REGALI DI NATALE, COSENZA È LA PIÙ CARA
È TRA LE CITTÀ CON I PREZZI PIÙ ALTI IN UE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Cosenza è la città con i prezzi più alti per alimenti e bevande, gli oggetti più scelti da regalare nelle festività: è al +6%, rispetto alla media europea e nazionale, che è al +5,2%. È quanto emerso dal Rapporto dell’Osservatorio MPI di Confartigianato Imprese Calabria che si concentra su “Bellezza, tradizione e innovazione: il valore artigiano del regalo di Natale” che fotografa la situazione nel mese di novembre in cui la fiducia dei consumatori è tornata a salire mentre scende l’inflazione.

Cosenza, infatti, è si posiziona quinta nella classifica nazionale per dinamica più accentuata dei prezzi del basket di prodotti natalizi. Le festività legate al Natale modificano notevolmente le abitudini di spesa dei consumatori: a dicembre il valore delle vendite al dettaglio supera del 28,3% la media annuale.

Per Natale le famiglie calabresi spendono 720 milioni di euro per prodotti e servizi maggiormente scelti come regalo che, per più di due terzi (70,8%), è costituita dalla spesa per prodotti alimentari e bevande, pari a 510 milioni di euro.

Mentre i prezzi del “carrello della spesa” sono in aumento del 6,1%, crescono meno (+4,8% a ottobre) quelli della “slitta di Babbo Natale”, un paniere elaborato da Confartigianato composto da beni alimentari e bevande, oggetti di consumo nei momenti convivali delle festività natalizie, da un ampio ventaglio di prodotti che possono essere regalati durate le festività e dai i servizi di ristorazione e alloggio, regalati o fruiti durante le vacanze natalizie.

Nella nostra regione, infatti, Babbo Natale è meno fortunato: i prezzi della slitta crescono (5,1%) della media nazionale, che è +4,8%.

In chiave provinciale, la spesa delle famiglie a dicembre, nel perimetro merceologico in esame, ammonta a 270 milioni di euro a Cosenza, a 197 milioni di euro a Reggio Calabria, a 133 milioni di euro a Catanzaro, a 62 milioni di euro a Crotone e di 57 milioni di euro a Vibo Valentia.

In Calabria, infatti, sono 8mila le imprese artigiane attive operanti in 47 settori in cui si realizzano prodotti artigianali e si offrono servizi di qualità che possono essere regalati in occasione del Natale, pari al 35,9% delle imprese artigiane italiane. Queste imprese forniscono lavoro a 18.000 addetti, corrispondenti al 36% degli addetti dell’artigianato in regione, posizionandola tra le prime 10 regioni a livello nazionale (7° posto). A livello territoriale si rileva un peso superiore alla media nazionale (33,9%) e regionale (36,0%) per le province di: Reggio Calabria (39,4%) e Cosenza (36,7%), entrambe tra le prime 30 province italiane per peso più rilevante dell’artigianato interessato dalla domanda per le festività. E’ proprio per Natale aumenta l’attrazione per i prodotti e servizi offerti dalle imprese artigiane che fanno del lavoro, dell’ascolto del cliente e della personalizzazione del prodotto, a cui si associa l’alta qualità delle materie prime e dei prodotti realizzati, un valore aggiunto. Un valore che per la Calabria si traduce in una spesa natalizia di 720 milioni di euro, intercettabili dalle imprese artigiane. Anche per questo torna la campagna di Confartigianato Acquistiamo Locale, per sensibilizzare i consumatori ad acquistare prodotti artigianali del proprio territorio.

«Da diversi anni nel periodo natalizio lanciamo la campagna Acquistiamo Locale per sensibilizzare i consumatori ad acquistare prodotti artigianali del proprio territorio – si legge nella nota di Confartigianato Imprese Calabria –. Con la campagna Acquistiamo locale vogliamo valorizzare il lavoro delle imprese rappresentando la scelta consapevole, responsabile e sostenibile per rinsaldare il rapporto di fiducia tra imprenditori e cittadini nelle comunità».

«Scegliere prodotti e servizi realizzati da imprese artigiane e micro piccole imprese locali – viene evidenziato – vuol dire sostenere non solo l’imprenditore e i suoi dipendenti, e quindi le loro famiglie, ma anche contribuire alla trasmissione della cultura cristallizzata nel sapere artigiano nonché al benessere della comunità, garantendo sia la remunerazione del lavoro e dei fattori produttivi locali che il gettito fiscale necessario per sostenere il sistema di welfare». (ams)

NON SI PUÒ RISPARMIARE SULLA DISABILITÀ
VA TUTELATA LA DIGNITÀ DEI PIÙ FRAGILI

di GIUSEPPE FOTIContinua a tenere banco in questi giorni la questione delle strutture psichiatriche di Reggio Calabria, tra rassicurazioni e promesse mai mantenute della Regione che da un decennio a questa parte disattende ogni impegno e si nasconde dietro tabelle numeriche che poco centrano con la disabilità ed i suoi bisogni. Quel che è certo che i pazienti, le famiglie e gli operatori sono costantemente imprigionati in un “limbo” che può solo condurre al collasso dei servizi, allo spostamento dei pazienti chissà dove e per quale interesse e al licenziamento di 100 operatori che si occupano degli ultimi da oltre trent’anni.

Divario tra l’abbondanza delle dichiarazioni e la povertà di risultati che vede chiamare in causa la legge Basaglia solo per coprire storture organizzative e nascondere vuoti abissali del governo e delle regioni.  Le vulnerabilità non si curano con i numeri (soprattutto non reali) e servono solo come immagine o per farsi dire dal governo centrale quanto sono stati bravi, dando un’apparenza di vincenti. Le mie parole possono sembrare dure… ma non si può risparmiare sulle disabilità!

La cosa più preoccupante è il rischio di un ritorno ai manicomi e l’affermarsi di una visione classista e poco per mano di una società, sempre più spaventata da fatti di cronaca e dai media. Una certa politica, attenta agli umori popolari, si nutre di queste paure per avere consensi elettorali e per alzare la voce proponendo il nulla. La necessità è sempre quella: “trovare soluzioni facili a un problema complesso”.

Questa è tutta la drammaticità dei fatti a cui da cittadino e operatore non voglio sottomettermi in silenzio e in attesa di un inesorabile debacle che darà a Reggio Calabria l’ennesima sconfitta per mano di un boia in colletto bianco. Bisogna tornare ad interrogarci su cosa sia realmente necessario, tenendo conto l’aspetto umano che si sta abbandonando in una società sempre più discriminante e individualista. La Regione si limita a porre qualche toppa, ignorando le difficoltà più profonde che riguardano i pazienti, che poco contano, fatti alla mano, per la politica della cittadella.

Il risultato finale è un divario enorme tra persone perse nell’odio e nella rabbia indotta ad arte e persone definiti, ingiustamente, “socialmente inutili” e che con mano impietosa devono essere “spazzati”, “deportati” e allontanati dalla società finta perbenista a beneficio di lobby sanitarie, o amici degli amici, che speculano senza curare e solo per interesse economico. Lo sappiamo tutti, non lo scopriamo adesso, che la disabilità psichiatrica è sempre stata considerata come un qualcosa che deve stare fuori e lontana dal tessuto sociale perché disturba la quiete pubblica. Le strutture psichiatriche, o meglio comunità, hanno sempre lavorato in controtendenza a questa mentalità stigmatizzante, cercando di valorizzare le capacità del singolo paziente e facendolo conoscere per quello che è effettivamente. 

Queste realtà e questi metodi che guardano l’umano stanno per essere cancellati nel nome del risparmio e dell’indifferenza, non valutando che esistiamo in quanto responsabilità nei confronti dell’altro. In questa prospettiva di responsabilità si dovrebbe dirigere la politica che non deve basarsi su mezzi di convenienza e di immagine che sono mediocri e fragili.

L’impegno degli operatori, questo è ormai conclamato, non si fermerà davanti a scelte scellerate e senza senso, cercheremo in ogni modo di fermare chi ci impedirà di svolgere il nostro mandato nei confronti dei più deboli. Urge la necessità di entrare in uno spazio comune, passatemi il termine originario, dentro il quale c’è un noi che precede la differenza e la diffidenza di una società, culturalmente e politicamente, allo sbando e sempre in conflitto. Da questi principi e da ciò che sta succedendo nel mondo non possiamo permetterci di perdere realtà sociali che ancora si occupano di persone e danno risposte umane ai pazienti nella loro perdita esistenziale del mondo. (gf)

ZES UNICA, ECCO LE ISTRUZIONI PER L’USO
SE SI VUOLE DAVVERO RILANCIARE IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA Dal 1° gennaio 2024 si cambia. Infatti la riforma delle Zes prevede il superamento delle attuali otto Zone Economiche Speciali con l’istituzione della Zes Unica per il Mezzogiorno, che comprenderà i territori delle regioni meridionali (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia). 

Come nasce l’idea della zona economica speciale? Le prime esperienze sono quelle che effettua la Cina con le cosiddette Sez (Special Economic Zones). 

In Cina esse sono definite come piccole aree geografiche che consentono alle aziende straniere di avere accesso a tassazione più contenuta  e migliori condizioni economiche per la loro attività. Le Sez sono state create come “catalizzatore” per la transizione dell’economia cinese da un’economia pianificata centralmente a un’economia che incorporava aspetti sia di un’economia pianificata centralmente che di un’economia di libero mercato.

Ufficialmente, in Cina, ci sono 14 Città Costiere Aperte, 5 Città Economiche Speciali e 1 Provincia Economica Speciale. Alcune di queste zone si concentrano sullo sviluppo coordinato delle aree urbane e rurali e altre si concentrano sulle risorse e sulle questioni ambientali.

Shenzhen, Zhuhai, Xiamen, Shantou e la provincia di Hainan sono state le prime Sez istituite negli anni 1980. Kashgar Sez e Khorgas Sez sono le due fondate nel 2010. Fanno parte della strategia di riforma graduale della Cina. 

Nel 1984, Deng Xiaoping disse: «La zona speciale è una finestra, una finestra della tecnologia, una finestra della gestione, una finestra della conoscenza e una finestra della politica estera. Dalle zone speciali si possono introdurre tecnologie, acquisire conoscenze, apprendere il management. Le Zes come base aperta non solo ci avvantaggeranno in termini di economia e coltivazione di talenti, ma amplieranno anche l’influenza esterna del nostro Paese».

L’esperienza della Polonia è più recente: istituite con la legge del 20 ottobre 1994, ricalca l’esperienza cinese. All’interno delle Sez polacche sono previsti diversi tipi di sgravi fiscali ed incentivi per le nuove imprese. Scopo primario è accelerare lo sviluppo economico, concedendo gli aiuti pubblici all’avvio di attività economiche innovative e ad alto impatto occupazionale. La gestione della Zes è affidata a società controllate dal Governo o dalle Regioni. La prima area interessata è stata Katowice, la cui Zes è in vigore dal 1996. 

Il principale beneficio derivante dall’insediamento in una Zes è costituito da un consistente abbattimento delle imposte sul reddito, cui si affiancano la possibilità di ottenere lotti di terreno a prezzi favorevoli, sgravi fiscali sulla tassazione immobiliare, incentivi all’occupazione, procedure di insediamento semplificate, sostegno pubblico agli investimenti di oltre 100.000 Euro.

L’intensità degli aiuti può dipendere da diversi elementi: 

1) localizzazione dell’investimento; 

2) ammontare dell’investimento o entità degli oneri per l’assunzione di nuovo personale; 

3) dimensione dell’impresa.

Per beneficiare degli incentivi fiscali gli imprenditori devono rispettare alcune condizioni. Le Autorità polacche hanno predisposto un articolato ed efficace sistema di agenzie ed enti, da un lato, e di incentivi e agevolazioni, dall’altro, al fine di richiamare nel Paese un numero sempre maggiore di investitori esteri, contando anche sull’interesse destato presso gli operatori economici stranieri dalle prospettive connesse ai fondi dell’Unione Europea assegnati a Varsavia.

Quindi le esperienze dei diversi Paesi prevedono che per Zona economica speciale (Zes) si intende una zona delimitata del territorio dello Stato, nella quale l’esercizio di attività economiche e imprenditoriali, da parte delle aziende già operative e di quelle che si insedieranno, può beneficiare di speciali condizioni.

Così erano partite anche in Italia. Adesso la riforma delle Zes, attuata con il Decreto Sud, comporta significative novità in tema di semplificazioni procedurali e di benefici fiscali in relazione all’importante opportunità introdotta dall’articolo 16 del decreto Sud che prevede, per il 2024, la concessione di un contributo, sotto forma di credito di imposta, alle imprese che effettuano acquisizioni di beni strumentali destinati a strutture produttive ubicate nelle zone assistite del Mezzogiorno.

Il  nuovo bonus subentra al Credito di Imposta per il Mezzogiorno (c.d. Bonus Sud) e al credito di imposta Zes vigenti fino al 31/12/2023.  E riguarda almeno uni dei punti sottoelencati: a) creazione di un nuovo stabilimento; b) ampliamento della capacità di uno stabilimento esistente; c) diversificazione della produzione di uno stabilimento per ottenere prodotti mai fabbricati precedentemente; d) cambiamento fondamentale del processo produttivo complessivo di uno stabilimento esistente.

La misura massima del credito d’imposta varia in base alla regione e alla dimensione dell’impresa: Il limite massimo dell’investimento è di 100 milioni di euro per progetto, con un minimo di 200.000 euro.

Le imprese beneficiarie hanno l’obbligo di mantenere gli investimenti per un periodo minimo di cinque anni.  L’estensione delle Zes a tutto il Sud elimina l’utilizzo di esse come strumento usato dalla politica per avvantaggiare i propri elettorati. D’altra parte l’estensione a tutto il territorio rende più difficile per lo Stato la possibilità di garantire alle imprese che arrivano un’area “criminal free”. 

Ma per quanto l’estensione a tutto il Sud darà  la possibilità di investire in qualunque parte, nei fatti le aree più vocate resteranno quelle meglio collegate, vicine ai porti.  Si spera che a fianco alla nuova normativa si insedi una task force ministeriale che vada in giro per il mondo a cercare le grandi multinazionali che incrementino quel manifatturiero di cui é estremamente carente il Sud. Insomma le Zes sono uno strumento ottimo, alcuni lo hanno utilizzato molto bene, ma non porta automaticamente degli investimenti ma deve essere ben gestito. Siamo fiduciosi che anche l’Italia riuscirà a farlo.  (pmb)

[Courtesy il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

«IL PORTO DI GIOIA TAURO È L’HUB DELLA
COCAINA», MA LO STATO C’È E SI SENTE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Le proiezioni della ‘ndrangheta sembrano manifestarsi sia nei piccoli porti calabresi (Amantea, Badolato, Cetraro, Corigliano Calabro, Isola di Capo Rizzuto, Tropea, Crotone), sia nell’importante hub di Gioia Tauro. È quanto emerso dal Rapporto Il Diario di Bordo. Storie, dati e meccanismi delle proiezioni criminali nei porti italiani di Libera.

E proprio Gioia Tauro, viene evidenziato nel Rapporto, oggi è uno dei porti strategici per l’importazione della cocaina in Europa. I numeri dei sequestri sono ingentissimi e danno l’idea dei guadagni enormi che fa la ndrangheta la quale, grazie a questi business sta comprando mezza Europa: ad Aprile del 2023 la Guardia di Finanza e le Dogane hanno comunicato che nei due anni precedenti erano stati sequestrati solo a Gioia Tauro, ben 38 tonnellate di cocaina, circa il 93,7% di quella sequestra in tutta Italia.

«Si comunicò che era stata alzata la percentuale dei sequestri da una media dell’8 – 10% al 20-22%. Ciò significa – viene spiegato – che se sono state sequestrate 38 tonnellate in due anni ne sono passate oltre 150 tonnellate, destinate in tutta Europa e non solo nel nostro paese. Basta fermarsi un attimo per calcolare il valore sulle piazze di spaccio di oltre 150 tonnellate di coca che una volta tagliate valgono ben 600 tonnellate per immaginare gli ingentissimi guadagni che stanno alla base del business. Miliardi e miliardi di euro, molti di più di una finanziaria dello Stato, che drogano il mercato legale con flussi di economia illegale, condizionando i sistemi delle relazioni economiche e sociali del nostro Paese e non solo».

«Questi dati – ha dichiarato Giuseppe Borrello, Referente regionale di Libera Calabria – confermano, anche, una sempre maggiore incisività dell’azione della magistratura e delle forze dell’ordine nel contrasto e nella prevenzione del malaffare nello scalo portuale di Gioia Tauro. Un’attività continua e costante la quale deve mirare a rendere ancora più sicuro, da qualsiasi tipo di infiltrazione mafiosa, un porto che, per le sue caratteristiche e posizione, continua ad essere strategico per lo sviluppo della Calabria e dell’intera area del Mediterraneo».

Ma l’ombra della ‘ndrangheta non si ferma solo nella regione: le attività illecite coinvolgono altri porti del Sud Italia (Napoli e Salerno), del Centro Italia (come Livorno) e del Nord-Est (Venezia e Trieste). Particolarmente significativo sembra il caso della Liguria dove proiezioni della ‘ndrangheta sembrano coinvolgere tutti i principali porti: Genova, La Spezia, Vado Ligure e Savona. Seppure le mafie giocano un ruolo rilevante non sono gli unici attori coinvolti, dato che, spesso è necessario il contributo di più soggetti, in molti casi appartenenti all’area dell’economia legale: lavoratori del porto, dipendenti pubblici, imprenditori e professionisti dell’economia marittima mentre per i traffici illegali, spesso è necessario il contributo di chi produce, chi imbarca, chi si occupa del trasferimento, chi recupera il carico, chi lo fa uscire dall’area portuale e chi si occupa della distribuzione.

Gli scali marittimi rappresentano per i gruppi criminali un’opportunità per incrementare i propri profitti e per rafforzare collusioni. I porti, infatti, possono essere considerati come un punto di arrivo, transito, scambio e intersezione, in cui persone e merci si muovono e vengono movimentate, generando ricchezza: da un lato i business creati dai traffici, dall’altro gli investimenti necessari per mantenere le infrastrutture operative, entrambi possibili campi di espansione degli interessi criminali. È stato evidenziato nel corso della presentazione del Rapporto, a cura di Francesca Rispoli, Marco Antonelli e Peppe Ruggiero, in cui sono stati elaborati i dati provenienti dalla rassegna stampa Assoporti, dalle relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia, della DIA, della DNAA, dell’Agenzia delle Dogane e della Guardia di Finanzia. 

«Gli affari vanno in porto. Nel corso del 2022 all’interno dei porti italiani – commenta Libera – si sono registrati 140 casi di criminalità, circa un episodio ogni 3 giorni, che sono avvenuti in 29 porti, di cui 23 di rilievo nazionale, che corrispondono al 40%. Dei 140 casi, l’85,7% riguarda attività illegali di importazione di merce o prodotti, il 7,9% riguardano attività illegali di esportazione di merce o di prodotti, il 2,9%  riguarda sequestri di merce in transito, mentre il restante è relativo ad altri fenomeni illeciti non classificabili. Analizzando le attività portate avanti dagli attori criminali, possiamo notare che solo una minima parte riguardano la proiezione nell’economia legale del porto, mentre in 136 casi si tratta di attività illecite».

«In questo ultimo caso il dato – dice ancora l’Associazione – che spicca maggiormente riguarda il traffico di merce contraffatta, pari al 49,3% dei casi mappati, seguito dal traffico di stupefacenti con il 23,2% e il contrabbando con l’11,6%. In misura marginale seguono episodi relativi a illeciti valutari (5,8%), al traffico illecito di rifiuti (2,9%). Il maggior numero di casi di criminalità sono stati individuati nel Porto di Ancona(15 casi) segue il Porto di Genova con 14 casi e Napoli e Palermo con 11».

I porti sono Cosa nostra. Analizzando le relazioni della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Investigativa Antimafia, pubblicate tra il 2006 e il 2022  più di un porto italiano su sette è stato oggetto degli interessi della criminalità organizzata Sono almeno 54 i porti italiani che sono stati oggetto di proiezioni criminali, con la partecipazione di almeno 66 clan, che hanno operato in attività di business illegali e legali. Tra di esse, spiccano le tradizionali mafie italiane: ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra. Compaiono, però, anche altre organizzazioni criminali di origine italiana: banda della Magliana, Sacra Corona Unita e gruppi criminali baresi. Si trovano, inoltre, le proiezioni di diversi gruppi di cui viene indicata esclusivamente la provenienza geografica (o perché dove svolgono le principali attività, o per l’origine territoriale dei membri) come asiatici, dell’Est Europa, del Nord Africa, o oppure precisando la nazione di provenienza, Albania, Cina, Messico e Nigeria.  Su 66 clan ben 41 sono gruppi di ‘ndrangheta che  operano in diversi mercati illeciti: traffico di rifiuti, traffico di armi, contrabbando sigarette e TLE, traffico di prodotti contraffatti, estorsioni e usura, e soprattutto traffico di stupefacenti.

«Il report – commentano Marco Antonelli e Francesca Rispoli di Libera  ha come obiettivo generale quello di realizzare una fotografia delle modalità e degli andamenti con cui i fenomeni criminali si manifestano in ambito portuale, con una particolare attenzione al caso italiano e al ruolo delle organizzazioni mafiose. La prospettiva di analisi utilizzata prova a mettere in luce le dinamiche di interazione tra fenomeni illegali e attori dell’economia legale, per mettere in evidenza non solo l’azione dei gruppi criminali, ma soprattutto le condizioni di contesto che permettono ai gruppi di operare».

«In Italia, alcune istituzioni se ne sono occupate, ma, nonostante la centralità del sistema portuale per l’economia del Paese e la rilevanza della criminalità organizzata italiana nello scacchiere internazionale – hanno evidenziato – manca un’analisi più ampia del fenomeno. Nel dibattito pubblico, infatti, le riflessioni sul tema emergono solitamente in concomitanza con i grandi arresti condotti dalle forze dell’ordine o in occasione dei maxi-sequestri di stupefacenti o altri materiali illegali. La narrazione, però, risulta essere spesso allarmista, mentre sembra essere necessaria un’analisi puntuale che metta in mostra non solo l’azione dei gruppi criminali, ma anche le criticità degli stessi porti».

«In conclusione – hanno detto gli esponenti di Libera – gli scali sembrano essere uno snodo strategico e di fondamentale importanza per i gruppi criminali, che possono sfruttare l’infrastruttura e i collegamenti per svariati scopi. Un tema su cui, però, il dibattito politico sembra ancora troppo timido. In questo senso, il rafforzamento del coordinamento tra autorità giudiziaria, forze dell’ordine, autorità pubbliche presenti nel porto e imprese private che lì operano sembra essere una delle principali esigenze su cui intervenire, non solo in ottica repressiva, ma, soprattutto, preventiva. Una maggiore consapevolezza da parte degli attori che operano in ambito portuale – pubblici e privati – dei rischi criminali e corruttivi che caratterizzano la vita degli scali, sembra essere la precondizione per la promozione di contesti meno predisposti a scambi illeciti, nonché per la predisposizione di politiche di sviluppo coerenti con queste finalità».

La centralità nelle rotte commerciali, così come la permeabilità del tessuto socioeconomico, hanno reso alcuni scali più attrattivi di altri. Inoltre, negli ultimi anni possiamo riscontrare come alcuni porti – ad esempio Vado Ligure – abbiano trovato sempre maggiore spazio. Questo può far ipotizzare un processo di diversificazione ed espansione delle attività della criminalità organizzata anche in differenti scali. Una tendenza che può avvenire per diversi motivi, sicuramente legati al funzionamento stesso del porto: la dimensione economica, il contesto politico e istituzionale, le opportunità criminali create dagli attori operanti all’interno dell’area. Non è solo l’elemento geografico a fare la differenza, ma il contesto portuale.

Non solo Italia. La DCSA nella relazione del 2023 ha riservato un approfondimento sull’analisi dei traffici internazionali di cocaina via mare. Secondo quanto ricostruito, «nel 2020, in particolare, sono stati realizzati 520 sequestri di cocaina, segnalati da 12 Stati Membri dell’UE (Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Spagna) e da 3 Paesi al di fuori dell’UE (Russia, Ucraina, Regno Unito)».

La relazione prosegue sostenendo che: «L’entità della cocaina sequestrata ammonta a 282 tonnellate, rinvenuta in 75 porti diversi, distribuiti come segue: 301 sequestri (171 tonnellate) in 35 porti dell’UE; 11 sequestri (2 tonnellate) in 6 porti in Paesi extra UE; 206 sequestri (108 tonnellate) in 32 porti dell’America Latina;1 sequestro (0,5 tonnellate) in un porto dell’Africa;1 sequestro (0,5 tonnellate) in un porto del Nord America. In sostanza, nel 2020, 108 tonnellate di cocaina, dirette in Europa, sono state sequestrate in porti di partenza situati in America Latina e circa 171 tonnellate (circa l’80% della cocaina intercettata in Europa, pari a 213 tonnellate) sono state sequestrate nei principali porti container dell’Unione Europea». (ams)

ABBATTUTO L’ECOMOSTRO DI MELISSA: È
UNA VITTORIA DELLO STATO SULLA MAFIA

Palazzo Mangeruca non c’è più. È stato abbattuto, infatti, l’ecomostro abusivo confiscato alla ‘ndrangheta, presente da decenni a Torre Melissa, simbolo del degrado urbano e del potere criminale.

L’edificio, un ex mobilifico, di 6 piani – 6000 mq -, che si trovava sulla statale 106, ed era stato dapprima sequestrato (nel 2007) e successivamente confiscato (nel 2009) a Costantino Mangeruca, presunto prestanome della cosca “locale” di ’ndrangheta, è stato fatto implodere grazie alla tecnica della distruzione controllata attraverso 400 chili di dinamite in microcariche.

In occasione di questa storica giornata per la Calabria, erano presenti alla demolizione, il governatore della Regione, Roberto Occhiuto, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, e il generale Teo Luzi, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri.

L’abbattimento dell’ecomostro di Torre Melissa, che da anni deturpava uno dei tratti di mare più belli della costa crotonese, nasce da una precisa volontà della Giunta della Regione Calabria, presieduta da Roberto Occhiuto, che il 15 maggio 2022 aveva approvato – su proposta dell’allora assessore al Turismo, Fausto Orsomarso – una delibera che stanziava 700mila euro per la distruzione di Palazzo Mangeruca e la successiva realizzazione di un’area camper.

«La Calabria distrugge ciò che la ‘ndrangheta ha costruito abusivamente, deturpando il nostro territorio. Lo Stato è più forte della criminalità organizzata», ha dichiarato il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto.

«Questa storica demolizione è il frutto di un lavoro di più Istituzioni – ha ricordato – l’Arma dei Carabinieri ha svolto un’opera straordinaria per velocizzare le procedure, l’Agenzia per i beni confiscati ha fatto altrettanto, così come la Prefettura. Oggi dimostriamo che la Calabria è cambiata: combatte le mafie e l’abusivismo edilizio, affermando che le Istituzioni sono più forti dei poteri criminali. Anzi, io assumo l’impegno a finanziare, come ho fatto in questo caso, tanti altri abbattimenti per riqualificare le aree dove la ‘ndrangheta ha costruito abusivamente, al fine di restituire quegli spazi ai cittadini nel modo più appropriato.
Ringrazio il governo perché mi è vicino in questa attività, a dimostrazione del fatto che oggi la Calabria è una Regione diversa, anche per la comunità nazionale».

«È un giorno importante per tutta l’Italia – ha commentato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani –, un segnale di vittoria della legalità, ed è significativo che il governo sia qui presente insieme alle altre Istituzioni. Il nostro esecutivo ha fatto della lotta alla criminalità uno dei suoi impegni centrali più importanti. E questa demolizione rappresenta una forte risposta dello Stato contro l’arroganza delle mafie. Il risultato a cui siamo pervenuti oggi è anche il simbolo di cosa bisogna fare anche in futuro».

«Si deve ringraziare il presidente Occhiuto – ha detto ancora – che ha impresso una grande accelerazione in questa direzione. Lo Stato, se è unito, può sempre vincere. Non possono esistere nei nostri territori zone franche sottratte alla legalità, questo vale qui in Calabria come in ogni angolo del Paese».

«Oggi, per lo Stato, è una giornata in cui affermiamo il rispetto delle regole. L’immobile abusivo costruito dalla ‘ndrangheta deve scomparire come la ‘ndrangheta deve scomparire presto», ha dichiarato il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto.

«Siamo qui proprio a confermare che lo Stato c’è, la Regione è presente – ha ribadito –. Occhiuto nel 2022 a posto fine ad una querelle che sembrava irrisolvibile e lunghissima. Mi sembra che oggi prendiamo atto che anche in Regioni difficili come la Calabria, come la mia Puglia, come la Campania siamo in condizioni di dire la nostra. Un’unione tra varie Istituzioni è riuscita a ottenere un risultato storico, un gioco di squadra straordinario con Carabinieri, Prefettura, politica e giustizia. Mi sembra che tutti abbiano dato un giusto contributo e il risultato è quello di restituire ai cittadini calabresi, all’Italia, un pezzo di territorio che qualcuno voleva invece indebitamente occupare».

«Questo è un giorno importante – ha sottolineato il comandante generale dei Carabinieri Teo Luzzi –, perché lo Stato si riappropria di un pezzo del suo territorio ed è il risultato frutto di un gioco di squadra che coinvolge tutte le Istituzioni nazionali e locali, i cittadini che ci chiedono questo: un servizio pubblico con attori che lavorano in sinergia per ottenere i risultati. Abbattere un ecomostro costruito dalla ‘ndrangheta significa far prevalere lo Stato sul male. È una giornata simbolicamente di grande interesse. Oggi lo Stato è più forte del passato, nel 2023 a livello nazionale solo per ciò che concerne i Carabinieri sono stati arrestati oltre 500 mafiosi delle varie consorterie e un altro dato importante è attinente al sequestro dei beni illecitamente accumulati dalle mafie: solo l’Arma ha sequestrato oltre 500 milioni di beni».

«Fare ciò significa contribuire al loro depotenziamento – ha detto ancora – ma soprattutto significa distribuire sul territorio beni ad associazioni. Il mio pensiero va anche ai tanti Carabinieri caduti sul territorio nel contrasto al crimine organizzato». (rkr)

PER I GIOVANI CALABRESI STUDIARE FUORI
È UN LUSSO: VIENE LESO UN LORO DIRITTO

di FRANCO CACCIA I calabresi siamo un popolo di migranti. Ben conosciamo l’emigrazione per lavoro e per malattia, ma non meno diffusa è l’emigrazione legata a motivi di studio. Come noto, tanti giovani calabresi frequentano università ubicate nelle città del centro nord, dove il costo della vita, in particolare dei fitti, è diventato proibitivo. I posti disponibili presso gli studentati universitari sono una parte marginale rispetto alla presenza di studenti provenienti da altre regioni.

Una delle principali voci di spesa a cui le famiglie vanno incontro, quando decidono di mandare un figlio a studiare fuori regione, è rappresentata proprio dal costo dell’alloggio presso le principali città universitarie (Roma, Bologna, Milano, Siena). Il costo di una camera varia in base a diverse circostanze tra cui l’ubicazione, le condizioni dello stabile, la qualità dell’arredo, la condivisione della stanza con altri inquilini. In ogni caso parliamo di una cifra che si aggira tra i 500 ed i 1200 euro mensili.

Sostenere le tante spese necessarie per assecondare le legittime aspettative di crescita e di affermazione umana e professionale dei figli, che studiano fuori regione, è diventato un vero salasso per le magre tasche delle famiglie medie di Calabria, al punto da diventare un vero privilegio per famiglie dal reddito medio-alto. Mantenere agli studi un figlio che scegli un percorso di studi non disponibile nella nostra regione, oltre ai costi di vitto, prevede spese per libri, tasse universitarie, trasporti, sport e tempo libero, viaggi per il rientro a casa.

A conti fatti far studiare un/a figlio/a fuori regione comporta, per le famiglie calabresi, un costo annuo che supera abbondantemente i 10mila euro. A sollecitare interventi concreti da parte delle politiche pubbliche in modo da non lasciare sole le famiglie, di fronte a questi ingenti spese, ci ha pensato il Forum delle famiglie della Calabria.

«Molti studenti della nostra regione – ha dichiarato Claudio Venditti, presidente del Forum– studiano fuori e fanno i conti con affitti, che in presenza di una richiesta elevata e in mancanza di alloggi sufficienti da parte delle Università, lievitano in continuazione. Una situazione insostenibile, studenti e famiglie non riescono più a trovare una casa a prezzi abbordabili, e di fatto viene loro negato un diritto fondamentale»

Secondo Venditti ed altri ricercatori sociali, una soluzione immediatamente darebbe tuttavia praticabile in tempi brevissimi. Basterebbe infatti che il governo decidesse di aumentare alle famiglie la detraibilità delle spese da queste sostenute per far studiare i figli fuori regione. Oggi l’importo massimo detraibile è pari a 500 euro, vale a dire il 19% di una spesa complessiva di 2.633 euro l’anno. Una cifra ridicola che non riesce a coprire neanche il costo di una singola mensilità del fitto. Il forum delle famiglie calabresi ha pertanto lanciato un appello a tutti i parlamentari calabresi affinché si facciano carico, con opportuni emendamenti in sede di approvazione della finanziaria, dove come abbiamo notato sono state presentate istanze varie, alcune delle quali volte a riconoscere compensi aggiuntivi ai docenti che insegnano nelle regioni nord.   Sembra logico che di fronte al diritto allo studio, diritto sancito dalla Costituzione, si trovi il modo di dare una risposta concreta ed immediata alle famiglie ed un segnale positivo agli studenti che, per diversi mesi, hanno inscenato la protesta delle tende presso i principali atenei del centro nord.  Ci sono battaglie di civiltà che bisogna saper affrontare e vincere con l’uso del buon senso e liberi da ogni forma di pregiudizio. 

A far studiare i figli fuori sede, a dover sostenere i costi citati, sono le famiglie meridionali e calabresi in particolare e l’eventuale introduzione di facilitazioni di natura fiscale sarebbe da tutti gradita.  Non pare quindi utile alla causa soffermarsi su pretesti o caratterizzare di colorazioni politiche una legittima e condivisa protesta di studenti e famiglie.  Su questo tema anche chi scrive, fin dalla scorsa primavera, ha sollecitato alcuni parlamentari calabresi dell’area di governo ricevendo risposte interlocutorie della serie «vedremo, approfondiremo».

Attendiamo fiduciosi le possibili novità all’interno dell’imminente finanziaria con la consapevolezza che quanti ricoprono cariche pubbliche, specie chi siede al Parlamento della Repubblica, è chiamato a trovare soluzioni concrete ai problemi dei cittadini, specie di quelli residenti nei territori di cui questi sono diretta espressione. Se non si riesce ad essere giusti interpreti del bisogno di riscatto dei calabresi, operare in maniera costante e qualificata per ampliare la sfera dei diritti e delle opportunità delle politiche pubbliche, allora è il caso che questi signori e signore imparino un mestiere e facciano altro. (fc)

NON BASTA DIRE “PONTE“ PER CAMBIARE
LE SORTI DEL SUD: SERVE UNA VERA SVOLTA

di MIMMO NUNNARI – Dicono che faranno il Ponte, ma intanto, visto che non c’erano tutti i soldi per farlo, hanno dirottato sul progetto 1,6 miliardi di euro che erano destinati al fondo di sviluppo e coesione gestito da Sicilia e Calabria, più altri 718 milioni per opere nel Mezzogiorno. Così, con un clic, visto che sa d’antico parlare d’un tratto di penna, quando si cancella qualcosa. Il clic è più veloce.

Bisognerebbe vedere nel dettaglio per quali opere sono stati “cassati” i finanziamenti dirottati sull’opera di regime che Salvini vuole realizzare a tutti i costi; alcuni dicono perché vuole entrare nella storia, più verosimilmente per raccattare consensi al Sud, che prima vedeva come una zavorra per l’Italia del Nord e adesso pensa che sia un’opportunità, quantomeno dal punto di vista elettorale. Perché tutto per quello [il consenso] si fa oggi, nella politica in Italia, a destra come a sinistra. Alzi la mano chi ha un progetto, una visione di Paese e di futuro, un occhio al bene comune, il bottone giusto per accendere un motore che faccia girare le cose.

Una settimana fa il Censis ha restituito l’immagine di un Paese fermo, confuso, prigioniero di ventate emotive, privo di una visione di sviluppo condivisa e condivisibile. Non poteva essere diversamente: la classe politica italiana è quella che è, incapace di fare le riforme che necessitano per far volare il Paese. Volare, sì proprio volare, perché l’Italia potrebbe volare se avessimo una classe dirigente e un Governo adeguati. Sulla carta e nellopinione comune siamo storicamente un Paese ricco dingegno, ancorché povero di risorse, e quando lingegno viene meno – come nellepoca attuale – sono dolori, e soprattutto è crisi, morale ed etica, prima che economica, delle più nere. Avremmo bisogno di un cambiamento di prospettiva: lItalia tutta ne ha disperatamente bisogno, per scongiurare il collasso sociale, economico e ambientale che incombe, soprattutto al Sud.

Ma non si riesce ad andare oltre il “ponte” che Salvini vuole più di tutti, e poco importa se bisogna sacrificare cose che avrebbero ridotto le disuguaglianze che sono le vere iatture di questo Paese incompiuto, senza identità. Per ridare le ali al Paese, che ha bisogno di rimettere a posto i suoi ingranaggi, serve metodo, e il Sud dovrebbe intanto avere i suoi ingranaggi, perché neanche quelli ha. Metodo che cambi la base decisionale, metodo di sintesi costruttiva, che aiuti a scegliere le priorità, quello che serve, che ci guidi fuori dal pantano in cui tutti oggi siamo invischiati. Non basta dire “ponte”, per cambiare le sorti del Sud. Il ponte da solo – sempre che si realizzi – è come comprarsi una Ferrari senza motore; poi la devi spingere per farla muovere, o ti ci puoi solo sedere alla guida e farti un selfie.

È avvilente, che al clic che ha dirottato i finanziamenti previsti per il Sud abbiano messo il loro onorevole ditino per spingere i bottoni i parlamentari della maggioranza eletti nel Meridione, e che gli altri, dell’opposizione, non si siano ancora incatenati agli scranni per protesta. Si sta giocando col fuoco e si sta abusando della pazienza del Sud che non può essere infinita. Il Sud è come un vulcano addormentato che può risvegliarsi all’improvviso. È come una polveriera che può saltare in aria con lo scoppio di una sola scintilla.

Non bastano gli annunci e le promesse per scongiurare eventualità incresciose, e pericolose. Porre riparo alla debolezza storica di regioni come la Calabria sarebbe il punto da cui partire. Spezzare le catene che condannano il Sud all’arretratezza dovrebbe essere un imperativo e non si spezzano certo solo col ponte queste catene; ponte che sembra essere diventato un capriccio elettorale di un ministro per adesso accontentato con i soldi del Sud dirottati con un dirottamento che sembra di più un furto, ai danni di Sicilia e Calabria. (mnu)

CALABRIA, TROPPI INFORTUNI SU LAVORO
SOLO NEL 2022 CE NE SONO STATI 7.575

di FRANCESCO CANGEMIIn Calabria ci sono troppi infortuni sul lavoro. Nel 2022 sono stati 10.270 e, di questi, 7.575 sono avvenuti nell’Industria e nei Servizi, 1691 in Sanità e Assistenza sanitaria sociale, 596 in Agricoltura, 2.099 per conto tra i dipendenti statali. Per quanto riguarda le malattie professionali nel 2022 quelle denunciate sono state 2148, di cui 1737 in Industria e Servizi, 76 in Sanità e Assistenza sanitaria sociale, 383 in Agricoltura, 27 tra i dipendenti statali.

I dati sono contenuti nel report d’indagine frutto della conclusione del progetto “Informare, prevenire, salvaguardare”, sottoscritto a febbraio 2019 da Inail, direzione regionale Calabria, e Inca, Istituto nazionale confederale di assistenza della Cgil Calabria, presentato a Catanzaro.

All’iniziativa hanno preso parte Angelo Sposato, segretario generale Cgil Calabria, Vincenzo Amaddeo, direttore regionale vicario Inail, Giovanni Aristippo, coordinatore regionale patronato Inca, Fabio Manca, consulente medico patronato Inca nazionale, Sonia Romeo, sovrintendente sanitaria regionale Inail, Sara Palazzoli, presidenza patronato Inca nazionale.

I dati rilevati nel report del progetto fanno riferimento al 2018, in base alla sottoscrizione del protocollo. La loro raccolta ed elaborazione, avvenuta tramite la somministrazione di questionari in forma anonima tra medici, infermieri, tecnici, operatori socio-sanitari, amministrativi e addetti alla pulizia in ambito sanitario, è stata resa più complessa dall’avvento del Covid.

Dal report emerge con forza un insieme di problemi legati alle carenze strutturali e all’organizzazione del lavoro, in termini di carichi e ritmi, con impatti negativi sulla qualità della vita anche se non percepita come strettamente legata alla situazione lavorativa.

Il settore si caratterizza per un’elevata presenza di problemi muscolo-scheletrici così come un’incidenza significativa di personale con una ridotta idoneità. Per quanto riguarda l’età, emergono delle specificità dovute alle differenti classi. Per i più anziani, oltre alle problematiche legate alla naturale senescenza, emergono problemi di salute legati alla maggiore esposizione temporale ai rischi sul lavoro, con una diffusione di patologie muscolo-scheletriche che interessa in alcuni casi più della metà del campione oltre i 54 anni. A questi problemi si aggiungono quelli di ordine psico-sociale determinati sia dall’organizzazione del lavoro che dalle tensioni dovute alle relazioni con i pazienti e i loro familiari.

Nel complesso, i rischi per la salute e la sicurezza secondo i lavoratori sono dovuti innanzitutto alle carenze strutturali e all’organizzazione del lavoro, in termini di personale mancante, carichi e ritmi intensi.

Un problema particolarmente rilevante che si identifica anche a livello nazionale è rappresentato dalla differenza percentuale tra il numero di malattie professionali denunciate e quelle effettivamente riconosciute (anche se il comparto sanità rappresenta numeri relativamente migliori rispetto ad altri); tale dato poi incrociato con quello degli effettivi disturbi rilevati dall’ indagine, per quanto inficiati dall’età relativamente elevata del campione esaminato, rileva come oltre una difficoltà nella denuncia o possibile correlazione dei disturbi con l’attività lavorativa svolta, vi sia obiettivamente un valutazione per noi sottostimata da parte delle strutture deputate al riconoscimento.

Tale affermazione verrebbe corroborata dalla differenza che raggiunge quasi il 50% di riconoscimenti (anche se differenti) tra malattie professionali e cause di servizio.

In generale, come mostra anche la poca conoscenza delle procedure per la sicurezza in caso di puntura di ago, sembra esserci una minore attenzione al tema degli infortuni e una scarsa cultura della prevenzione per le malattie professionali.

«Questo progetto – ha sottolineato Vincenzo Amaddeo, Direttore regionale vicario Inail Calabria -rappresenta il proposito dell’Inail, la costruzione di una cultura della prevenzione e la costruzione di una rete di rapporti, come quello con il patronato, per agire sinergicamente».

Per il segretario generale Cgil Calabria Angelo Sposato dal rapporto del lavoro congiunto tra Inca e Inail emerge «un quadro allarmante sulla salute nei luoghi di lavoro. La nostra è una regione vecchia e malata, che perde migliaia di giovani all’anno e dove l’età media nel lavoro pubblico è di dieci anni in più della media europea. Il blocco del turn over e delle assunzioni nella pubblica amministrazione, l’allungamento dell’età pensionistica, la precarietà del lavoro sempre più povero, la fuga dei giovani sono temi esiziali per il Sud. Aumentano le paure e le incertezze, gli stati emotivi, cause di ansia e depressione che accrescono in modo esponenziale le patologie professionali. Il tema delle malattie professionali e degli infortuni sul lavoro aumentano per tutti questi fattori. Serve un grande investimento sulla sicurezza del lavoro e sulla tutela individuale della salute».

Ad illustrare i numeri del report il coordinatore regionale patronato Inca Calabria Giovanni Aristippo che ha sottolineato come ci sia in Calabria poca consapevolezza sulla correlazione tra malattie professionali e ambiente di lavoro. «Tutti i settori necessitano del nostro impegno e della nostra organizzazione – ha affermato Sara Palazzoli, Presidenza patronato Inca nazionale – molto c’è da fare sull’emersione e il riconoscimento del danno da lavoro. Ecco perché spingeremo per fare formazione sui rischi legati al lavoro ai lavoratori». (fc)

IL MARE CALABRESE “RAPISCE” I TURISTI
IL 43% DECIDE DI TORNARE IN REGIONE

di FRANCESCO CANGEMII turisti che giungono in Calabria preferiscono il mare, in particolare quello di Vibo e di Drapia. Il dato è emerso durante il “Focus group per la lettura condivisa dei dati sul turismo per la pianificazione, lo sviluppo e il monitoraggio del territorio Calabria” organizzato da Unioncamere Calabria, in collaborazione con le Camere di commercio di Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia, Cosenza e Reggio Calabria, nell’ambito delle iniziative previste dal progetto “Sostegno del turismo” del Fondo di perequazione 2021-22, con il supporto tecnico-scientifico di Isnart, Istituto nazionale ricerche turistiche.

L’indagine svolta da Isnart per conto di Unioncamere e di Unioncamere Calabria, nell’ambito dell’Osservatorio sull’Economia del turismo delle Camere di commercio, ha investito nel corso dell’estate un campione di 1253 visitatori italiani e stranieri (che hanno alloggiato sia in strutture ricettive che in abitazioni private) durante il loro soggiorno nella regione al fine di rilevare i comportamenti turistici e di consumo.

Secondo i primi risultati d’analisi, nell’estate 2023 la motivazione balneare si mantiene al primo posto (54%), seguita da quella culturale (30,4%; in linea con la media Italia).

Riguardo i canali di comunicazione, il ruolo forte di internet nella scelta del soggiorno (48%) si allinea al dato medio Italia; si rileva, come di consueto, un marcato fenomeno di repeating, cioè chi ritorna, (43,1%; quota, in proporzione, superiore alla media nazionale del 15%).

Una volta a destinazione, l’88,4% dei turisti fa gite al mare; il 48%, complice la natura anche montuosa della regione, si gode escursioni e gite nel verde. Seguono le attività culturali come visite ai centri storici (31,3%) ed a musei e mostre (13,4%).

Interessanti anche un 18% che si dedica allo shopping, “oliando” il sistema economico regionale, un 17% alle degustazioni enogastronomiche ed un 16% che partecipa alla rassegna di eventi tradizionali e folkloristici nel territorio (+12,4% sulla media Italia), rafforzando l’importanza del prodotto “cultura” nel periodo estivo, più congeniale.

In linea con quanto registrato a livello nazionale, nel 2023 si spende di più per l’alloggio (66,4 euro), diminuisce la spesa media giornaliera per gli altri beni e servizi acquistati sul territorio (51,4 euro).

L’interesse per il turismo balneare nella provincia ionica di Catanzaro si attesta a quota 13,3%. In questo caso, spicca un turismo abituale ovvero che è solito far ritorno nella località scelta: il 36,4% è ospite di amici e parenti, l’11% sceglie la località in base alla vicinanza geografica. Da notare che Catanzaro è percepita dai turisti come la provincia ideale per godersi una vacanza di relax (15,4%).

Anche la provincia di Cosenza attrae principalmente per il suo litorale (46%) ma anche per il patrimonio culturale (26%). Differentemente da Catanzaro, in questo caso incide maggiormente un turismo attivo e consapevole: la quota che è cliente abituale di una struttura ricettiva è pari al 38,3%.

Internet veicola le scelte del 38% dei turisti, oltre la metà (54%) torna a seguito di una piacevole esperienza trascorsa nella provincia.

A destinazione, si amplia l’interesse per gli aspetti naturalistici: non solo mare (9 turisti su 10) ma escursioni e gite in generale (61,1%).

Mare (60,3%), enogastronomia (38%) e cultura (33,1%) sono le motivazioni principali dei turisti in visita nella provincia di Crotone. Interessante il fatto che venga indicata come la destinazione ideale per chi ha bambini piccoli con sé (17%), rendendo appetibile il target “famiglie”.

La provincia di Reggio di Calabria registra l’interesse provinciale più marcato per mare (85,3%), cultura (63%), natura (43%) e shopping (17,2%).

Parlando di canali di comunicazione, appare predominante il peso di Internet, il quale influenza il 75,4% dei vacanzieri (quota provinciale più alta).  Parlando delle attività svolte a destinazione, è assai rilevante il “peso” dello shopping (56%).

Anche la provincia di Vibo Valentia attrae per il litorale (66,2%), il patrimonio arti-stico-monumentale (36,3%) e quello naturalistico (12,3%); emerge un interesse trasversale per eventi (14%) e divertimenti (11%), il che può contribuire a potenziare l’attrattività dell’offerta territoriale.

Isnart, attraverso la “Location intelligence”, un nuovo strumento per l’osservazione e la mappatura dei fenomeni turistici, che analizza i big data geo-spaziali per identificare le differenti tipologie del turista sulla base di interessi e preferenze (culturale, enogastronomico, naturalistico, sportivo o spirituale) ha sti-lato anche una prima graduatoria di livello nazionale che mette in risalto l’interesse per le attività svolte nei comuni calabresi.

Dall’analisi, emerge che il comune di Drapia (Vv) si posiziona al 5° posto nella graduatoria nazionale dei comuni cosiddetti “Family & Kids”; numerosa, in questo caso, la presenza di villaggi che offrono servizi dedicati al target “famiglie”.

Il Comune di Pizzo si posiziona al 18° posto tra i Comuni del Sud (isole escluse) classificati nel cluster “enogastronomia” grazie al suo famoso “tartufo”.

Il Comune di Reggio di Calabria è 10° nel cluster “sport” e 17° nel “cultura”, merito in primis dei Bronzi di Riace conservati nel Museo archeologico nazionale.

«Si conferma, attraverso la lettura dei risultati dell’indagine presentata, la forte incidenza turistica dei “repeater”, ovvero coloro che ritornano in Calabria (43%) – commenta Antonino Tramontana, presidente di Unioncamere Calabria – dato nettamente superiore al 15% della media nazionale. Internet influenza, inoltre, la scelta di quasi 1 turista su 2 (48%), quota che sale al 75,4% nel caso di Reggio Calabria. In linea con il dato medio nazionale, l’estate 2023 si caratterizza ad ogni modo per una spesa maggiore per l’alloggio (66,4 euro) che ha influenzato i consumi sul territorio (51,4 euro). Consumi, a macchia di leopardo, sui territori: si spende di più per acquisti di beni e servizi in provincia di Reggio Calabria, di meno in quei di Cosenza dove, però, è maggiore l’incidenza di chi soggiorna in strutture ricettive».

«Il focus group ha inteso costituire un importante momento di condivisione tra i diversi portatori d’interesse del territorio sulle strategie prioritarie per lo sviluppo del sistema turistico regionale e per la qualificazione dell’offerta – aggiunge Tramontana – nonché un’opportunità di riflessione anche sull’azione di supporto che viene resa disponibile da parte del sistema delle Camere di commercio calabresi».

«Al fine di valorizzazione la messa a sistema delle risorse e delle competenze in tema di sostegno al Turismo regionale – conclude il presidente – diventa cruciale la capacità di stringere collaborazioni strategiche tra le Istituzioni, proprio in questa direzione Unioncamere Calabria ha sottoscritto due protocolli d’intesa con i Dipartimenti regionali Sviluppo Economico e Attrattori Culturali e Territorio e Tutela dell’Ambiente». (fc)

PONTE, C’È UN’INUTILE SEQUELA DI FALSITÀ
A PARLARE SEMPRE E SOLO INCOMPETENTI

di ROBERTO DI MARIA – All’interno del servizio contenuto nella trasmissione televisiva Report “L’uomo del Ponte” andata in onda qualche giorno fa, ci ha colpito, più di ogni altra cosa, l’affermazione secondo la quale il Ponte non sarebbe in grado di superare l’analisi costi/benefici.

L’opera, che in realtà ha già superato questa fase alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, ovvero ai tempi dello studio di fattibilità, non avrebbe più i requisiti previsti allora. Infatti, il prof. Francesco Ramella, docente di Trasporti presso l’Università degli studi di Torino, interpellato da Report, ha affermato che a causa della congiuntura negativa, i traffici sul Ponte non sono cresciuti come previsto, in presenza di una evidente crisi economica e di un declino demografico che appare molto serio.

Ineccepibile: crisi economica e declino demografico sono indubbi. Ed il prof. Guido Signorino, docente di Economia applicata dell’Università di Messina, conferma subito dopo che l’incremento del traffico previsto del progetto non c’è stato, anzi, c’è stata una riduzione. Anche questa è una notizia vera e potrebbe farci dedurre (Report lascia allo spettatore tale compito) che siccome c’è la crisi economica ed i traffici non possono crescere, allora è inutile realizzare un’opera che si giustifica solo in funzione di traffici rilevanti.

In realtà, nel complesso campo delle opere pubbliche destinate alla mobilità, non si ragiona in questo modo. D’altronde, sulla base di queste premesse, chi avrebbe mai pensato di costruire strade o ferrovie in aree economicamente depresse, caratterizzati da uno scarso volume di traffico?

Si pensi alle primissime linee ferroviarie,  costruite nella prima metà del XIX secolo: si trattava sistemi di trasporto spesso realizzati in aree depresse, se non in mezzo al nulla, pressochè sperimentali dal punto di vista tecnologico e pertanto costituivano un investimento ad alto rischio di capitale. Eppure tali ferrovie furono realizzate, e divennero un formidabile volano di sviluppo: lo fu la Union Pacific Railroad che collegava le due coste degli Stati Uniti, o la Transiberiana,tuttora la più lunga ferrovia mai realizzata, che attraverso steppe desertiche collegava le due estremità dell’impero russo: l’economia ed il traffico esistente giustificavano quegli enormi investimenti?

Il ragionamento potrebbe essere fatto per centinaia di altri esempi come, in tempi più recenti per la costruzione dell’Autostrada del Sole, realizzata in un’epoca in cui ci si muoveva ancora pochissimo, e per lo più su carretti a trazione animale. Eppure quell’autostrada venne realizzata per i mezzi a motore, ai tempi rarissimi, ed aveva una capacità di 3600 veicoli l’ora per direzione. Follia pura.

Per comprendere come mai, fortunatamente, si facciano scelte così apparentemente insensate, con tanto successo e sviluppo per il territorio, occorre fare una piccola digressione tecnica.

Come funziona l’analisi costi/benefici

L’analisi costi-benefici di un’opera di trasporto pubblico viene realizzata confrontando i costi della stessa con i benefici apportati alla comunità servita.

I costi sono sia quelli di costruzione sia quelli di esercizio, comprensivi della manutenzione, ordinaria e straordinaria, necessaria a mantenere in efficienza l’infrastruttura.

I benefici sono quelli realizzati grazie alla nuova infrastruttura e vengono “monetizzati” per essere paragonati ai costi ed eseguire il confronto. Se parliamo di un’infrastruttura di trasporto, vanno considerate soprattutto le economie realizzate nel miglioramento degli itinerari: minore spesa per il carburante e per l’energia consumata nel tragitto interessato grazie alla nuova infrastruttura, ma anche minori perdite di tempo. In questo caso, anche il tempo viene “monetizzato” considerando il valore dello stesso su base orario. In generale, si prende a riferimento la paga media di un lavoratore: ogni ora risparmiata viene equiparata al costo di un’ora di lavoro mediamente pagata sul mercato. Ma naturalmente occorre considerare il minor impatto ambientale dell’opera grazie al minor consumo di energia e ridotta produzione di gas climalteranti: il cosiddetto “carbon footprint”.

Tralasceremo, in questa fase, i benefici “indotti”, vale a dire le opere collaterali che si aggiungono ad ogni infrastruttura realizzata. Un esempio o il miglioramento della viabilità esistente in corrispondenza degli attraversamenti, laddove, cioè, viene ricostruita una strada per qualche centinaio di metri in corrispondenza di un sottopasso o di un cavalcavia. Ma l’effetto può essere anche esteso all’irregimentazione di corsi d’acqua, alla stabilizzazione di pendii, allo spostamento con ricostruzione di condotte idriche o fognarie.

Gli elementi considerati per i benefici diretti sono quindi proporzionali al traffico che utilizza la nuova infrastruttura: ogni automobile che la impegnerà farà risparmiare al conducente un tot. Di carburante e di tempo per raggiungere la meta. Qualcosa del genere avviene per il trasporto di merci e per il traffico ferroviario. È evidente che maggiore è il traffico interessato, maggiori saranno i benefici realizzati con la costruzione dell’infrastruttura.

I flussi di traffico: vanno previsti, non fotografati

E qui sta la chiave di tutto. In un’analisi costi/benefici men che seria, occorrerà innanzitutto stimare il traffico, estendendo la stima a tutta la via utile dell’opera. Come si fa? Non è molto semplice. Innanzitutto, non si può considerare il dato attuale “invariante”. Esso è sottoposto alle fluttuazioni della condizione socio-economica, difficilmente immaginabile per il futuro. In genere, tuttavia, si considerano le serie storiche dell’andamento del traffico, tramite le rilevazioni effettuate negli ultimi decenni, proprio per focalizzare un tempo abbastanza lungo da consolidare il dato.

Se ci fermassimo qui, potrebbe essere condivisibile il ragionamento di Ramella: se devo collegare A e B e scopro che il traffico è in diminuzione, che la faccio a fare una nuova infrastruttura? Ma l’Economia dei Trasporti, almeno quella che abbiamo studiato noi, ci dice cose un pò diverse.

La stima del traffico, infatti, non può essere fatta sul solo itinerario A-B. Occorre studiare tutti gli itinerari possibili che comprendano la tratta A-B, estendendo l’indagine ad un certo numero di percorsi possibili che potranno utilizzare la nuova infrastruttura. Per quest’ultima non passeranno solo i mezzi diretti da A a B, ma anche altri utenti che magari sceglieranno questo nuovo ramo di collegamento per viaggiare tra punti magari molto lontani da A e B.

Ad esempio, parlando del Ponte sullo Stretto, i flussi di traffico sono ben diversi da quelli esistenti tra Messina e Villa S. Giovanni. Dal Ponte passerebbero tutte le relazioni Sicilia-Continente (tipo Palermo-Roma o Catania-Milano per fare due esempi) coinvolgendo tutti gli utenti che considereranno conveniente il nuovo itinerario.

Il confronto, nel caso particolare del Ponte, andrebbe fatto con altre modalità di trasporto, come l’aereo e la nave. Non esisterebbero, infatti, altri itinerari via terra alternativi al collegamento stabile sullo Stretto. L’analisi, pertanto, sarebbe molto più complessa di quanto non si pensi, e non si limiterebbe di certo a quest’area, né al momento contingente.

Occorrerà studiare la situazione “post-operam” ed effettuare un’analisi previsionale estesa all’intera vita utile dell’opera. Ciò significa implementare una simulazione che ci conduca a calcolare il flusso che si raggiungerà a regime, considerando tutti gli utenti attratti dalla nuova infrastruttura grazie alla sua convenienza, per i benefici descritti sopra in termini di economie nel tempo e nel costo del trasporto. Si tratta, in sostanza, di valutare il “traffico indotto” dalla nuova infrastruttura ed il suo andamento nel tempo: tutt’altro, quindi, che fotografare la situazione in atto, dandola per buona sine die.

La simulazione viene effettuata mediante un “modello matematico”, partendo da uno schema grafico (grafo) che comprenda tutte le alternative possibili rispetto all’itinerario considerato. In genere si considera la rete stradale al contorno, ma in questo caso, come dicevamo, occorre coinvolgere almeno i collegamenti aerei e navali esistenti tra Sicilia e Continente. Si ricava facilmente che, in presenza di un collegamento più rapido ed economico rispetto a questi due vettori, vi sarà un trasferimento di utenti a favore della nuova infrastruttura, anche provenienti da parecchio lontano. Cosa ben diversa dal prendere in considerazione gli attuali traghettamenti, o, peggio, gli attuali flussi pendolari tra Messina e Villa S.Giovanni.

Che essi non siano cresciuti rispetto alle previsioni dei progettisti del Ponte, come abbiamo sentito dire nelle dichiarazioni dei due professori, non ci meraviglia affatto: come abbiamo spiegato, l’analisi dei flussi di traffico sul Ponte, condotta in fase di progettazione di fattibilità, prevedeva proprio la presenza dell’opera di attraversamento, ovvero la situazione post-operam e la simulazione del traffico indotto in considerazione della sua presenza, con la redistribuzione tra i vari itinerari possibili.

Un piccolo particolare deve essere sfuggito ai professori interpellati da Report: il Ponte non è stato più costruito. In questa situazione, è logico aspettarsi che i traffici di partenza siano rimasti gli stessi, se non addirittura diminuiti a causa della crisi economica nel frattempo intervenuta. Un effetto quest’ultimo che non può certo essere preso a pretesto per rinunciare a quest’opera, essendo dovuto anche alla sua assenza.

Anzi, essendo la riduzione dei flussi di traffico il sintomo evidente di una marginalizzazione della Sicilia su scala globale, ciò dovrebbe accelerare la realizzazione del Ponte, che collegherebbe l’isola ad un corridoio europeo di primaria importanza, anziché metterne in discussione l’utilità.

Senza Ponte, a che serviranno le opere in corso sul corridoio europeo?

Queste riflessioni ci conducono facilmente ad altre considerazioni: si pensi agli oltre 9 miliardi di euro che si stanno investendo in Sicilia per potenziare agli standard europei dei corridoi TEN-T la direttrice Messina-Catania-Palermo ed ai 30 miliardi stimati per la Salerno-Reggio Calabria. Sicuramente non sarà sfuggito ai professori interpellati da Report che queste linee, senza il Ponte, rimarranno opere senza senso.

Avremmo realizzato in Sicilia un corridoio merci ad Alta capacità concepito per treni merci lunghi 600 metri che, semplicemente, non si riuscirebbero neanche a comporre per portare un qualsiasi tipo di merce da Palermo a Catania: converrebbe, semplicemente, trasportarle sui tir. E neanche da un qualsiasi punto dell’isola fino a Messina, magari per poi imbarcarli su un numero di traghetti tali da ospitare un’ottantina di carri merci, quanti ne conterrebbe uno solo di questi treni. E ci troveremmo nell’impossibilità di utilizzare quelle linee per treni ad Alta Velocità che, senza Ponte, semplicemente non potrebbero raggiungere la Sicilia.

Considerazioni ambientali

In tutto questo abbiamo trascurato, colpevolmente, un elemento di fondamentale importanza: i benefici in termini di sostenibilità ambientale dei trasporti. Si può determinare, anche in questo caso, simulando la situazione successiva alla realizzazione dell’opera, confrontando il guadagno in termini di sostenibilità ambientale rispetto alla situazione in assenza della stessa.

Questo calcolo è già stato fatto nel libro Stretto di Messina e rispetto della transizione ecologica pubblicato dal Distretto Rotary 2110, Sicilia e Malta, a firma degli ingg. Giovanni Mollica (intervistato da report) ed Antonino Musca. Studio che è stato frettolosamente etichettato come “non scientifico” e smentito dallo stesso prof. Ramella. A fronte di 140.000 tonnellate di CO2 all’anno in meno, dovute al passaggio dei mezzi sul Ponte anziché sui traghetti, Ramella ha dichiarato che, in realtà, si tratterebbe soltanto di 10.000 tonnellate/anno in meno.

La differenza è notevole, anche se il dato di Ramella, pur ridimensionandone gli effetti, conferma l’impatto positivo dell’opera sull’ambiente, smentendo clamorosamente le tesi di tanti ambientalisti che, in maniera a dir poco superficiale, continuano a considerare il Ponte come il peggior disastro ambientale immaginabile a memoria d’uomo.

Ad ogni modo, ancorchè “non scientifico”, lo studio di Mollica e Musca meriterebbe quanto meno, da parte di chi la “scienza” la pratica ogni giorno, un’occhiata più approfondita e meno spocchiosa. Si scoprirebbe magari che esso è supportato da dati, statistiche, e calcoli che hanno tutta l’autorevolezza di una pubblicazione universitaria. D’altronde, oltre 3 anni dopo la sua pubblicazione, questo studio non è stato mai smentito da nessuno e non è mai stata pubblicata una puntuale analisi scientifica che ne smonti le tesi.

Economia dei Trasporti creativa

Evidentemente, per gli esperti sopra citati, non servirebbe ad un territorio depresso come quello siciliano, poter contare su un moderno sistema di trasporti merci inserito nella rete CORE europea; né tanto meno l’Alta Velocità, della quale è stato dimostrato il ruolo nell’incremento del PIL per i territori serviti, stimato intorno al 10% in più rispetto alle aree non servite.

Poche e semplici considerazioni, di buon senso oltre che scientifiche. Le quali ci portano ad una riflessione altrettanto banale: forse abbiamo studiato sui libri sbagliati, o magari negli ultimi anni si è sviluppata un’economia dei trasporti “creativa” che è sfuggita a chi scrive. Ma non certo a Ramella e Signorino. (rdm)