandemia. Un dato significativo, che fa comprendere, ancora una volta, quanto la cultura e i tesori custoditi nella nostra regione siano fondamentali per il rilancio della regione.

Dopo i 162.178 accessi del 2019 si era scesi ai 75.519 del 2020 (anno del Covid) con un decremento pari a -53,43%. Una prima ripresa si era avuta già nel 2021 quando gli accessi erano stati 103.912 con un aumento rispetto all’anno precedente pari al +37,60%. Un trend di crescita che si è consolidato sia nel 2022 (con 208.235 accessi pari ad un aumento del +100,40%) e nel 2023 (con 250.080 visitatori e un nuovo aumento del 20,10%). Dati che raccontano di un (quasi) raddoppio dei visitatori rispetto al periodo pre-pandemia.

L’analisi degli introiti, allo stesso modo, rivela che nel 2022 dallo sbigliettamento sono arrivati nelle casse della Drm Calabria quasi 148mila euro (precisamente 147.595,90 euro) mentre nel 2023 quasi 250 mila euro (esattamente 253.925 euro). Confrontando i due dati ne risulta una crescita pari a oltre il 72%: numeri che raccontano di un trend, anche in questo caso, impressionante.

«Le immagini dei musei chiusi, dei parchi con l’erba alta e le manutenzioni in affanno, sono oramai alle nostre spalle», ha commentato con soddisfazione il direttore della Direzione Regionale Musei Calabria, Filippo Demma.

«Grazie ad un grande e importante lavoro di squadra – ha spiegato – i musei statali calabresi crescono in maniera decisa e costante. Siamo particolarmente contenti anche dell’aumento davvero corposo degli introiti che saranno reimpiegati sul territorio in progetti di conservazione e valorizzazione del patrimonio e di supporto al personale».

«Alla professionalità e allo spirito di sacrificio dei dipendenti della Direzione regionale Musei Calabria, in particolare – ha proseguito Demma – va il mio ringraziamento. Il loro lavoro ha consentito a tutti i luoghi della cultura di superare con successo un periodo caratterizzato da gravi carenze di organico solo recentemente attenuate da nuove immissioni in ruolo».

«Determinante è stato anche il sostegno centrale da parte della Direzione Generale Musei del Ministero della Cultura e del professore Massimo Osanna che ne è a capo – ha concluso –. Guardiamo a questo 2024 come all’anno che confermerà definitivamente il trend positivo della cultura in Calabria».

Ma il 2024 non è solo l’anno del riscatto della cultura in Calabria: è, anche, quello del Turismo delle radici. Ovvero quel tipo di turismo per cui gli italiani emigrati nel mondo e i loro discendenti (circa 60/70 milioni di persone) vogliono tornare a visitare i luoghi natii.

Un bisogno molto sentito dai 6 milioni di calabresi residenti all’estero, tanto che da alcuni mesi si registrano, sempre di più, le visite e i racconti di chi è tornato per riscoprire i luoghi nativi dei loro antenati.

Il turismo delle radici, dunque, è un’occasione imperdibile per i piccoli Comuni calabresi per diventare parte integrante del turismo moderno. Lo stesso Giuseppe Nucera, nel corso dell’International Tourism & Travel Show di Montreal svoltosi lo scorso novembre, aveva ribadito come «il turismo delle radici è la chiave per il rilancio della Calabria».

«Sono milioni i calabresi che si sono creati una nuova vita all’estero, ma che hanno un legame intenso e indissolubile con la loro terra – ha ricordato –. Anche persone di terza o quarta generazione, avvertono la necessità di conoscere la Calabria, i luoghi che hanno visto nascere i loro cari».

«Alle bellezze uniche e meravigliose della nostra regione – ha evidenziato Nucera – si unisce il forte desiderio di una immensa comunità di ammirarle o riscoprirle. Al contempo, l’offerta turistica va fortemente proprio nella direzione del turismo delle radici, con la Calabria che possiede incantevoli borghi spopolati, che possono trovare nuova vita ospitando per un periodo di tempo anche prolungato gli emigrati».

Ma, se si vuole arrivare a questo obiettivo, è fondamentale risolvere i problemi atavici della regione, a partire dalle infrastrutture.

Nel nostro giornale, Aristide Bava denunciava come «uno dei problemi  più gravi che esiste sul  territorio della Locride è, certamente, quello della mancanza di adeguati collegamenti cosa che, soprattutto dal punto di vista turistico, continua a frenare lo sviluppo dell’intera zona. E stiamo parlando di collegamenti di ogni tipo a partire da quelli ferroviari».

«D’altra parte – continua a scrivere Bava – non è che affrontare un viaggio verso la Calabria sia facile. Arrivare in auto spesso è difficile per le solite precarie condizioni delle strade e anche l’arrivo in treno (a Rosarno, a Gioia Tauro o a Lamezia) deve combaciare con collegamenti con pullman che sono molto risicati o  con mezzi di fortuna e/o amici che devono poi provvedere a farli arrivare nella fascia ionica reggina. E spesso sono in molti i forestieri che rinunciano alle loro vacanze in Calabria. In effetti il problema dei mancati collegamenti ferroviari, stradali o aerei  penalizza fortemente il territorio, questo è ormai indiscutibile».

«Il territorio si salva in qualche modo ma le presenze rimangono ancora limitate rispetto alle sue enormi possibilità perché è appetibile e ricco di risorse di vario genere, ma riteniamo che questo problema debba essere preso in seria considerazione. Bisogna certamente fare qualcosa di concreto anche in fatto di costi. E non solo per i “ritorni” della nostra gente ma anche e soprattutto adesso che molti turisti stanno scoprendo il territorio della Locride e con esso le grandi potenzialità della Calabria», ha concluso Bava.

Un problema a cui, lentamente, la regione sta cercando di porre rimedio. È proprio di qualche giorno fa l’annuncio che l’aeroporto di Reggio Calabria sarà uno dei nuovi hub della compagnia Ryanair.

«Un evento storico», lo ha definito il presidente della Regione, Roberto Occhiuto che, allo stesso tempo, ha annunciato l’impegno nel cercare di tenere aperto, oltre l’orario stabilito, dell’Aeroporto di Crotone.

«L’investimento sulle nuove rotte è decisivo per il turismo – ha evidenziato –. Dobbiamo portare in Calabria milioni di visitatori facilitando l’accesso attraverso i nostri aeroporti. Ed è quello che sto cercando di realizzare».

E, tra i visitatori, sono incluse le famiglie. Il governatore, infatti, ha riferito di star investendo sugli alberghi e di aver creato un bando da 16 milioni per permettere alle strutture di attrezzarsi per essere a misura di bambino.

«Su questo abbiamo destinato delle risorse perché mi piacerebbe che da qui a un anno la Calabria potesse avere un ‘bollino’ e qualificarsi come regione dove il turismo è a misura di bambino», ha concluso.

Un piano molto ambizioso quello del Governatore, ma che sicuramente può funzionare. D’altronde, oltre al mare e alla montagna, nella nostra regione ci sono tantissimi Musei che, spesso, offrono laboratori creati ad hoc per i più piccoli per far scoprire loro, tramite il gioco, la storia e la cultura della nostra regione.

Un’occasione, quella offerta dai Musei, che non solo offre un momento di divertimento per i più piccoli, ma anche una scusa per i più grandi di visitare un luogo che custodisce un patrimonio storico, artistico e culturale non indifferente. Iniziative del genere andrebbero organizzate e promosse di più. (ams)

 

EDILIZIA SCOLASTICA, CALABRIA BOCCIATA
TANTI RITARDI E INTERVENTI MAI AVVIATI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Mancanza di programmazione e un atavico e cronico ritardo dominano l’edilizia scolastica in Calabria. Una scuola su tre – non solo in Calabria, ma anche in Sicilia – necessitano di interventi urgenti di manutenzione e, negli ultimi cinque anni, non sono state costruite nuove scuole. Questa è solo una parte della fotografia desolante scattata dal Report Ecosistema Scuola di Legambiente, giunta alla 23esima edizione, perché, mentre «per il Governo la priorità è il Ponte sullo Stretto, a discapito dello stato di salute delle scuole e della mobilità sostenibile, due priorità sui cui sarebbe urgente lavorare».

Insomma, è tutto da rifare e ripensare per l’Associazione, soprattutto nella nostra regione, in cui non ci sono edifici costruiti con i criteri della bioedilizia – anche se a livello nazionale sono soltanto l’1,3% – così come non risultano essere state edificate scuole nuove negli ultimi 5 anni. Eppure, in Calabria ci sono 153 Istituti scolastici con una popolazione scolastica di 24.328 studenti.

Ma avere scuole nuove e innovative sembra essere un miraggio: «ammonta a 6 milioni di euro – ha rilevato Legambiente – l’entità di fondi necessari a singola scuola mediamente. Investimenti che occorre programmare in un medio lungo periodo e che difficilmente si possono trovare nei bilanci ordinari dei Comuni, se non accedendo a fondi nazionali. Nonostante lo stanziamento delle risorse, nella Penisola la realizzazione di nuove scuole è un miraggio: negli ultimi 5 anni è stato dello 0,6%».

«Così come – si legge nel Rapporto – l’attivazione del tempo pieno, mediamente presente nel 33,2% delle classi del Centro-Nord e nella più modesta media del 20% nel Sud e nelle Isole. Preoccupante è lo stato di avanzamento dei progetti riguardanti i piani del Pnrr: asili nido, messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica, estensione del tempo pieno – mense, infrastrutture per lo sport, costruzione di nuove scuole, nell’iter che va dal progetto, alla gara e all’aggiudicazione: in Calabria su 539 progetti per una media di oltre 1 milione e trecentomila euro a progetto sono stati aggiudicati solo per il 28,8%».

A tal riguardo, l’Associazione ha ricordato come «ammontano a 519 milioni di euro i fondi stanziati dal Pnrr per 767 nuove realizzazioni o ampliamenti/potenziamenti di spazi mensa.Sembrano aver fatto richiesta di questo tipo di finanziamenti in maniera importante le regioni del Sud e delle Isole, che attualmente non superano una media di classi a tempo pieno nel 20% dei casi.Un incremento che dovrebbe muovere il basso dato di edifici con mensa scolastica che mediamente al Nord è presente in 3 scuole su 4 mentre nelle Isole, nemmeno nella metà degli edifici».

«Non va dimenticato poi che in Sicilia e Calabria – dove tutti i capoluoghi di provincia, con la sola eccezione di Caltanissetta, sono in area sismica 1 e 2 – mediamente, nel 65% dei casi non è stata effettuata la verifica di vulnerabilità sismica. Sul fronte messa in sicurezza, altro osservato speciale è il Centro Italia colpito dal sisma 2016 dove negli ultimi 5 anni – ha denunciato Legambiente – gli edifici in cui sono stati realizzati interventi di adeguamento sismico sono solo il 3,4%».

«A livello nazionale – viene rilevato nel Report – nel 2022 gli edifici costruiti secondo i principi di bioedilizia rimangono relegati al 1,3% del totale. L’efficientamento energetico, pur affrontato da alcune amministrazioni su un numero consistente di edifici di propria pertinenza,riguarda solo il 12,7 % del totale degli edifici scolastici tra quelli realizzati negli ultimi 5 anni, distribuito in modo piuttosto disomogeneo».

«Questo a fronte di un dato sconfortante rispetto alla pressione del problema energetico: di tutti gli edifici scolastici, solo il 5,4 % si trova in classe A, mentre ben il 73% in classe E, F e G.Nota positiva riguarda invece l’interesse delle amministrazioni (90%) a realizzare comunità energetiche scolastiche – continua la nota –. Le scuole in cui è presente un servizio di mobilità collettiva, fattore che potrebbe migliorare molto la congestione delle nostre città, sono ancora solo un 20,8% per gli scuolabus e il 10,7% per le linee scolastiche. Sempre molto bassi e concentrati al Nord i servizi di pedibus (4,1%) e bicibus (0,2%), che pure potrebbero rappresentare una mobilità non solo sostenibile ma anche più salutare e divertente. Sul fronte sicurezza, gli edifici scolastici posti all’interno di isole pedonale sono l’1,9%, in ZTL il 4%, in Zone 30 il 13,6%, in strade scolastiche il 6,9%».

Dati che dimostrano, ancora una volta, come «i fondi nazionali destinati all’edilizia scolastica risultano essere fortemente penalizzanti per la Calabria», hanno rilevato Anna Parretta, presidente di Legambiente Calabria e Stefania Rotella, responsabile Settore Scuola di Legambiente Calabria.

«Si sta, inoltre, verificando un ingente spostamento di risorse, come sta accadendo per il fondo perequativo per superare i gap infrastrutturali del Sud, con 1,1 miliardi sottratti al comparto istruzione e dirottati sul ponte sullo stretto di Messina. Appare evidente l’esigenza – hanno concluso Parretta e Rotella – di agire sulle vere priorità di Calabria e Sicilia, considerando la primaria importanza del sistema Scuola, sia in termini di adeguamento delle infrastrutture a partire dalla basilare verifica di vulnerabilità sismica sino all’efficientamento energetico, all’ incremento di servizi quali ad esempio, impianti per lo sport, mobilità sostenibile, mense biologiche».

Ma non è solo la Calabria a essere penalizzata: È l’intero Sud a essere “dimenticato” dalle Istituzioni. Lo dimostrano i dati rilevati per quanto riguarda i servizi scolastici che, «nonostante rappresentino una parte importante per la crescita, la socialità e l’inclusione tra i ragazzi sono poco garantiti nelle scuole del Sud della Penisola. Il tempo pieno è praticato mediamente solo nel 20% delle scuole del Sud e delle Isole, contro una media del 35% delle classi del Centro Nord. Grandi assenti anche le palestre e gli impianti sportivi: nel Sud Italia una scuola su due non ha palestre o impianti sportivi e dove gli impianti sono funzionanti, quelli che sono aperti oltre l’orario scolastico sono a poco più del 40% nelle città del Sud e del 33% nelle Isole, contro l’oltre 60% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord».

«L’investimento complessivo del Pnrr per la costruzione o la ristrutturazione di edifici nuovi o adattati, adibiti a palestre o impianti sportivi – ha ricordato Legambiente – è di circa 350 milioni per 445 progetti, di cui più della metà nelle regioni del Sud e delle Isole che in parte dovrà colmare divari infrastrutturali anche se in realtà sono presenti carenze un po’ in tutta la penisola, con 1 scuola su 2 che non ha la palestra e che vede in un impianto su tre la necessità di manutenzione urgente (al Sud diviene quasi uno su due)».

«A fronte di ciò – ha rilevato Legambiente – se le risorse stanziate con il Pnrr, dovrebbero rappresentare in generale un’importante opportunità per rinnovare in tutta la Penisola la qualità degli edifici e dei servizi scolastici attraverso nuove scuole e più servizi tra cui tempo pieno, palestre, mense e asili nido, ad oggi fatica la messa a terra degli stanziamenti previsti con più del 40% degli interventi bloccati nella fase iniziale di progetto».

Di fronte alla fotografia che emerge, Legambiente ha indirizzato al Governo Meloni e al Ministro dell’Istruzione le sue proposte chiedendo, in primis, di «dare priorità nell’indirizzo dei fondi, compreso il Pnrr, alla messa in sicurezza e adeguamento sismico delle scuole in area sismica 1 e 2 e all’efficientamento energetico degli edifici raggiungendo una diminuzione dei consumi almeno del 50%; di istituire una struttura di governance per la facilitazione all’accesso e alla gestione dei fondi per l’edilizia scolastica da parte degli Enti Locali e di rendere di facile consultazione i dati dell’anagrafe scolastica e dello stato di avanzamento dei fondi e interventi per l’edilizia scolastica».

Per Claudia Cappelletti, responsabile nazionale Scuola di Legambiente, «la transizione ecologica passa anche per l’edilizia scolastica e i relativi servizi, ma oggi questo percorso è fin troppo timido e fatica a decollare come raccontano i dati del nostro Rapporto Ecosistema Scuola».

«Occorre accelerare il passo – ha rilanciato – per evitare che la scuola rimanga indietro e che aumentino ancor di più le disuguaglianze. Le risorse del Pnrr rappresentano un’opportunità importante e preziosa che non deve essere assolutamente sprecata. Quello che ci auguriamo è che l’infrastruttura scolastica e tutto ciò che attiene all’istruzione venga considerato asse strategico per la crescita del Paese, con un costante e ampio investimento in una programmazione che assicuri la capacità di intervento ordinario e straordinario».

«Non dimenticando, in un Paese in cui persistono molti divari – ha concluso – che l’autonomia differenziata non è la risposta ad una tale esigenza di perequazione».

«Dove esistono problemi più acuti di povertà educativa e di carenze di servizi – ha dichiarato Elena Ferrario, presidente di Legambiente scuola e formazione – la scuola non riesce ad essere quel presidio educativo presente e aperto anche in orario extrascolastico, come sarebbe auspicabile. Non basta dare fondi per le strutture murarie, come sta avvenendo nel Pnrr, se su funzioni socialmente strategiche come palestre, mense, asili nido, non si prevedono fondi ulteriori per la loro gestione».

«Il Paese, in sintesi – ha concluso l’Associazione – ha bisogno di scuole innovative, più sicure e inclusive come raccontano anche le buone pratiche, come servizi di mense scolastiche a km zero, “Nidi comunali gratuiti per tutti”, attività di scuolabus e pedibus o laboratori di CER (Comunità Energetiche Rinnovabili), riguardanti edifici scolastici». (ams)

SANITÀ, L’AUTONOMIA RIMANE INCOMPIUTA
SE NON SI GARANTISCONO LEP E FABBISOGNI

di ETTORE JORIO – Ovunque la gente muore di mala sanità o quantomeno passa le pene dell’inferno nel rintracciare un medico di famiglia che non ha più ovvero, ancora, ad “acchiappare” un esame diagnostico vitale, altrimenti programmabile a distanza di anni, spesso post mortem.

Ovunque gli anziani sono più soli che mai, e nella loro moltitudine maggioritaria nella nazione non hanno servizi adeguati e non trovano alcuno che garantisca loro l’assistenza sociale. Idem, con somma vergogna, per i disabili. Per non parlare di trasporti pubblici, latitanti e angusti a tutti i livelli; di una scuola che non lo è più; di rifiuti che rientrano per volume nelle abitazioni poste ai primi piani perché incontenibili sui marciapiedi; dell’ambiente degradato; del dissesto idrogeologico; del mare pieno di escherichia coli; di una sicurezza tanto in deficit sociale da far portare a casa qualche coltellata.

Per non parlare della condizione delle infrastrutture con ponti in pericolo e strade con voragini che conducono all’inferno. Ebbene, a fronte di tutto questo, pur di dimostrare di esserci, si fa il tifo perché le cose continuino così, con una spesa storica incapace di rendere servizi, buona solo a farci la cresta sopra. Insomma, invece di affrontare la mamma di problemi, la finanza pubblica, come meglio renderla strumentale a rendere i diritti fondamentali, ci si reinventa.

Con questo si prende a schiaffi la Costituzione, quella voluta di forza nel 2001 dal centrosinistra alla quale ha dato un ampio consenso referendario il Paese il 7 ottobre di quell’anno. Ma non ci si accontenta di ciò. Il centrosinistra maltratta il ddl predisposto e approvato dal governo Prodi il 3 agosto 2007 di attuazione del federalismo fiscale, un po’ prima che fosse mandato a casa. Dal quale testo uscì poi, con qualche miglioramento, quello di Calderoli che si tradusse nella legge 42/2009 con una votazione positiva di tutto il Parlamento, fatta eccezione dell’Udc.

A questa seguirono undici decreti delegati condivisi da tutto l’arco parlamentare, tra i quali quello (n. 168/2011) che affidava ai costi e fabbisogni standard, collaborati dal fondo perequativo in soccorso delle Regioni povere, la sostenibilità dei Lep. A proposito di questi ultimi, fatta eccezione per i malconci e inadeguati Lea venuti fuori a fine 2001 e rivisti a gennaio 2017, a nessuno è importato più dello zero (nel senso matematico).

A ricordarsene, con un mero ma confuso accenno perché messo in una relazione errata, Boccia nel suo Ddl del 2020 (Conte II) poi ripreso dalla Gelmini nel governo Draghi che, di fatto, hanno svolto lo stesso ruolo di Prodi. Testi gregari per Calderoli, che ne ha copiato tanto e migliorato parecchio portando così a casa il voto favorevole dal Senato il 23 gennaio scorso.

C’è da essere soddisfatti? Affatto. L’impianto legislativo è appena passabile ma positivamente condizionato alla definizione dei LEP e alla determinazione degli strumenti finanziari per sostenerli.

Il tutto, avvenuto nella confusione totale, nella totale inconsapevolezza di cosa si stesse facendo a partire dall’insediamento dell’attuale Governo: – Legge 197/2022, di bilancio per il 2023. Un obiettivo temporale per definire i LEP con scadenze ballerine, prima entro la fine del 2023, oggi del 2024 e chissà per arrivare fin dove; – L’affidamento ad una Cabina di regia politica con il mandato di determinarli al Clep. Un’invenzione che non va bene per raggiungere la mission di definizione dei Lep. Un organo pletorico che sta dimostrando la sua lentezza e la non adeguatezza a raggiungere velocemente lo scopo istituzionale. Individuare i Lep per materia non è roba da affidare, esclusivamente ad accademici, ai quali manca la duttilità della materia. I Lep sono materiale d’uso, in quanto tale non da racchiudere in schede che nel leggerle si ricava una grande lontananza dal pervenire a ciò che occorre al Paese per usufruire nel concreto dei diritti civili e sociali. I Lep costituiscono l’elemento basico attraverso i quali gli anzidetti diritti prendono forma esigibile e non già assumano circoscrizioni teoriche fini a se stesse; – Il tema nella sua completezza. Un disorientamento totale nel comprendere cosa occorra fare per finanziare il buon esito della partita. Meglio quanti soldi occorrono, una volta individuati, per renderli esigibili alla popolazione intera. E qui si apre il sipario delle fantasie che si leggono e si ascoltano. A proposito, si assiste al dramma della inconsapevolezza di chi pretende il costo delle dipintura dei muri senza neppure avere costruita la casa. Diventa, infatti, ridicolo ascoltare previsioni sia nefaste che stupefacenti.

Entrambe sono impossibili e incredibili sino a quando non si verifichino più cose: a) che vengano definiti i Lep per materie o gruppi di esse, al lordo delle trasversalità necessarie; b) che vengano per ogni materia individuati i fabbisogni delle singole regioni, con una chiara evidenziazione delle differenze negative che le distinguono sul piano delle povertà del gettito; c) che vengano determinati i costi standard per Lep o gruppi di essi; d) che sulla base degli anzidetti rilievi differenziati vengano determinati per Lep i fabbisogni standard cui dare certezza di copertura anche attraverso la perequazione verticale che occorre disciplinare e rendere praticabile previa la costituzione del Fondo. Un’esigenza irresponsabilmente silente in tutto il percorso pre-legislativo.

Solo così potrà farsi ciò che occorre, altrimenti continueranno competizioni sull’acqua calda. Ciò in quanto il regionalismo differenziato, per potervi accedere, è subordinato a tutto quanto evidenziato. Insomma, no Lep, costi e fabbisogni standard? No party! (ej)

[Courtesy Sanità24]

I GIOVANI NON COME PRIORITÀ SECONDARIA
BENSÌ RISORSA PREZIOSA PER LA CALABRIA

di GIULIA MELISSARI – Se in Francia un trentaquattrenne come Gabriel Attal può essere nominato Primo ministro, in Italia sembra che i giovani facciano ancora molta fatica a emergere. Senza addentrarmi in un discorso troppo ampio, vorrei focalizzarmi sul nostro “piccolo” orticello: la Calabria.

Ripercorriamo brevemente gli ultimi tre anni. Durante un incontro al Palazzo della Regione con i candidati a Presidente, tutti incredibilmente presenti, è stato presentato un manifesto giovanile con proposte precise. Quel manifesto, lavoro frutto di incontri proficui tra giovani appartenenti a organizzazioni del terzo settore, millennial e generazione Z, è stato sottoscritto dai candidati presenti, tra cui il successivamente eletto Presidente Roberto Occhiuto.

Successivamente, c’è stato un incontro con la Vicepresidente Giusi Princi, con tanto di articolo sul giornale, la quale ha promesso di seguire questo percorso, per costruire insieme un osservatorio giovanile e strutturare al meglio le proposte. Purtroppo, tutto è svanito dopo quel momento.

La politica regionale potrebbe sostenere che ci sono questioni più urgenti da affrontare. Tuttavia, sorge spontanea la domanda se sia davvero necessario concentrare tutte le forze su un unico problema alla volta e, nel frattempo, ci interroghiamo sul presente e il futuro di una regione sempre più abbandonata.

Non sono sufficienti gli articoli occasionali che esaltano storie di «manager d’azienda che lasciano tutto per aprire un’impresa in Calabria». Queste storie vengono presentate come un sacrificio incredibile o un atto di coraggio straordinario, quasi come se ciò fosse una missione umanitaria, ma la realtà è ben diversa.

Ed allora, forse, la priorità di un politico dovrebbe essere quella di ascoltare i giovani, andando oltre gli incontri occasionali nelle scuole o nei convegni per dare fiducia e concretizzare idee provenienti da un impegno senza pregiudizi politici, per il bene comune e per intravedere o, quanto meno, desiderare di accendere una luce in fondo a questo lungo tunnel.

Mi chiedo se, alla fine dell’anno, i nostri politici abbiano ascoltato il discorso del Presidente della RepubblicaSergio Mattarella, che ha dedicato ampio spazio ai giovani e alla partecipazione. Il Presidente ha parlato di speranze, di cogliere il nuovo, di rassegnazione e indifferenza, sottolineando che partecipare alla vita della comunità è un diritto alla libertà.

Questa parte del discorso ha rafforzato in me uno spirito di resistenza, o meglio, citando il Prof. Vito Teti, di Restanza, un movimento, non una retorica. La rivoluzione è dentro di noi, ed è giunto il momento non solo di chiedere di essere ascoltati, ma di pretenderlo.

L’insegnamento di Don Italo Calabrò ai giovani, il non delegare, è motivo di azione che deve partire dal basso, una rivoluzione democratica di libertà. Se da un lato i giovani devono agire e non delegare, la politica, invece, dovrebbe farlo, delegando ai giovani idee, creatività e voglia di fare. Le nuove generazioni sono viste solo come «coloro che stanno sempre connessi sui social», ma è il momento di rivedere queste considerazioni, perché, paradossalmente, sono spesso i politici a essere più presenti sui social.

Noi siamo ancora qui, ma questa volta non aspettiamo, abbiamo la voglia di continuare a generare un cambiamento. Come in una partita di pallacanestro, l’azione d’attacco dura 24 secondi e sta per scadere l’opportunità di fare canestro. Vogliamo costruire insieme un tiro da tre punti allo scadere o fare suonare la sirena come sempre, perdendo la partita?

In conclusione, mi rivolgo alla politica – tutta – regionale con un appello sincero. I giovani calabresi sono in attesa, che vengano ascoltate le loro proposte con responsabilità e considerazione. Infatti le idee che emergono da un impegno senza pregiudizi politici rappresentano una risorsa preziosa per il bene comune e il futuro della nostra regione.

Sicché invitiamo le Istituzioni a non sottovalutare la voce della gioventù e a tradurre in condotte responsabili le proposte che sono state rappresentate. Creare un dialogo continuo e costruttivo con i giovani, delegando responsabilità e dando fiducia alle loro idee e alla loro creatività, è un passo fondamentale per costruire una Calabria più inclusiva e prospera.

L’appello è a non considerare le questioni giovanili come una priorità secondaria, ma piuttosto come una componente essenziale per il progresso e lo sviluppo della regione. In un periodo in cui la partecipazione attiva dei giovani è cruciale per il cambiamento positivo.

Poiché i giovani calabresi, quelli che sono rimasti in questo territorio, sono convinti che la politica regionale deve abbracciare questa prospettiva, perciò l’invito è di creare un ambiente in cui le proposte dei giovani siano non solo ascoltate, ma anche implementate concretamente per il bene di tutti.

La Calabria ha il potenziale per diventare un luogo in cui le generazioni future contribuiscano attivamente al proprio destino, e questo potrà accadere solo attraverso un dialogo aperto e una collaborazione identitaria tra giovani e Istituzioni. (gm)

[Giulia Melissari è del Gruppo Giovani del Centro Agape di Reggio Calabria]

TRADITI GLI ELETTORI DEL MEZZOGIORNO
PASSA L’AUTONOMIA CON I VOTI DEL SUD

di SANTO STRATI – Diciamo la verità: nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla eventuale mancata approvazione in Senato del ddl Calderoli che introduce l’autonomia differenziata. I numeri della coalizione garantivano il successo, ma se non fosse mancato il coraggio ai senatori (della maggioranza) del Mezzogiorno di mettere in discussione il provvedimento fortemente voluto dalla Lega, probabilmente lo scenario sarebbe stato diverso.

Ha ragione, sotto questo punto di vista, la senatrice pentastellata Maria Domenica Castellone che ha parlato chiaramente di tradimento nei confronti degli elettori del Sud da parte dei parlamentari  del Mezzogiorno: il loro impegno (a parole) di contrastare l’autonomia leghista si è dissolto, in mezzo a imbarazzanti dichiarazioni di voto.

Si comprende, chiaramente, che la coalizione di centro destra non poteva rischiare figuracce ed essere costretta, nel caso, a un voto di fiducia su un provvedimento che non si sbaglia a definire spacca-Italia, checché ne dicano i vari fautori dell’autonomia.

È solo il primo passo, d’accordo, quando arriverà alla Camera ci sarà modo e tempo di introdurre qualche opportuna modifica, ma ciò non toglie che è l’impianto stesso del provvedimento legislativo a essere discutibile (e oltremodo errato). Di sicuro è stata mortificata  la facoltà legislativa del popolo scartando a priori la legge d’iniziativa popolare presentata con 100mila firme a proposito dell’applicazione del Titolo V della Costituzione (modificato nel 2001) con chiari riferimenti alle ipotesi di autonomia regionale differenziata.

Lo spettacolo in Senato (dove era presente una cospicua delegazione di studenti che ha potuto toccare con mano la decadenza della politica) è stato penoso, non tanto per le urla e i dissensi a viva voce che interrompevano gli interventi dell’opposizione, quanto per le imbarazzanti prese di posizione del centro destra (non leghista) spese a giustificare il provvedimento, esaltandone vantaggi e opportunità.

La verità che emerge dal provvedimento approvato con 110 voti (ne sarebbero bastati 88), 64 contrari e 3 astenuti è che si pongono le premesse per l’istituzione di venti staterelli (le regioni) ognuna per sé stante, con iniziative diseguali persino con gli stati (ops, scusate le regioni) confinanti buone per creare ulteriori disagi, in termini di burocrazia e di welfare sociale.

Con un avvertimento: chi aveva più risorse continuerà ad averne ancora di più, chi non spendeva per mancanza di fondi ne avrà ancora di  meno. È l’infame logica della spesa storica che ha premiato le regioni settentrionali e penalizzato (o meglio punito) tutto il Mezzogiorno. Col risultato – più volte messo in buona evidenza dalla Svimez – di un divario insopportabile tra Nord e Sud. A Reggio Emilia 77 asili nido, a Reggio Calabria 3: basterebbe solo questo dato  a far capire che la legge Calderoli non solo non toglie ai ricchi per riassegnare risorse ai poveri, ma toglie ulteriormente ai “poveri” fondi che andranno a rimpinguare ulteriormente le casse delle opulente regioni del Nord. E non si  tratta di ribadire l’ormai legnosa lagnanza della mancata perequazione su tutti i fronti, ma bisogna prendere atto che l’Italia si è “sfatta” e, salvo improbabili capovolgimenti alla Camera, non ci saranno percorsi di salvezza.

È bene ricordare che la Riforma del titolo V della Costituzione fu voluta (e votata) dai governi di centro-sinistra mostrando fin dai primi momenti dell’attuazione evidenti defaillances che andavano sanate. Le diverse legislature e i vari Governi che dal 2001 si sono alternati (molti a guida di centro-sinistra) si sono ben guardati dal mettere mano e proporre alle dovute modifiche costituzionali necessarie. E molti di loro che siedono ancora nei banchi del Senato ieri non hanno avuto il buon gusto e la lealtà di sottolineare le proprie colpevoli indulgenze in tutti questi anni in cui si poteva provvedere a “sistemare” quella parte di Costituzione (modificata) che non poteva funzionare nei confronti dei poteri delle Regioni, dei loro adempimenti, dei loro diritti, dei loro obblighi.

Quindi, anziché prevedere una nuova (sensata) modifica costituzionale del Titolo V che aveva tante ragioni per essere attuata, si è preferito procedere con una legge ordinaria, peraltro collegata al DEF, sì da bloccare emendamenti e interventi.

Il voto di ieri non è ovviamente definitivo e la legge deve ottenere il sì definitivo della Camera salvo il ritorno al Senato, in caso di modifiche che dovessero arrivare da Montecitorio. Una legge, comunque, che non avendo copertura finanziaria per l’attuazione dei livelli essenziali di prestazione – Lep – sarà molto probabilmente respinta dal Capo delle Stato e rinviata alle Camere).

Una legge che scontenta buona parte del Paese e che i parlamentari di Forza Italia e di Fratelli d’Italia avrebbero potuto mettere in discussione mostrando i denti. Ma il coraggio, in Parlamento, non si compra un tanto al chilo. Se lo ricordino gli elettori quando si tornerà a votare.   (s)

NIENTE AUTONOMIA SE NON ATTUANO I LEP
E UNA EQUA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE

di PIETRO MASSIMO BUSETTADue linee contrapposte si stanno portando avanti in una incoerenza difficile da capire. Da un lato l’autonomia differenziata che va nella linea di un federalismo accentuato. Dall’altro una centralizzazione che sta portando, sembra, buoni risultati. 

L’una e l’altra sono criticate dall’opposizione, come è normale che sia. Ma guardiamo al comportamento della maggioranza per capire qual è il filo rosso che lega alcuni atti di governo. Cominciamo dall’autonomia differenziata. Essa prevede che ogni Regione si faccia Stato. Che ognuno gestisca le risorse che produce senza interrelazioni con le altre regioni, tranne a fornire a un fondo di solidarietà nazionale poche risorse di volta in volta concordate. 

Oggi accade invece che non sia la regione il riferimento al quale guardare per calcolare le risorse che ognuno si deve tenere. Il meccanismo funziona nel senso che ciascun individuo paga in relazione al proprio reddito, con una tassazione proporzionale, allo Stato centrale. E che poi questi distribuisca le risorse in funzione di una spesa pro capite uguale per tutto il Paese. Quindi ognuno paga in funzione della propria capacità contributiva e le risorse vengono destinate indipendentemente dalla residenza di chi contribuisce.

Per esemplificare meglio non è che se il Veneto ha un reddito medio pro capite molto più elevato delle altre Regioni, e quindi un prelievo fiscale più alto, vorrà dire che avrà delle scuole o una sanità migliori di quanto non ne abbiano le altre Regioni.

È il principio per il quale il milionario ha un prelievo fiscale molto più elevato del barbone, che invece non paga nulla, ma ha diritto ad avere una sanità pubblica uguale a quella a cui ha  diritto il barbone. In realtà questo principio garantito dalla Costituzione in Italia non è applicato in modo corretto, perché si è fatto riferimento per la distribuzione delle risorse alla spesa storica, che si è dimensionata nel tempo in modo diverso nelle varie realtà.

Per cui, già adesso e da anni, vi è una differenza di oltre 60 miliardi tra una spesa pro capite uguale e quella effettiva effettuata nel Centro Nord e nel Mezzogiorno. L’altro approccio in contrasto assoluto con il federalismo fiscale richiesto dalla Lega è il centralismo, sul quale si è incamminato in particolare Raffaele Fitto sia per quanto attiene alle Zes, sostituita dalla Zes unica, sia per quanto attiene al fondo di sviluppo e coesione.Si  assiste cioè ad una forma di centralizzazione, opportuna e virtuosa, se l’alternativa dovesse essere quella di perdere le risorse.

Il Ministro si è accorto che se avesse lasciato le cose come stavano, in mano alle Regioni, la spesa si sarebbe fermata e il rischio di non incassare le rate del Pnrr sarebbe stato elevatissimo. In tale logica ha poi guardato alle altre risorse comunitarie per evitare che continuasse ad accadere che venissero spese con molto ritardo o addirittura venissero perse. Certamente vi è uno spostamento di risorse da progetti che avevano difficoltà a essere messi a terra ed altri invece che avevano una possibilità di realizzazione molto più elevata.

In tutto questo attenzione a non abbassare la guardia circa la distribuzione delle risorse nelle diverse parti del Paese, perché la cosa più facile è che il Nord riesca a spendere e il Sud no. Ma questa non può essere una buona ragione per tradire la ratio delle risorse comunitarie, che sta proprio nell’obiettivo di ridurre le differenze tra aree. 

Ritornando all autonomia differenziata l’approvazione dell’emendamento di Fdi che prevede che, prima di delegare funzioni e risorse alle Regioni si debba prevedere l’attuazione dei Lep, cambia le carte in tavole e le prospettive. 

Tale emendamento non solo é opportuno ma indispensabile, se non si vuole creare o meglio consolidare un rapporto tra una Madre Patria ed un’altra parte che rimane  Colonia, nella quale i diritti dei cittadini non sono equiparati a quelli di coloro che vivono nella realtà più avvantaggiata. Si spera tutto passi  con tale vincolo, che non può essere ovviamente a bilancio invariato, considerato che invece per avere livelli essenziali, non dico uniformi come sarebbe giusto, sono necessarie risorse importanti. 

Ma è anche chiaro che se il vincolo dovesse essere anche quello di avere i Lep attuati prima di qualunque devoluzione la situazione rimarrebbe invariata. Cioè in realtà quella che abbiamo oggi, per la quale le risorse che arrivano nelle parti più ricche sono maggiori, però tale distribuzione è incostituzionale. 

Cambiare la spesa storica, adottando livelli essenziali per tutti, prevederebbe una crescita del Pil molto più consistente di quelle previste. E nel caso in cui si dovesse attuare, invece, con le crescite a cui siamo abituati le regioni ricche dovrebbero cedere quote di welfare a favore di quelle più povere. Redistribuzione impensabile senza sconvolgimenti sociali.

Ma certamente un merito questo affondo della Lega lo ha avuto ed è quello di aver fatto capire e diventare posizione condivisa la reale distribuzione delle risorse. Aver fatto chiarezza su un fatto fondamentale e cioè che quello di un Sud che assorbiva risorse infinite é una favola metropolitana, un mantra di bugie, accreditate per poter giustificare un Nord bulimico che tutto prende e tutto assorbe. 

Un diverso approccio nella distribuzione di risorse tra le diverse parti del Paese non è né semplice né scontato. Abituarsi da parte del Nord a non essere prevalenti in qualunque azione del Governo, che si tratti degli investimenti in infrastrutture, o quelli nella sanità, o quelli nella scuola, o nell’avere il monopolio della localizzazione delle agenzie internazionali, piuttosto che una presenza dominante nella comunicazione della Rai pubblica, non è facile. 

Senza voler dire che il rapporto è di tipo coloniale, non si può non ricordare che laddove le grandi democrazie occidentali hanno perso le loro colonie è stato necessario che i movimenti indipendentisti ricorressero alla mobilitazione non sempre pacifica.

Difficile far alzare qualcuno, che è seduto su una bella poltrona, e farla condividere con mezzi cortesi e affettuosi. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

CALABRIA, LE ETERNE OPERE INCOMPIUTE
MA SI VEDONO I SEGNI DEL CAMBIAMENTO

di FRANCESCO RAOLa Calabria e tantissimi calabresi, hanno lentamente intrapreso l’arduo cammino del riscatto sociale per il quale, la narrazione ha un ruolo determinante per meglio raggiungere l’obiettivo prefissato per mettere da parte quel passato e quei modelli di vita, in parte poco edificanti, annoverabili tra le cause determinanti che nell’arco degli anni hanno “costretto” sei milioni di calabresi a scegliere di realizzare la loro vita lontano dalla loro terra, partendo con la speranza di poter un giorno ritornare ma impossibilitati nel poter realizzare quel sogno a causa di un lentissimo processo di cambiamento che spesso, mi è parso di poter associare più ad una dinamica riconducibile al Medioevo che alla nostra Post modernità.

Quel tipo di sistema che vorrei sperare fosse ormai posto alle nostre spalle, ha determinato anche un fortissimo senso di sfiducia tanto nei Calabresi quanto nei potenziali investitori, puntualmente scoraggiati da statistiche per le quali questa terra non poteva garantire quella solvibilità economica e sociale indispensabile per poter avviare processi di investimento capaci di generare sviluppo. 

Purtroppo, devo prendere atto pubblicamente, a seguito delle numerose incompiute di Stato, che il primo esempio negativo, in termini di propensione allo sviluppo, è riconducibile a quell’insieme di investimenti pubblici rivelatesi tanto nella misura quanto nella direzione utili più a demoralizzare le persone facendoli sentire impotenti al cospetto delle faraoniche opere poco utili a suscitare processi di sviluppo. Per fare qualche esempio vorrei citare la Liquichimica di Saline Joniche, figlia del pacchetto Colombo, costata ai contribuenti 300 miliardi del vecchio conio e rivelatasi poi un duplice fallimento, in prima istanza per la violenza ambientale praticata sui 700.000  metri quadrati di territorio che ha letteralmente aggredito la realtà eco-ambientale preesistente per poi costringere lo Stato ad accollarsi anche la cassa integrazione di quanti, dopo aver lavorato meno di una settimana, hanno maturato la contribuzione pensionistica rimanendo a casa; anche per il Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro ci sarebbe molto da dire.

Varato sempre dal Governo Colombo quale misura compensativa a seguito della scelta di Catanzaro quale capoluogo della Regione, motivo per il quale si è giunti all’insurrezione popolare del 1970 registrata proprio a Reggio Calabria e da noi tutti conosciuta come “Moti di Reggio”, circostanza che costrinse il governo a inviare i carri armati per “liberare” la Città dai manifestanti, la realizzazione dell’opera ha comportato la cancellazione di Eranova, con l’abbattimento dell’intero centro urbano e la profonda ferita arrecata agli abitanti, costretti a vedere frantumate dalle ruspe la loro casa per poi sotterrare con le macerie la loro cultura ed i sacrifici di una vita.

La lista delle incompiute si estende a ospedali, Rosarno e Gerace, al Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria, alla Diga sul fiume Metramo per poi passare alla Bovalino-Bagnara e alla Pedemontana della Piana di Gioia Tauro. Opere pubbliche importantissime che se fossero state ultimate per tempo, avrebbero sicuramente rallentato o, addirittura impedito, l’inarrestabile processo di spoliazione demografica registrato nelle aree interne offrendo opportunità di sviluppo. A prova di ciò, vi è la dimostrazione occupazionale registrata grazie al Porto di Gioia Tauro.  

Fortunatamente, in questo ultimo periodo, si registrano importantissimi segnali di ripresa. Agli occhi di chi non vuole vedere, questi recenti segnali, saranno inutili quisquilie; quanti invece hanno a cuore le sorti della Calabria, intravedono già importanti energie da canalizzare in un percorso che dovrà essere condiviso e al contempo virtuoso. Naturalmente c’è ancora tantissimo lavoro da svolgere e, al momento, tale risultato può rappresentare l’inizio di una inversione di marcia strutturale per la Calabria e anche per i calabresi.

Quindi, oltre alle gambe forti, serviranno menti aperte e lungimiranti per affrontare con determinazione quella pletora di cortigiani, convinti di potersi garantire potere e dominio a tempo indeterminato ignorando lo stato di diritto, la propensione dei tantissimi calabresi intenzionati a liberarsi dall’oppressione e dell’ignoranza attraverso un sapere appreso grazie al ruolo svolto dal mondo della Scuola e alla diffusione delle notizie dalla televisione. In merito alla qualità dell’informazione, ci terrei a puntualizzare la pericolosità crescente delle “false notizie”, spesso costruite ad arte per alimentare proprio quella reputazione negativa utile a mantenere l’habitat dei mediocri.

Anche questo è un obiettivo da raggiungere per restituire dignità alle persone ed ai territori, pretendendo sempre la narrazione del vero come esigenza di vita. Purtroppo, per vendere qualche copia di giornale in più o per aumentare l’audience televisiva o mediatica, ci sono ancora lanzichenecchi pronti a mettere sotto i piedi quell’etica utilizzata dai grandi giornalisti e indispensabile per informare in modo neutrale i Cittadini, senza aggiungere alla notizia giudizi o pregiudizi, nascenti da faziosità partitica oppure con l’intento di poter guadagnare sul campo un ruolo più prestigioso nella tripartizione del potere locale, auspicando infine di poter esportare su reti nazionali realtà illogiche e, in parte, irreali per trarne benefici personali.

La buona cultura è in crescita e le congiure di Corte, particolarmente evidenziate in un certo mondo della politica, sono in via d’estinzione. La strategia della tensione e la delegittimazione pubblica, da sempre hanno rappresentato quel modello d’azione utile a contenere le rivolte, eliminare dalla scena gli oppositori e far passare la punizione all’occhio del Popolo come l’unica medicina sociale somministrata per restituire alla collettività la calma perché mancava la capacità, ieri come oggi, per affrontare e risolvere quelle disuguaglianze sociali poste alla base di un diffuso malessere.

Lo stato di diritto, per fortuna, non vive su tale paradigma. La generalità e l’astrattezza delle norme punisce ogni abuso finalizzato a rendere il potere mezzo prediletto per generare crisi, povertà, isolamento sociale e ingiustizia. Su queste basi, grazie alla diffusione di una cultura positiva, la permeabilità di quella “malavita”, per moltissimo tempo impegnata ad attanagliare la crescita, lo sviluppo e l’affermazione dei diritti, facendoli passare di volta in volta come favori utili a divenire moneta di scambio da utilizzare per alimentare quella “servitù” elettorale praticata a favore di politici mediocri, non trova più ampi consensi.

A fronte di questa riflessione, i segnali positivi che dimostrano una certa controtendenza rispetto al passato, vorrei condensarli nella recente risposta resa a Bruno Vespa nel corso della trasmissione “Porta a Porta” dallo scienziato austriaco Georg Gottlob, oggi docente presso l’Università Calabrese, il quale ha spiegato brevemente i motivi del trasferimento accademico da Oxford all’Unical affermando:  «lascio Oxford per la Calabria perché penso che è un luogo ideale per lavorare con l’Intelligenza Artificiale, ci sono le due colonne, quella simbolica che è la rappresentazione della conoscenza e sub simbolica che sono le reti neurali».

«L’Università della Calabria ha lavorato per tanti anni su questo e ciò mi attira molto».

Il nostro compito, oltre a proseguire l’opera di sensibilizzazione verso le bellezze della nostra terra, dovrà essere anche quello di stigmatizzare quegli eccessi di potere, praticati per impedire lo sviluppo e il progresso di una Regione che per peculiarità naturali ancora non ha potuto esprimere tutte le sue potenzialità.

[Francesco Rao sociologo e docente a contratto presso l’Università “Tor Vergata” – Roma]

 

L’AUTONOMIA TRA CONFUSIONE E DIVISIONI
SI LAVORI PER GARANTIRE I LEP E I DIRITTI

di ETTORE JORIOIl regionalismo differenziato è arrivato in Parlamento il 16 gennaio scorso nel testo del ddl Calderoli così com’è uscito implementato alla prima Commissione permanente-Affari costituzionali del Senato.  A sfavore delle aspettative ci sarà un lavoro lungo e difficile, considerati i poco meno di 330  emendamenti proposti dalle minoranze e il dibattito fuori aula che sta assumendo toni accesi e, invero, sviluppando argomentazioni spesso fuori luogo e tema.

Autonomia differenziata, ma legislativa

La disputa sul regionalismo asimmetrico, in verità fondata su argomentazioni confuse, fa nascere l’esigenza di una più generale chiarezza interpretativa e attuativa della Costituzione, violata da quella propria della più accesa competizione politica, spesso fine a se stessa. Prima fra tutte quella afferente alla sua denominazione  da considerarsi quantomeno impropria, se non addirittura coniata leggendo (forse) una Costituzione che non è la nostra. 

Viene, infatti, sostenuta una definizione per metà contraddittoria e per l’altra ridondante. Come se l’autonomia non lo fosse già sufficientemente di suo per essere definita tale. Supporre di rafforzarla con l’aggettivo qualificativo “differenziata” è come non ritenerla già tale per suo conto, come se il governo degli enti regionali dipendesse da terzi. Non è così. Lo si poteva, tutt’al più, immaginare, ma in modo ardimentoso, prima che intervenisse nel 2001 la riscrittura dell’art. 114 della Costituzione, che ha tradotto gli enti sub-statali di ieri (tali erano considerati tutti quelli territoriali) in enti infra-statali, di pari livello di autonomia decisionale e finanziaria (art. 119), sostenuti dallo Stato con il criterio, ancora attuale, della spesa storica.

La Costituzione impone l’ordine delle cose

In tutta questa confusione, incomprensibile per l’Europa, nasce l’esigenza di chiarire e riaffermare le regole costituzionali. Sono pochi infatti gli interlocutori che le tengono nella dovuta considerazione. Un macello, si discute mettendo insieme indistintamente di Lep, federalismo fisale e regionalismo asimmetrico. 

Tante le contraddizioni di chi ha scritto le regole costituzionali nel 2001. Lo stesso che critica oggi, l’estensione alle Regioni della loro potestas legislativa al di là dalle competenze comuni riconosciute loro dall’art. 117, commi 2 e 3, della Costituzione con possibili estensioni a quelle elencate dall’art. 116, comma 3, della Costituzione. 

Ciononostante che il medesimo abbia:  a) aderito, durante il governo Gentiloni, per il tramite del presidente Bonaccini, richiedendo escludendo dalle tutte le 23 materie differenziabili le “norme generali sull’istruzione”; b) elaborato un ddl attuativo del regionalismo differenziato (art. 116, comma 3, della Costituzione) a firma dell’allora ministro Boccia del governo Conte II poi ripreso dalla ministra Gelmini del successivo governo Draghi entrambi molto simili al ddl Calderoli. 

Sulla base di queste considerazioni, ascoltando le dichiarazioni rese in aula nel corso dell’appena iniziato iter parlamentare del ddl Calderoli, sembra di assistere ad una partita ove sono messi a confronto due giocatori che piuttosto che confrontarsi secondo le regole, le scrivono nel mentre. 

Confusione e divisioni pericolosissime

Così facendo non si compete per mettere in piedi il migliore finanziamento per il Paese e per garantire la esigibilità dei Lep della Nazione nella sua interezza, funzionale ad assicurare uniformemente i diritti e la perequazione della quale in pochi, pochissimi parlano. 

Non solo si stimola una eccessiva conflittualità intesa a dividere di più la Nazione. Si privilegia l’accentuazione delle differenze tra nord e sud, si sottolinea la non sufficienza dei finanziamenti concessi al Mezzogiorno negando che, invece, lo stesso non sia mai stato capace di spenderli bene, si difende lo stato di governo attuale finanziato con la spesa storica che ha reso una popolosa metà del Paese senza sanità, senza assistenza sociale, senza trasporti pubblici, senza una scuola accogliente, senza quasi nulla. Si sottace sul miliardo che il nord incamera dalla emigrazione sanitaria che depaupera, di pari entità, le regioni meridionali. 

Insomma, non si comprende come il muro contro muro evita che il nord e un sud si avvicinino attraverso Lep uguali per tutti. Allo stesso modo non si comprende che il maggiore gap per il Mezzogiorno è rappresentato dalla sua classe dirigente, confermata acriticamente dai meridionali in un cinquantennio di pene sociali.

Il momento è cruciale. Occorre stare attenti, a tutela dell’unità sostanziale del Paese e della Nazione, a non tradurre la competizione politica in strumento di divisione, che può costituire una ulteriore causa di alterazione della convivenza sociale, di abbandoni delle residenze tradizionali sino a raggiungere lo spopolamento del sud del Paese. 

Concludo. In situazioni, come quella attuale, funzionali a cambiare radicalmente il sistema della finanza pubblica, allontanandola da quel criterio monstre della spesa storica, che ha distrutto dalle radici l’esigibilità della griglia dei diritti civili e sociali necessita che si eviti di rincorrere “trofei politici” a discapito dei “trofei dei diritti goduti”. 

Non si può, dopo 22 anni di colpevoli ritardi nell’attuare un propria regola costituzionale e non solo (legge 42/2009 e d.lgs. 168/2011), fare battaglie politiche ispirate non si comprende a neppure a cosa, non accorgendosi che il linguaggio esasperato al quale si sta facendo ricorso rappresentano “parolacce” indirizzate a se stessi.

Si pensi pertanto, piuttosto che aizzare gli uni contro gli altri, andando a sbandierare quei titoli di libri generati allo scopo di fare cassetta, a sollecitare la definizione dei Lep che sta andando a rilento. E ancora a determinare i costi standard per Lep e i fabbisogni standard individuati correttamente sulle diverse esigenze delle Regioni. Il tutto da assicurare con la perequazione per quelle più povere. Ma tutto questo è altra cosa dall’autonomia legislativa differenziata, e sarà compito dei governi che si avvicenderanno a finanziare un siffatto percorso. Magari privilegiando la sanità rispetto alle armi in Ucraina e al perdono degli extraprofitti delle banche. (ej)

(L’articolo nel suo testo integrale è sul domenicale)