Saverio Montalto: lo scrittore calabrese precursore di Camilleri

di BRUNO GEMELLI – La città di Ardore, oltre a dare i natali a Francesco Misiano, si può vantare di aver avuto tra i suoi figli migliori lo scrittore Francesco Saverio Barillaro che era più piccolo di Misiano di 14 anni. Barillaro era sconosciuto con questo nome perché usava lo pseudonimo Saverio Montalto. Egli è stato il primo in Italia a scrivere un romanzo sulla mafia. Lo fece con La Famiglia Montalbano, una definizione che l’autore usava per chiamare la ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria; un modo originale e diverso dal linguaggio convenzionale.

Il romanzo ebbe una lunga incubazione e fu completato nel 1945, ma fu pubblicato solo nel 1973 dalla casa editrice Fram’s di Chiaravalle Centrale nella collana “Rosso e nero” diretta dal prof. Pasquino Crupi che è stato il massimo esperto di letteratura calabrese. 

Dunque, La Famiglia Montalbano anticipa i due lavori sulla mafia di Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Il giorno della civetta (1961). Solo più tardi, l’altro illustre scrittore calabrese, Saverio Strati, con il romanzo Il selvaggio di Santa Venere, proporrà racconti di malandrineria.

Saverio Montalto è, dunque, come dicono i francesi, nom de plume.

Nacque a San Nicola di Ardore, nella zona mediana della Locride, il 12 febbraio 1898 e si spense ad Ardore il 7 settembre 1976. Aveva dunque 78 anni quando morì. Faceva di professione il veterinario e passò cinque anni della sua vita, dal 1940 al 1945, nel manicomio criminale di Aversa.

Ma era veramente pazzo? Comunque fu arrestato perché uccise la sorella Anna e ferì suo cognato Giacomo e sua moglie Iva. Una tragedia familiare che lui raccontò in un memoriale.

Una storia di violenza domestica, di sopraffazioni, di tradimenti. Di cattivo sangue, come si diceva a quel tempo. Un accumulo di risentimenti sedimentati dentro arcaici schemi familiari, due famiglie contrapposte, due modi diversi di stare nel consorzio civile di allora. Una famiglia, quella degli Armoni nella descrizione narrativa, estesa e invadente. E l’altra, quella dell’autore, che subisce senza potersi difendere. La figura prorompente di una matrona, la madre di Giacomo, ai cui figli lei concede tutto, anche il diritto di rovinare la vita degli altri. Anche quando si tratta di sua nuora. E poi un malinteso atteggiamento mafioso da parte soprattutto di uno dei suoi figli, Giacomo, che alimenta e prepara l’atto finale.

Dopo il fattaccio, il protagonista-autore del memoriale non rispose alle domande del giudice istruttore, al quale chiese e ottenne di raccontare la sua tragica vicenda attraverso appunto un memoriale. Il manoscritto capitò nelle mani dello scrittore Mario La Cava, che abitava a Bovalino, un tiro di schioppo da dove accadde l’episodio, che capì subito che il testo conteneva un pregevole profilo letterario. Il memoriale fu pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti, con una nota di Alberto Moravia. Montalto si fece subito notare tant’è che collaborò poi con Il Mondo di Mario Pannunzio. Il Memoriale dal carcere, questo il nome del libro, fu pubblicato una prima volta dalla Lerici nel 1957, tradotto anche in inglese, e poi ristampato da Rubbettino nel 1986.

La verità giudiziaria è sepolta negli archivi del tribunale di Catanzaro, città in cui aveva sede l’unica Corte d’Appello della Calabria.

Recita la prima pagina del memoriale:

«Ill.mo Signor Giudice Istruttore di P… durante la mia vita rasentai più volte l’aldilà, ma si vede che il crudo destino mi riservava prove più dure della morte. E, per non annoiare di troppo la Giustizia, vengo subito ai fatti che più di tutti hanno, da tredici anni a questa parte, sconvolto la mia esistenza. Se potessi, veramente, ne farei a meno di raccontare, giacché, al solo pensarle certe cose, sento un freddo agghiacciante nelle vene e che il cuore cessa di battere e che l’anima mia rimane sbigottita e atterrita. Oh, come un giorno agognavo di poter raccontare certi fatti della mia vita con la mente sgombra e serena! Ma i Fati, forse per loro ragioni speciali, non hanno permesso ed io raccolgo le ultime forze che mi avanzano e mi sottometto ancora una volta alle loro imposizioni!

E se non temessi di essere tacciato da pusillanime dal resto degli uomini, oserei affermare che in certi momenti dell’individuo, solo il nulla può essere l’unica ancora di salvezza. Perché, perché mi domando, Tu, o regolatore del Mondo, hai voluto scegliere me per attore a rappresentare una delle più orribili tragedie della realtà?

Non ero parte anch’io del tuo complesso organismo, oppure sono stato uno degli indegni? Non mi sembra, perché anch’io, per la mia parte, ti ero servito al comun scopo di bene!».

E giù le 128 pagine del memoriale-racconto. In esso i nomi dei protagonisti e dei luoghi sono celati o reinventati. Il cognato Giacomo Armoni è in realtà Titta Fazzolari.

Il 28 dicembre 2008 il professor Bruno Chinè intervistò (il testo rinviene nel sito ilpaese.info) lo scrittore e storico Giovanni Ruffo (che all’epoca aveva 15 anni e fu un indiretto testimone di quegli eventi) che così descrisse il fatto di sangue:

“In giro si affermò che il veterinario, che godeva prestigio e rispetto presso i compaesani, esasperato dalle continue prepotenze del cognato, gli aveva sparato per ucciderlo. La sorella si era frapposta tra i due per impedire al veterinario di sparare, ma questi sconvolto dal risentimento non riuscì a frenarsi e colpì la sorella in piena gola forse troncandole la carotide. Visto cadere la sua amata sorella, il veterinario sparò al cognato e alla moglie con la precisa intenzione di ucciderli. Aveva usato l’unica arma che possedeva in casa: una sua vecchia pistola che aveva portato dalla Grande Guerra, nella quale aveva combattuto. Era una pistola di fabbricazione tedesca con munizioni vecchie e mal conservate da sempre. Le pallottole – del genere di quelle volgarmente definite a mitraglia – avevano la punta di piombo scoperta da protezione ed erano rivestite da una leggera lamina metallica. Erano proiettili creati per provocare ferite devastanti e quindi con alte possibilità di uccidere. Gli anni trascorsi nella più completa incuria e l’umidità aveva alquanto deteriorato la loro efficienza e fu questa la ragione che salvò la vita a don Titta e a sua sorella (moglie del veterinario).

La sorella del veterinario (moglie di don Titta) morì perché fu sparata a bruciapelo e colpita in una zona vitale, essendosi frapposta tra suo fratello e suo marito nell’intento di impedire al veterinario (suo fratello) di uccidere il cognato”.

L’episodio cruento accadde il 17 novembre 1940. Così Montalto lo descrisse nel suo memoriale, quando cioè affrontò suo cognato Giacomo Armoni nell’ennesima lite:

«In un attimo mi trovai colla pistola in mano, sbucai nella stanza da pranzo e gridai per intimorirlo di gettare la rivoltella e uscire fuori. Lui diede un urto più forte per divincolarsi dalle donne (la moglie Iva e la sorella Anna n.d.a.) e  io allora lo puntai. Vidi un’ombra distaccarsi per venirmi incontro, ma il colpo era partito. Da questo momento divenni tutto spirito di conservazione e scaricai tutti gli otto colpi della pistola perché davanti a me non vedevo altro che ombre che mi volevano uccidere. Né sono come sono rimasto vivo. Dopo un certo tempo che non so precisare mi sembrava di girare insieme alla casa, ma senza sapere ancora, dove mi trovassi. Poi ebbi come un barlume di coscienza e mi vidi nei pressi del balcone dello studio insieme a mia moglie e mio cognato che si contorcevano e lamentavano vicino a me; e, non vedendo più mia sorella, mi ricordai che prima c’era anche lei presente. Mi slanciai verso la stanza da pranzo e la trovai per terra immobile e supina. Mi buttai, la chiamai, ma non avuto risposta dal suo labro, la baciai freneticamente e scappai in mezzo alla strada».

Aveva ucciso la sua adorata sorella Anna. La creatura a lui più cara. Uno strazio. Era l’epilogo di una tragedia greca.

Su quei fatti ci sono tre verità. Quella giudiziaria. Quella letteraria. Quella popolare. Oggi rimane in vita solo quella letteraria attraverso il libro dell’autore. Fu un raptus o un delitto premeditato? Il dubbio resta a distanza di tempo. E si dice anche, come racconto orale che sfuma nel tempo, che quando Barillaro uscì dal carcere tentò di riconciliarsi con la moglie. Su una cosa però tutti concordano: Saverio Montalto era un uomo molto colto. Una mente fine e sensibile. Al punto di capire, per primo, la pericolosità sociale della mentalità mafiosa. Mettendo ordine anche dal punto di vista lessicale alla terminologia della malavita. Bisogna ricordare che a quei tempi nella provincia di Reggio Calabria la mafia non era chiamata ‘ndrangheta come si chiama oggi in Calabria e nel resto del mondo ma “maffia”, con due effe. Anche Mario La Cava nelle sue opere la chiama “maffia”. E nel memoriale di Saverio Montalto c’è traccia di questo dettaglio.

Lo stesso Mario La Cava, che teneva una rubrica “Cultura e Società” all’interno del settimanale Calabria oggi diretto da Pasquino Crupi, nel primo numero del 1974, scrisse a proposito di Saverio Montalto: «Volete leggere un romanzo che si legga di un fiato, che abbia cioè una forza narrativa tale da costringervi a seguirlo dal principio alla fine con costante interesse e piacere? Leggete La Famiglia Montalbano di Saverio Montalto. Egli non è uno scrittore di professione. Guardatevi, però, dagli scrittori di professione, se non volete morire di noia. Mi riferisco, certo, agli scrittori di professione che sono solo “letterati”. Saverio Montalto viene dall’arte dello scrivere da un ripiegamento naturale dell’animo, dopo una vita tempestosa. Conosciuto per il Memoriale dal carcere, scritto nel 1940 per sua difesa…».

Quanto a La Famiglia Montalbano, aggiunge La Cava, «Si tratta di un romanzo di mafia; e ben si può dire che esso sia di parecchi anni in anticipo sull’interesse che molti scrittori italiani hanno dimostrato per tale argomento. Ovviamente si tratta di una mafia di campagna, scaltrita sì alla scuola di quella americana, ma non innalzata ancora al livello della tecnica moderna; in ogni caso, ugualmente perfida e opprimente». Il realismo picaresco di Montalto. Comunque la trama de La Famiglia Montalbano è stata tracciata da Crupi in un’edizione per le scuole medie de La Letteratura calabrese. 

Che Andrea Camilleri si sia ispirato a Saverio Montalto per dare nome al celebre commissario Montalbano? Rovesciando i ruoli, ovviamente.

Forse è una curiosa coincidenza.

[Courtesy Il Quotidiano del Sud]

Roberto Napoletano, il cavaliere bianco e l’avventura calabrese

di PINO NANO – Il 10 aprile 2019 è il giorno in cui inizia di fatto l’avventura “calabrese” di Roberto Napoletano. 

L’ex direttore di Sole 24 Ore assume infatti la direzione editoriale del Quotidiano del Sud, e vara contestualmente l’edizione nazionale della testata che fino ad allora si strutturava esclusivamente su base regionale con edizioni in Calabria, Basilicata e Campania. L’edizione nazionale, dal titolo L’Altravoce dell’Italia, si caratterizza oggi per una connotazione fortemente orientata ai temi del Meridione, offrendo una interpretazione – precisa lo stesso direttore – in chiave meridionale dei fatti di cronaca, di economia, di attualità dell’Italia e del mondo. Insomma, una vera e propria sfida professionale per lui, assolutamente nuova rispetto alle precedenti, e in cui coivolge esponenti di spicco del mondo del giornalismo italiano ma anche dell’economia, della cultura e della società civile italiana.

Classe 1961, figlio di genitori avellinesi, nato a La Spezia, cresciuto in Liguria, ancora giovanissimo si trasferisce a Napoli, e qui diventa giornalista professionista nella redazione de Il Mattino.Da questo momento tutta la sua vita futura sarà contrassegnata da una carriera brillantissima. Da lunghi anni ormai Roberto Napoletano viene considerato un giornalista economico tra i più accreditati del Paese, grande esperto di finanza e di mercati internazionali, per lunghissimo tempo alla guida di Sole 24 Ore, e poi ancora docente all’Università Luiss Guido Carli di Roma, e infine amico personale coccolato e ammirato dai più grandi economisti europei.  

Dopo aver diretto grandi giornali nazionali come Il Messaggero e Il Sole 24Ore, dal 10 aprile del 2019 Roberto Napoletano firma dunque come direttore responsabile l’edizione nazionale de Il Quotidiano del Sud, e la proprietà preannuncia il suo arrivo al giornale calabrese con uno slogan che in quelle settimane farà il giro delle redazioni giornalitiche di tutta Italia: “Il Quotidiano del Sud, una bandiera. Un megafono. Per un Sud che non tace e vuole pensare in grande. Un Sud come non l’avete mai letto, mai sentito, mai visto. Che alza la voce, se necessario grida”. Promessa che nei fatti il direttore Roberto Napoletano ha mantenuto fino in fondo, sin dal primo giorno del suo arrivo alla Testata,  con una forza e soprattutto con un linguaggio giornalistico deciso efficace moderno e senza nessuna riserva o reticenza verso nessuno. 

Nessun senso di inferiorità soprattutto. Verso nessuno. Anzi, ogni giorno è un editoriale diverso, e ogni giorno è una nuova lezione di stile e di comportamento istituzionale ai poteri locali che governano il Sud, editoriali che il più delle volte sembrano una sferzata  violenta, dai toni dissacranti e blasfemi, ma nulla nel suo caso accade per stupido spirito di rivalsa professionale. Semmai, invece,è perché l’uomo è capace di letture analisi schemi e riflessioni economiche di alto respiro, e che sono la sua vera forza professionale. Forse, anche, il segreto per niente scontato del suo successo. 

Giornalista e soprattutto scrittore.Tra i suoi libri ricordiamo  Se il Sud potesse parlare (2001), Padroni d’Italia (2004), Fardelli d’Italia (2005), Promemoria italiano (2012), Viaggio in Italia (2014). Nel 2017, per La nave di Teseo pubblica Il cigno nero e il cavaliere bianco (3 edizioni, 12.000 copie), diventato poi uno spettacolo teatrale in tournée in tutta Italia. L’anno successivo dà alla luce Apriamo gli occhi. Perché i nostri risparmi sono in pericolo (2018).  Da oggi in libreria c’è anche Mario Draghi. Il ritorno del Cavaliere bianco (2021), un romanzo politico da non perdere e di cui parleremo a lungo con lui.

Questo è oggi in estrema sintesi la storia professionale di Roberto Napoletano, che appena arrivato al giornale sceglie come suoi diretti “consulenti”, affidando loro le classiche rubriche della testata, personaggi prestigiosi come Pietrangelo Buttafuoco, Giorgio Dell’Arti, Paolo Guzzanti, Giovanni Minoli e Alberto Negri. È il trionfo del local che però in questo caso diventa anche global.

Nei mesi scorsi a Villa Borghese, a Roma, alla presentazione ufficiale del suo ultimo libro Mario Draghi. Il ritorno del Cavaliere bianco e che Roberto Napoletano ha interamente dedicato alla vita e alla storia pubblica di Mario Draghi, attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, c’era tutto il bel mondo romano. C’era  soprattutto quel mondo Vip che per via della pandemia in questi mesi passati sembrava essersi volatilizzato nel nulla, e che in questa occasione si è invece ritrovato per intero, come ai vecchi tempi, evento più mondano che letterario, ma sono queste le regole dello show business.

Mario Draghi. Il ritorno del Cavaliere bianco, dunque, una biografia inedita e personalissima di Mario Draghi, ma soprattutto un racconto quasi “intimo” del Presidente del Consiglio che il Paese in questi mesi ha imparato ad amare più di quanto non abbia fatto in passato con leaders politici apparentemente più carismatici di lui.  È tutto questo, e per la verità molto altro ancora, questo libro edito da “La Nave di Teseo”. 

Ma partiamo dalla premessa di fondo. Roberto Napoletano in questo suo saggio, che lo riconferma grande analista politico della storia della Repubblica, ci avverte subito del rischio che il Paese corre.

«Prima vi dirò qualcosina in più su chi è il Cavaliere bianco. Alla fine della lettura, almeno spero – sottolinea – vi sarà anche chiaro perché la carta estrema messa sul tavolo con intelligenza politica dal capo dello stato, Sergio Mattarella, non può fallire e quanto sia interesse di tutti che ciò non avvenga. Perché è necessario che scatti la mobilitazione delle persone intorno alla nuova ricostruzione e al nuovo De Gasperi. Si chiama Mario Draghi ed è l’asso calato da Mattarella. Appunto, la carta estrema. Che, per definizione, è anche l’ultima carta».

“Chi è realmente, dunque, Mario Draghi?” Alla domanda puntuale che gli viene dallo scrittore Pietrangelo Buttafuoco Roberto Napoletano risponde  con le “certezze assolute” che si porta dentro, e che sono poi il vero leit motiv di questo suo nuovo libro.

«Mario Draghi – dice Roberto Napoletano – ha una qualità che viene prima di tutte. Guarda al sodo. Che vuol dire la sostanza delle cose sfrondata dai dettagli. Non usa mai frasi ampollose o termini che non si capiscono. Se lo senti, sai cosa pensa. Gli italiani stanno cominciando a conoscerlo».

Un Mario Draghi inedito, dunque, questo che Roberto Napoletano racconta in maniera appassionata, a tratti forse anche eccessivamente coinvolgente e avvincente, scrittura la sua molto personale e piena di passione privata per il protagonista prescelto, quasi un romanzo dove il bianco prevale sul grigio e dove il nero pare non esistere nella gamma dei colori dell’autore, una sorta di “saggio filosofico dedicato ad uno dei potenti della terra” e di cui Roberto Napoletano sembra esserne profondo conoscitore ma anche fan e grande estimatore. 

Grande scuola di scrittura.

«Ho sorriso molto nei primi giorni del governo Draghi – racconta candidamente Roberto Napoletano –. Mi veniva naturale quando sentivo le comparse a gettone della compagnia di giro del talk italiano, e i soliti analisti politici che si occupano di tutto ciò che non interessa le persone, ripetere una sera sì e l’altro pure che Draghi prima o poi avrebbe dovuto parlare e ne avremmo viste delle belle. Perché una cosa è fare il banchiere centrale, un’altra è governare, pontificavano. Perché una cosa è comunicare da banchiere centrale una cosa farlo da capo del governo, strapontificavano. Non vi preoccupate, conosco i miei polli! Sono i cantori del nulla italiano e vivono nel loro piccolo mondo autoreferenziale dell’irrealtà, ai loro occhi figure come Einaudi, Carli, Ciampi, Draghi non hanno la “sensibilità” della politica che coincide con l’unico copione che conoscono, che è quello del retrobottega».

Ecco allora che Mario Draghi, grazie a questo saggio così trascinante e più che mai ancorato alla realtà del momento che viviamo, si materializza e diventa come d’incanto Il Cavaliere bianco, personaggio affascinante, menestrello esclusivo, attore protagonista, intelligenza viva ed eclettica, figura di primissimo piano sulla scena, filosofo e demiurgo insieme, insomma pietra miliare di una favola modernissima che vede al centro del racconto di Roberto Napoletano un Paese in evidente ripresa e con mille prospettive di crescita reale. 

Il Passaggio dalla scrittura emozionale all’analisi economica a cui Roberto Napoletano ci ha abituati da tempo, qui è davvero quasi impercettibile, assolutamente magistrale, ma è questo che fa di questo suo ultimo libro una lezione e una testimonianza giornalistica di grande impatto mediatico.

«Mario Draghi – è questa una delle “certezze assolute” che Roberto Napoletano dichiara candidamente ai suoi lettori – ha l’ammirazione dei professori e dei premi Nobel, ma è diverso da loro perché a lui quella stessa formazione culturale che molto spesso è analisi empirica serve per fare le cose, non per guardarsi l’ombelico e dirsi “quanto sono bello”». 

Forte, non credete? Ma qui il grande giornalista dice ancora di più: «A Mario Draghi tutto questo serve per decidere. A volte sbaglia, solo chi non fa non sbaglia, molto più spesso la indovina, ma il metodo è sempre lo stesso. Quello della competenza tecnica utilizzata per decidere, non fine a sé stessa». Un’elegia vera e propria.

Ma sono tante le domande che il direttore pone a sé stesso nel corso di questa sua nuova avventura letteraria. 

Perché il Cavaliere bianco, che ha salvato l’euro e l’Italia dal suo Cigno nero del 2011, viene chiamato esattamente dieci anni dopo dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, a disincagliare il Titanic Italia? 

Perché viene indicato come il primo attore politico della nuova Europa e ha la stima dei grandi leader internazionali? Che cosa può significare tutto questo per un paese che da vent’anni ha crescita zero?

« Non so se nella comunità nazionale – chiarisce il Napoletano – c’è fino in fondo la consapevolezza del credito personale a livello internazionale che Draghi ha conquistato in Europa e fuori dall’Europa. Questo credito, che riguarda la persona, può fare molto bene all’Italia anche perché l’Italia, benché non lo diciamo mai o lo diciamo poco, è scesa nel rating mondiale, viene da 20 anni di crescita zero e fa anche un po’ meno paura. Si è quindi più disposti, com’è successo all’ultimo G7, a riconoscere a Draghi qualcosa in più. Questo a noi ritorna come credibilità del Paese e può ritornare se si segue il suo metodo, quello di far diventare l’Italia un paese normale”.

Ci sono altre domande? Avrà mai Mario Draghi la forza persuasiva per cambiare il modello della politica italiana e il dibattito pubblico che lo ha generato? Per animare la ripartenza economica e sociale dopo la pandemia? 

Roberto Napoletano, che ha raccolto con Alessandro Merli l’unica intervista rilasciata a un giornale italiano da Mario Draghi in otto anni di presidenza della BCE, ci restituisce la figura di un premier che vuole essere trattato alla pari, che ascolta tutti, ma che sa prendere le decisioni importanti al momento giusto. 

«Mario Draghi – è questa la grande vera certezza di Roberto Napoletano – è uno di quei tecnici che appartengono alla Politica con la P maiuscola, nata e cresciuta nella grande scuola dell’interesse generale che è stata da sempre la Banca d’Italia. Fucina di Capi di Stato, presidenti del Consiglio, ministri dell’economia che hanno lasciato il segno nella storia del Paese. Ciampi è riuscito a ricoprire tutti e tre i ruoli e ha saputo parlare al cuore degli italiani. Nel caso di Draghi, poi, la scuola dell’interesse generale è diventata addirittura europea, dove l’autonomia coraggiosa della funzione monetaria, la americanizzazione della Banca centrale europea e le ragioni più nobili della politica si sono saldate in una sola persona».

In questo suo saggio Roberto Napoletano racconta anche, e spesso anticipa, come si muoverà il Cavaliere bianco, chi lo aiuterà, che cosa lo collega a Ciampi e che cosa a De Gasperi, e quanto infine gli gioveranno le sue capacità di ammaliatore.

«Commentando i giudizi di certi osservatori politici su Draghi nella fase in cui si prospettava la sua scelta alla guida del Governo, con un banchiere che lo conosce molto bene – dice il Direttore – mi è rimasta impressa una frase: “Non hanno capito niente, in dieci minuti di colloquio Draghi può sfilarti i calzini senza toglierti le scarpe chiunque sia il suo interlocutore”. Come dire: se vuole è un ammaliatore, può troncare con garbo dopo pochi minuti perché non si sente in sintonia ma può anche farti sentire importantissimo. Di sicuro ascolta sempre, trattenendo la sostanza con velocità, e conosce come pochi le regole della comunicazione».

Nessuno lo avrebbe mai immaginato, ma dal racconto che Roberto Napoletano ne fa in questo libro, viene fuori un Draghi inedito, pieno di umanità, di spirito di servizio, di grande disponibilità umana, e non solo di competenze di altissimo profilo economico e istituzionale, quasi un Draghi “ragazzo”, autoironico,sentimentale, e  che sa anche diventare l’amico della porta accanto di ognuno di noi, o meglio ancora l’amico più severo e più caro della nostra vita.

– Direttore, c’è dunque da fidarsi fino in fondo di Mario Draghi? 

«Ho chiesto a Claudia Ferrari, che ne è stata l’assistente in otto anni di presidenza della BCE, un aggettivo per definirlo, ha risposto all’istante: “Integerrimo”. Che è un modo per dire che sceglie sempre per il meglio, non tra gli amici degli amici. Che ha rispetto delle regole e non lascia le cose non dico a metà, ma neppure a tre quarti o a quattro quinti. “Onorato, non disponibile”, così Draghi ha detto no alla guida del Fondo monetario e alla presidenza della Commissione europea. Ha voluto portare a termine il suo mandato alla BCE con la stessa attenzione con cui lo ha iniziato. Posso aggiungere io che, avendolo sentito nei passaggi chiave delle Grandi Crisi, mi è rimasta dentro una essenzialità espressiva che è esaustiva. Perché arriva subito al cuore del problema. Diciamo che toglie naturalmente la fuffa ed evidenzia naturalmente la sostanza».

– Riuscirà alla fine, Mario Draghi, a fare dell’Italia un paese normale, che tornerà ad avere il peso di fondatore in Europa e contribuirà a scrivere le regole del nuovo multilateralismo post-pandemia? 

Su questo, Roberto Napoletano confessa ai lettori il suo vero grande dubbio, ma lo scrive con la sua estrema chiarezza ed efficacia.

«Il pericolo più grande che corre oggi Draghi è che lo si carichi così tanto di aspettative da ritenere che possa risolvere tutti i problemi in un battibaleno. In realtà lui, anche questa volta, sta guardando al sodo. Sa che deve fare bene due cose, Piano vaccini e Recovery Plan, e lì è tutta la sua concentrazione. Nel primo caso ha messo sotto pressione tutti in casa e in Europa. Al posto delle Primule c’è l’esercito, le Regioni hanno capito che la musica è cambiata, le regole ora ci sono e la rottura non ci sarà perché si bada alla sostanza e bisogna correre. In Europa ha fatto emergere il doppio gioco delle case farmaceutiche e gli errori della commissione, sono venuti fuori i ritardi tedeschi e francesi che sono, come quelli italiani, sulla logistica e sulle quantità dei vaccini, si è vista una leadership concreta che incide sulle cose. Questo è Mario Draghi».

Ma ancora più affascinante è l’idea che il giornalista di lungo corso ha del rapporto tra Mario Draghi e l’Europa.

«Sono passati più di dieci anni da quando un Ciampi rabbuiato continuava a ripetermi che serviva un nuova Bretton Woods. All’epoca ci fu Keynes e dalla forza del suo pensiero non nacque solo la nuova impalcatura globale, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, ma ne scaturì anche il piano Marshall. Oggi alla guida del G20 c’è Mario Draghi che siamo certi saprà imprimere a quei lavori la visione e la forza che ha avuto nella guida della Banca centrale europea. Ci piace molto pensare che come è accaduto a Francoforte con la politica monetaria espansiva e molto altro sia ancora Draghi a realizzare il sogno di Ciampi».

– Direttore, ogni giorno sul suo giornale lei immagina una crescita possibile del Mezzogiorno. Ma ci crede davvero?

«Certo che ci credo. Ma è per questo che penso che non si può andare avanti con un sistema nazionale che fa figli e figliastri nei diritti di cittadinanza e un sistema regionale svuotato di risorse e parassitario nell’utilizzo di quel poco che ha per la spesa sociale e per gli investimenti pubblici. Non si può andare avanti con lo scempio del mancato utilizzo dei fondi comunitari per decine e decine di miliardi senza che nessuno dei Capi delle Regioni inadempienti, paghi dazio e venga esposto al pubblico ludibrio». 

–C’è una alternativa, direttore?Pensiamo per un momento ad una regione come la Calabria…

«Io credo che lo Stato debba tornare e dimostrare che la musica è cambiata, non che continua invece a fare interventi di facciata e cumuli danni moltiplicando inefficienze e spirito di rassegnazione al non fare o a molto peggio. Penso alla Calabria e mi viene in mente la sanità. In Calabria per mille ragioni non si può perdere più neppure un giorno, si devono sentire la testa e il cuore dello Stato. Sottovalutare questo problema e sottrarsi alle proprie responsabilità significa stroncare sul nascere il sentimento diffuso di riscatto di cui la Calabria, e con essa il Paese, ha oggi vitale bisogno. La scintilla della rinascita o scatta qui o molto difficilmente attecchirà altrove. Perché potranno piovere dal cielo europeo tutti i soldi che desideriamo, ma a che serve tutto ciò se non siamo capaci di spenderli bene e presto? A nulla, sì, proprio a nulla».

– Leggo che ha condiviso molto la recente presa di posizione del sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. 

«Il sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, ha avviato le procedure per sollevare davanti alla Corte Costituzionale la questione dell’uguaglianza negata dei diritti di cittadinanza. È il primo degli amministratori del Mezzogiorno che fa quello che il mio giornale chiede da più di due anni ai Presidenti delle Regioni meridionali che, a differenza del sindaco, potrebbero fare direttamente ricorso alla Consulta. Vogliamo rendergliene onore aprendo il Quotidiano del Sud-l’AltraVoce dell’Italia con la sua iniziativa, sperando che rossore e vergogna per l’ignavia complice si dipinga sui volti dei Capi delle Regioni del Sud, sceriffi o meno che siano, che dovranno rendere conto alla loro coscienza prima ancora che ai loro elettori del perché di questa prolungata latitanza dalle loro responsabilità.

– Sbaglio o ce l’ha con il Governatore della Campania De Luca?

«L’osservazione è semplice. Che cosa impedisce alla manina dello sceriffo De Luca, Capo della Regione Campania, di prendere una biro e di firmare il ricorso alla Corte Costituzionale, in presenza per di più di un governo Draghi che per la prima volta da venti anni in qua ha dato alle Regioni del Sud il 50% delle risorse per il trasporto pubblico locale? Perché lui come Musumeci, Capo della Regione Sicilia, solo per fare qualche esempio, si sottraggono alle loro responsabilità e non chiedono alla massima magistratura del Paese di ristabilire in modo strutturale, e per sempre, il rispetto dell’uguaglianza dei diritti di cittadinanza tra abitanti del Sud e del Nord prevista dalla Costituzione? Perché si nascondono? Perché dimostrano nei fatti di prendere ordini supinamente da chi comanda fuori dalla Costituzione, e ipoteca in modo miope il futuro del Paese?» 

– Non le pare ingeneroso direttore nei loro confronti?

«Lei lo pensa davvero? Vogliamo continuare a prendere in giro le donne e gli uomini del Sud, come fa il meridionalismo della cattedra, incitando a chiedere di saldare questo conto dove non può essere saldato e, cioè, all’interno del Recovery Plan italiano? Che si propone, invece, di attuare la più colossale operazione meridionalista ma ovviamente nel campo degli investimenti infrastrutturali e immateriali che devono dare al Sud il contesto ambientale produttivo fino ad oggi negato? Che non può essere confuso con il riequilibrio dei trasferimenti della spesa sociale che deve, invece, avvenire all’interno del bilancio pubblico nel rispetto dei principi costituzionali e delle ragioni minime di solidarietà che tengono insieme un Paese? Diciamo le cose come stanno. Abbiamo documentato voce per voce l’abnorme disparità nella spesa pubblica pro capite nei servizi sociali, nella scuola, nella sanità e nei trasporti tra un cittadino della Calabria e un cittadino dell’Emilia-Romagna. Sono numeri che fanno accapponare la pelle e che non abbiamo neppure voglia di ripetere. Abbiamo documentato voce per voce ogni dato sulla base dei rendiconti della Corte dei Conti, dell’Istat e della Ragioneria generale dello Stato.Le sembra poco?»

– Come se ne esce, direttore?

«Vede, l’Italia si farà se avrà il suo Mezzogiorno industrializzato, ammoniva Morandi, partigiano, uomo del Nord e grande meridionalista, negli anni della prima Ricostruzione dopo la lunga stagione delle dittature e la seconda guerra mondiale.La pensavano così anche Vanoni da Morbegno, provincia di Sondrio, il siculo-valtellinese Saraceno, l’irpino Pescatore, il foggiano Menichella, per la precisione di Biccari, grandi uomini del Nord e del Sud che appartengono al meridionalismo del pensiero e del fare del Dopoguerra nelle stagioni chiave del centrismo degasperiano e del primo centrosinistra a guida fanfaniana. Siamo alla nuova Ricostruzione, è passato ben oltre mezzo secolo, e siamo ancora lì». 

– Amara come considerazione, non crede?

«Diciamolo con chiarezza. Stiamo facendo i conti con la lunga stagione delle illusioni sovraniste e del populismo della menzogna che hanno prodotto il mondo della irrealtà e preparato un brusco risveglio. Il nuovo ’29 mondiale da pandemia globale, che segna i nostri giorni e ha prodotto danni superiori a quelli cumulati dalle due Grandi Crisi internazionali, mette a nudo fragilità, ipocrisie e gattopardismi vari.Ci ricorda, moltiplicando al cubo danni economici e diseguaglianze, il cumulo trentennale di errori italiani che hanno nel federalismo regionale della irresponsabilità di sicuro la prima delle ragioni del declino strutturale del Paese e dell’abnorme crescita delle sue distorsioni territoriali tra Nord e Sud».

– Servirà una vera e propria rivoluzione allora?

«Mi piace ricordare a me stesso che la coerenza meridionalista degasperiana si nutriva di fatti piccoli e grandi, e della fiducia contagiosa che ne discendeva». 

– Me lo spiega meglio?

«Perché le cose avvengano, bisogna incidere giorno dopo giorno. Bisogna mediare, ma decidere. Bisogna decidere, non rinviare. Evitare che nella calura estiva di agosto tutte le trombette della propaganda dei partiti si mettano a strimpellare i loro motivetti sulla riforma delle riforme che è quella della giustizia e impedire alla Commissione europea di dovere constatare che l’Italia resta il grande malato d’Europa per la sua cronica incapacità di decidere, sono due fatti che dimostrano che i governi non vanno misurati per la durata ma per la qualità delle decisioni che prendono e la durata dei loro effetti».

– Come legge in questo quadro di insieme la riforma Cartabia?

«La riforma della giustizia Cartabia del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi è chiaramente il frutto di un compromesso, ma dimostra alla comunità italiana e alla comunità degli investitori globali che il Paese ha deciso di cambiare e vuole rispettare il cronoprogramma di riforme del Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Che vuol dire non occuparsi di soldi ma di tutto ciò che è indispensabile per spendere, e bene, i soldi europei disponibili e per attrarne infinitamente di più dalla comunità degli investitori globali».

– Non è molto poco tutto questo?

«Assolutamente no. La riforma Cartabia appena approvata dimostra che il governo Draghi vuole cambiare la pubblica amministrazione e il modo di fare giustizia in Italia. Perché se ciò non avviene, il Paese non riavrà mai la sua macchina degli investimenti pubblici che funziona e non potrà mai neppure pensare di realizzare la riunificazione delle due Italie. Ecco perché, avendo dato un regime speciale ai processi di mafia che ha una sua logica, il compromesso sulla giustizia raggiunto da questo esecutivo di unità nazionale è importante anche se risente della lentezza culturale del Paese. Che è la sintesi del lungo sonno della ragione nel ventennio miope della dissoluzione federalista che impedisce di capire che la civiltà giuridica mondiale pone al primo posto la brevità dei suoi processi».

– Sostanzialmente è un giudizio positivo?

«Il fatto fondamentale è che il governo Draghi rispetta la regola aurea della coerenza meridionalista, che è il riformismo concludente, ignorata purtroppo da tutti gli osservatori del Mezzogiorno presi da calcoli quasi sempre sbagliati su percentuali e altri catastrofismi che ingigantiscono il dito e impediscono di vedere la luna».

– Cosa intende dire, direttore?

«Il caso vuole che il consueto rapporto annuale della Svimez sia stato reso noto in queste settimane, e documenti con la tradizionale dovizia tutti i numeri del ritardo del Mezzogiorno, diventato a sua volta così contagioso da avere attecchito praticamente in quasi tutte le regioni del Centro Italia e, a sorpresa, in più di una delle regioni del Nord, a partire dal Piemonte. Questo conferma un’analisi condivisibile che non possono da sole Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia rappresentare la carta di identità di un’Italia che riparte. In questo hanno ragione, perché così non può essere. Dove, però, qui come altrove, si ingigantisce il dito e si annulla la luna, è che ci si rifiuta in modo aprioristico di cogliere il valore che non può uscire dai modelli econometrici di un Paese che ha deciso di cambiare ponendo al centro del suo grande progetto di sviluppo l’obiettivo strategico della riduzione delle disparità territoriali e che, forte di questi risultati in casa, ha in Draghi l’uomo giusto perché l’Europa della coesione sociale e, nel lungo termine, della condivisione dei debiti finalmente prevalga».

– E lei crede che alla fine prevarrà questo progettodi coesione sociale?

«Non cogliere questo momento della storia è la più grave delle cecità perché impedisce alla comunità meridionale di cogliere il frutto più bello della rinnovata coerenza meridionalista degasperiana. Quello di mettersi a fare e di farlo bene in modo contagioso, come avvenne nel Dopoguerra negli anni della prima ricostruzione. Perché oggi ci sono i soldi che prima non c’erano in questa misura, e si opera per dotare il Paese della macchina pubblica della amministrazione e della giustizia rinnovate al meglio possibile nella situazione data».

– Quali sono gli strumenti necessari per la rinascita del Sud e in cui lei mi pare creda così profondamente?

«Servono prima di tutto la voglia di mettersi in discussione e l’orgoglio contagioso di un Sud che vuole dimostrare a se stesso e agli altri che ha il talento e la determinazione di organizzarsi e di guidare il processo della Nuova Ricostruzione. Noi sappiamo che li possiede, e continuiamo a crederci, e a chiederlo. Perché sappiamo che il momento della storia esige questo. Esige di guardare la luna, non il dito».

– I Fondi in arrivo dall’Europa, direttore, basteranno alla crescita del Sud?

«Io credo che il Pnrr sia un’occasione meravigliosa per provare a ricostituire, per la prima volta dopo tanto tempo, un’alleanza virtuosa tra centro e periferie. Non più pensare a incentivare l’interesse della tua repubblichetta, ma vivere piuttosto l’interesse della tua repubblichetta come un pezzo della ricostruzione del Paese e di qualcosa che resta nella storia. Da questa operazione di Nuova Ricostruzione tutta l’Italia può, anzi deve, uscire, più importante e tutto ciò deve avvenire grazie a tutti noi, grazie al pezzo che ognuno di noi ha fatto, grazie a cose che accadono». 

– Non sarà facile?

«Stiamo parlando di una rivoluzione copernicana. Bisogna tornare a capire che la ministra Cartabia è un’espressione della nazione, poi è milanese, come Daniele Franco è il ministro dell’Economia e poi è di Belluno. Bisogna tornare ai tempi in cui De Gasperi era il contributo che Trento dava all’Italia.Se ritroviamo questo spirito, forse, anche il talk a reti unificate della propaganda sul nulla recupererà un’agenda più dignitosa e gestiremo meglio le sindromi reali e presunte della nuova variante Delta».

– Lei crede molto nella “collaborazione”? 

«Perché la straordinaria occasione di rifare il Paese fornita dal Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza passa proprio di qui. Passa da questa collaborazione che oggi non c’è e che il governo Draghi sta con lucidità operando perché ritorni». 

– Come sarà possibile farlo?

«Attraverso le riforme di sistema già approvate, ma da attuare, e ancora di più consolidando la rete di monitoraggio dei singoli provvedimenti e della loro esecutività centrale e regionale. Il punto, però, è che qualcosa di importante deve ancora scattare nello spirito di nazione da parte di tutti. Per rompere il circolo vizioso delle oligarchie serve, forse, ricostituire un mercato nazionale delle burocrazie». 

– In che senso direttore?

«Il problema, almeno quello più grave, è nato anche chiudendo il mercato delle competenze, chiudendo i territori nelle mani dei loro mandarini e dei loro burocrati di fiducia, facendo sì che a nessuno di questi passi neppure per la testa di imparare qualcosa in più o di aspirare a una crescita a livello nazionale.Si è perso negli anni il senso della confraternita di un Paese e di uno spirito di coalizione dove tutti si sentano ruote di un unico meccanismo nazionale. Anche di più, direi».

– In questi mesi sul Quotidiano del Sud lei ha dedicato molte analisi sulle crepe della sanità in Calabria, ma le colpe maggiori di chi sono?

«Sono molteplici. È passato per esempio quasi sotto silenzio, ma una sentenza della Corte Costituzionale ha parzialmente bocciato il decreto “salva-sanità” della Calabria del governo giallo rosso. Dice che lo Stato non sta facendo lo Stato. Ha nominato l’ennesimo commissario ad acta ma non ha consentito al commissario di dotarsi di quelle professionalità indispensabili per cambiare il modo di lavorare della sanità regionale e sottrarlo allo stesso tempo dal giogo di quelle influenze ambientali che sono una parte rilevante dell’origine dei suoi guai». 

– È per questo che dalle colonne sel suo giornale lei ha chiesto con forza le dimissioni del ministro della sanità?

«Ho semplicemente osservato che gli alibi sono finiti, che il colpevole dell’aggravarsi delle condizioni della sanità in Calabria è il ministro Speranza, non altri. Tocca a lui, non ad altri, vigilare sull’operato tecnico non contabile del commissario. So bene che il commissario lo nomina il Ministero dell’economia, ma di concerto con il Ministero della salute che è l’interlocutore primario sui temi essenziali del suo mandato. Tocca a lui, non ad altri, la rappresentanza di quello Stato che deve stabilire nuovi criteri e sancire parità di diritti, stimolare l’assunzione di professionalità nuove e delineare la nuova organizzazione. Ma lui non lo fa, pensa a altro, continua a lavarsi le mani come un Ponzio Pilato qualsiasi. Basta!Non crede? Al Ministro Speranza, tacere non è più consentito.Metterebbe a rischio la reputazione del governo Draghi come soggetto attivo di cambiamento nella gestione della macchina pubblica e alimenterebbe per di più quello spirito di rassegnazione sempre al peggio che è il punto iniziale e finale della grande questione calabrese dietro la quale si staglia nitida la grande questione irrisolta delle due Italie».

– Direttore, come immagina il futuro dei nostri ragazzi al Sud?

Bello, come lo è stato il nostro.Nel mio libro quando parlo del Cavaliere Bianco non racconto solo Mario Draghi, ma intimamente immagino sogno e ipotizzo per questo nostro Paese un riscatto possibile e realizzabile.Se non fosse così allora avremo fallito il nostro compito.Non crede? 

– Auguri, Direttore.

«Auguri a tutti voi. Auguri soprattutto al Sud del Paese».

Elena Sodano – Un grande cuore per la cura dell’anima

di PINO NANO – Qualcuno la vorrebbe “Donna dell’anno”, ma a Catanzaro c’è già chi la chiama l’ “Eroina del Covid”. Nata a Catanzaro 56 anni fa, il 21 febbraio 1965, sposata e madre di due ragazzi, Rachele e Giuseppe, oggi Elena Sodano viene premiata sulle piazze di questa folle estate calabrese come una “testimone del nostro tempo”.

La foto forse più emblematica che ci fa vedere la ritrae accanto al Procuratore della Repubblica Nicola Gratteri a cui Elena consegna idealmente le chiavi della sua bella “Comunità terapeutica”. Conosco Elena Sodano da almeno 40 anni, da quando lei faceva la giornalista a tutto campo, prima a Vuellesette-Cinquestelle poi alla Gazzetta del Sud, dove ancora lavora occupandosi principalmente di temi sociali, e se allora avessi dovuto immaginare il futuro di Elena avrei detto “diventerà una grande cronista”. Giornalista moderna, preparata, veloce, riflessiva, capace di grandi inchieste TV ma anche brava nel ricostruire sulla carta stampata grandi eventi e grandi fatti di cronaca,sembrava che il suo futuro fosse già segnato, quasi obligato, per giunta in una regione dove non era facile conciliare una buona scrittura con una presenza  forte come lei appariva in televisione. Ricordo che era così determinata e immediata che qualcuno in quegli anni, pensò anche di candidarla in politica, ma allora i partiti erano così ben strutturati e granitici da non permettere “voli pindarici e bizzarri”. E così Elena continuò per anni a scrivere, e soprattutto a raccontare la Calabria dagli schermi della televisione dei Grandinetti di Lametia Terme .

– Elena che famiglia hai alle spalle?

«Mio marito lavora come educatore in un centro di recupero per tossico dipendenti e divido con lui la mia vita da 27 anni. 24 anni solo di matrimonio. Sono figlia unica di due genitori che seppur anziani sono sempre indaffarati in mille cose. Mia madre presa dalla sua passione per le piante, gli animali e il cucito, mentre mio padre è appassionato di macchine, moto, motori, carpenteria, sai come si vive da queste parti. Di poco e di mille cose insieme. Io vivo in casa con tre cani, di cui un Lupo cecoslovacco e un meticcio completamente cieco. Ho una grande passione per le piante grasse, curo le mie amate orchidee come dei bambini, e poi i miei libri, che hanno favorito i miei sogni di bambina e di ragazza poi”».

– Da giornalista di grande talento, a cos’altro? 

«Dopo la mia Laurea in Lettere e Filosofia, indirizzo Dams all’Università della Calabria  a Cosenza, ho preso a Roma una Laurea magistrale in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Ma non sono una psicologa, in quanto non ho mai fatto, per scelta, l’esame di Stato per l’abilitazione. In fondo volevo fare quello che in effetti sto facendo ora. Volevo creare “Luoghi ideali” per curare meglio ammalati complessi».

Alle spalle Elena Sodano ha un curriculum di tutto rispetto.Un corso di specializzazione Triennale in Scienze della Comunicazione all’Università di Camerino, due Master di Secondo Livello,il primo in “Governance e Management Sanitario”, il secondo in“Neuropsicologia Clinica”, ma nel 2010 trova anche il tempo per prendere il diploma come “Danzaterapeuta”, e sette anni dopo esordisce con un saggio dal titolo Il Corpo nella Demenza: La terapia Espressiva Corporea Integrata nella malattia d’Alzheimer e nelle altre demenze (Maggioli editore, Sanità 2017) che nei fatti la consacra “Creatrice del metodo terapeutico Non Farmacologico per la cura delle Demenze TECI  Terapia Espressiva Corporea Integrata”.

– Elena, da dove partiamo? 

«Dalla prima cosa che la gente forse vuole sapere. Cosa faccio nella vita? Bene, mi piace definirmi una “Imprenditrice della Cura dell’anima”. Perché ogni persona ammalata vorrebbe e dovrebbe essere oggetto di cura, e il mondo sarebbe un luogo molto migliore se tutti noi ci curassimo di più, gli uni degli altri. Il mio slogan è questo: “La cura protegge la vita e coltiva la possibilità di esistere”». 

– Partiamo allora dall’inizio della tua nuova attività di “imprenditrice della Cura” come tu ami essere chiamata?

«Gli studi che ho affrontato dopo la laurea, dopo aver rinunciato a fare per professione la giornalista, tanti anni fa in Calabria sembrava un lavoro per soli uomini, mi hanno avvicinato e messo in contatto con il cuore vero della vita. Nel campo dell’esperienza umana ci sono cose essenziali e irrinunciabili. Spesso però può anche accadere che tali essenzialità sfuggano alla nostra attenzione, sopraffatti magari come siamo da molti altri problemi esistenziali.

– È vero che il tuo approccio con i malati affetti da malattia di Alzheimer, e altre forme di demenza, ha segnato la tua vita?

«In maniera inimmaginabile. Difronte alle persone, e ti prego di scrivere persone con la p maiuscola, affette da demenze, non mi sono rassegnata a quello che erroneamente un tempo si diceva di loro e dei loro comportamenti aggressivi e ostili». 

– Quali sono le domande di fondo che giustificano il tuo impegno sociale di questi anni?

«La prima, cosa significa vivere all’interno di un corpo il cui cervello piano piano si atrofizza a causa della progressione di una malattia di Alzheimer o di altra forma di demenza? La seconda, si tratta di un corpo che riesce a convivere con una demenza oppure che deve subirne il peso inesorabilmente? Sono queste esattamente le domande che mi sono posta quando nel 2008 uno dei nostri pazienti, di cui potrei anche farti il nome ma forse violeremo la sua privacy, varcò la porta dei nostri centri diurni». 

– Il primo di una lunga serie immagino?

«Dopo di lui tante altre persone ammalate sono venute da noi. Persone che sperimentavano sul proprio corpo e nella propria anima una demenza in maniera individuale, persone, corpi che si muovevano insieme ad altri corpi e che entravano in relazione tra di loro pur attraverso linguaggi inusuali, discorsi strampalati, carezze, gestualità innate che appartenevano ad un loro passato, ad un loro repertorio gestuale che, proprio come impronte digitali, rappresentavano eredità uniche e indelebili che nessun deterioramento cerebrale aveva ancora cancellato. Ma quel corpo, rappresentava l’unico strumento che avevano a disposizione per sentirsi ancora protagonisti della propria esistenza. Eppure quel corpo, al momento della diagnosi finale, non veniva più tenuto in considerazione, perché era come se la diagnosi di demenza staccasse all’improvviso la spina da ogni contatto fisico, emozionale ed affettivo».

– Ma alla fine parliamo solo di corpi? Quindi materia, non altro?

«Un errore gravissimo. Sapevo che non esiste una sola memoria, e che tra le tante vi era anche la memoria corporea, una memoria universale che trasformava quel corpo vivo ed emozionato in una biografia di vita immediatamente espressiva che andava oltre la patologia. E da qui ebbe inizio il mio viaggio. È stata una ricerca mista ad una forte dose di curiosità che mi ha portato a varcare i confini regionali e nazionali, incontrare specialisti del settore, confrontarmi con loro, attingere esperienze e principalmente sentirmi confortata del fatto che il corpo delle persone con demenza, da elemento frammentato poteva diventare un corpo riconosciuto e apprezzato nonostante le sue bizzarrie». 

– Nel tuo libro racconti di lunghi periodi di “osservazioni individuali”, cosa vuol dire?

«Per mesi e mesi ho iniziato ad osservare i movimenti e le gestualità di pazienti affetti da demenze varie e che prendevano vita in corpi lenti perché le attività che venivano date per scontate diventano rallentate ed esitanti. Corpi vuoti, in quanto le abitudini e le pratiche acquisite si perdevano. Corpi persi, perché disorientati in un mondo sconosciuto. Corpi silenziosi, perché a lungo andare si manifesta una sorta di evanescenza corporea, e alla fine si arriva non percepire più i propri limiti corporei. Ma, davanti a me vi erano in realtà corpi vivi e vissuti. Corpi espressivi e non organismi senza pulsioni. Bisogni, gesti, simboli. Persone insomma da capire, e gesti da codificare. Ma era in questa dimensione che avevo scelto di restare perché mi ero convinta che la sconfitta terapeutica si realizza laddove vi è la rinuncia di dare un senso all’esistenza più mortificata. Accade ogni giorno con i malati di Alzheimer».

–E nel 2002 nasce quella che tu hai chiamato “RaGi”?

«La Ra.Gi. che sono le iniziali dei nomi dei miei figli, nasce proprio con un obiettivo preciso. Volevo far conosce anche in Calabria, quindi a casa mia, nella terra della mia vita, l’importanza della relazione e della comunicazione corporea nei territori di cura. Parlo di malattie psichiatriche, oncologiche, Sla, e Sclerosi multiple. Tutto questo mi sono detta doveva arrivare nelle scuole, negli istituti penitenziari, nel cuore della società civile dell’intera regione. E il filo conduttore è stato quello di ricercare dietro le apparenze, gli stereotipi, i pregiudizi, “i falsi miti di una demenza imperfetta”».

– Qual è stato l’anno più importante della vostra crescita?

Senza dubbio il 2007. È stato l’anno in cui, grazie all’approvazione del progetto “Soli Mai Più” da parte del Ministero dell’Interno, abbiamo dato vita in Calabria al primo e unico Centro diurno per la cura delle malattie neurodegenerative. Lo abbiamo chiamato “Spazio Al.Pa.De.”, che sta per Alzheimer, Parkinson e Demenze, spostando l’accento della cura da un aspetto prettamente assistenziale a una visione più “esistenziale” della malattia escogitando, pur tra mille difficoltà, le strategie migliori per salvaguardare l’integrità delle persone con demenze e promuovere un modus vivendi significativo e salutare. Perché a mio avviso la cura di comunità svolta in sinergia con le ricchezze naturali può diventare, per le persone con demenza, quel presidio terapeutico necessario per il soddisfacimento dei loro bisogni. Grazie a questo progetto abbiamo realizzato in Calabria il primo Cafè Alzheimer oggi Dementia Cafè, un punto di incontro per numerose famiglie che ogni mese, all’interno del nostro centro diurno, ricevono supporto, informazione e formazione su come gestire il proprio familiare anche a domicilio».

– Nasce da tutto questo quella che tu chiami la “Terapia Espressiva Corporea Integrata”? 

«La Teci è un metodo unico in Italia, per la cura ed il contenimento naturale delle demenze. Un metodo che mira a creare, attraverso la simbologia di queste persone ammalate, dei “ponti” di comunicazione ancora possibili. Ponti che permettono di “raggiungere” chi, affetto da demenza, non può più relazionarsi all’altro in modo convenzionale, perché la sua facoltà di linguaggio è stata compromessa dalla malattia. Ma la Teci inoltre è l’unica terapia che, grazie a supporti neuroscientifici, anatomo-funzionali e psicologici, ridefinisce i limiti corporei delle persone con demenze che vengono smarriti con il progredire della malattia».

– Se tu oggi dovessi dire grazie a qualcuno, chi ti viene in mente per primo?

«Ho dato vita alla Teci, dopo anni di osservazione delle persone con demenza che ospitavamo nel nostro Centro, supportata dagli studi della Dr.ssa Pia Kontos, antropologa della salute della Toronto Rehabilitation Institute, e della Dr.ssa Deborah Barnes della University of California di San Francisco. Ma devo un grazie anche al presidente della “Scuola di Danzaterapia Metodo Espressivo Relazionale” Vincenzo Bellia, psichiatra, psicoterapeuta e gruppo analista, un percorso molto intenso che mi ha permesso di raggiungere una migliore coscienza corporea e approfondire ulteriormente, in questo caso specifico, gli ambiti applicativi del corpo nelle demenze».

– Posso chiederti cosa c’è invece alla base di tutto questo lavoro di ricerca?

«C’è soprattutto il mio amore per la Filosofia, principalmente legata ai miti greci. Gli studi filosofici mi hanno suggerito ad amare la parola “therapeía” intesa come quel cammino interiore che l’essere umano fa per cercare la via per il suo benessere personale nell’assoluta normalità del suo vivere. Per noi un abbraccio dato ai pazienti è terapeutico. Vederli nel loro animo è terapeutico. Contattare la loro pelle è terapeutico. Guardarli negli occhi, prestare loro attenzione e osservarli nella piena importanza che meritano, è terapeutico. Per un uomo assetato, bere un bicchiere d’acqua è la più naturale terapia che ci sia, perché l’acqua rappresenta quello strumento che lo fa dissetare, lo fa star bene. Da qui nasce il concetto di individualità incarnata nelle persone con demenza, ritenendo che, di fronte a una devastazione cerebrale, il corpo sia il solo strumento che la persona con demenza abbia per mostrarsi al mondo come persona viva e vissuta pregna di esperienze, emozioni, sensazioni, vissuti emozionali. Non un corpo inattivo ma un corpo come fonte di una individualità tutta da scoprire. 

C

icala è un paesino della presila catanzarese, appena 900 anime, con un nome magari buffo, ma con una storia molto importante da raccontare. 

È una storia che parla di accoglienza, umanità, solidarietà fin da quando, nel 2018, i giornali  lo identificano come il primo “Borgo Amico delle Demenze”. Quella che gli americani chiamerebbero Dementia Friendly Community. Cicala diventa insomma il palcoscenico ideale di un progetto sperimentale unico il Calabria, fortemente voluto da Elena Sodano e che dal 2006 non fa altro che spiegare, non solo alla società civile ma soprattutto alla società scientifica, in che modo va assistito e curato un ammalato di Alzheimer. Una vera e propria filosofia di vita, del prendersi cura di chi soffre di demenza, che si basa sul considerare il territorio e la comunità come un valido dispositivo riabilitativo e terapeutico per le persone con demenza. 

Elena Sodano non ha dubbi: «Il nostro – dice – è uno spirito innovativo che parla di vera inclusione sociale e comunitaria, grazie anche ad un percorso formativo avviato tra tutti i commercianti del paese e focalizzato sulla relazione e sulla comunicazione positiva da instaurare con le persone ammalate».

Ecco allora che, sul piccolo borgo di Cicala, nel 2021, viene immaginato un progetto che rappresenta qualcosa di più grande della prima idea iniziale, una evoluzione che ha in sé i caratteri della stabilità e della residenzialità. Residenzialità che nell’ immaginario collettivo viene fatta spesso coincidere con la fase finale dell’esistenza di un malato di Alzheimer, ma che nella “CasaPaese per demenze di Cicala” assume invece valore di protezione, conforto, accoglienza, libertà. È il borgo che si trasforma in una sorta di comunità-alloggio, un vero e proprio paese in cui soggiorneranno a lungo termine 16 persone non solo con malattia di Alzheimer ma anche con altre forme di demenza nella fase medio-grave della degenerazione.

– Come nasce l’idea di Cicala?

«L’idea della Casa-Paese nasce durante il lockdown dei mesi scorsi,quando abbiamo dovuto modificare i nostri interventi terapeutici che, dal Centro Diurno di Catanzaro, che è un centro specifico per persone affette da demenze, si sono poi trasferiti all’interno delle case dei nostri ospiti. Ecco allora che confrontandoci con le loro famiglie, abbiamo capito che il dolore più grande di questi “casi” non era tanto la progressione della malattia, quanto invece il fatto di non riuscire più a gestire i disturbi comportamentali dei propri cari, con il timore naturalmente di dover gettare la spugna e arrivare così a decidere di inserire questi pazienti in strutture nelle quali, le persone con una demenza, vengono spesso accettate ma viste come elementi seriamente problematici».

– In che senso, Elena?

«Vedi, una persona con demenza non rispetta alcuna regola. Non è pensabile che possa vivere, senza dare fastidio. La persona con demenza si sveglia di notte perché è convinta di doversi radere per andare a lavorare. Spesso se è una donna, a causa delle sue allucinazioni, sente le voci del bimbo neonato che deve allattare. Un malato in queste condizioni è davvero difficile da gestire. Girovaga per casa senza una meta, chiede e ripete sempre le solite cose, a volte scappa, altre volte vuole tornare dalla mamma. Ma c’è di peggio. Non contiene i suoi istinti, è disinibito, sporca dovunque. Una condizione quasi impossibile da gestire, specialmente per i familiari che vivono con lui, e questo genera una tempesta emozionale alla quale molto spesso si risponde con strumenti del tutto inadeguati».

– Come credete di poterne uscire Elena?

«Partiamo da una premessa di fondo.Le strutture che oggi accolgono le persone con demenza sono quasi tutte staccate dal mondo, perché è come se la società in cui viviamo si dovesse quasi difendere e proteggere da coloro che rappresentano invece ed erroneamente un pericolo, seppur non intenzionale. Spesso, le attività giornaliere si svolgono a stretto contatto come tantissime altre persone, che sono però incompatibili con la malattia di Alzheimer o altre forme di demenza. Tutti spesso sono obbligati a fare la medesima cosa, esistono ritmi prestabiliti, le attività vengono imposte dall’alto e di solito non rispecchiano mai la volontà della persona ammalata. E così le persone si spengono. Vengono private della loro identità e della loro coscienza. E tutto questo mentre ovunque, si vanno sempre di più fornendo al genere umano, luoghi di svago, di libertà e di ristoro». 

– Facile a dirsi Elena, ma forse meno semplice a farlo?

«Nel nostro impegno quotidiano noi non abbiamo nessuna intenzione di manipolare i bisogni delle persone affette da demenze. Sono persone, bada bene, non solo anziane. Questo è un falso luogo comune. Il nostro paziente più giovane oggi ha 40 anni, ed è entrato nel centro diurno a 38. Ci sono donne giovanissime con demenze precoci di tipo Alzheimer, e con demenze fronto temporali nelle quali mi ci rivedo. Sono loro per me la vera grande sfida. Stando vicini a loro alla fine ti convinci che se li ami davvero devi  offrire loro un ambiente confortevole dove poter vivere». 

– E questo basta?

«La mia idea è che se un “ambiente” è capace di distruggere un individuo, un “ambiente” può anche riorganizzarlo e guarirlo. Ma è nato con queste motivazioni, e grazie all’aggiudicazione di uno stabile di otre 800 mq messo a bando dal comune di Cicala, il progetto della Casa-Paese. Una Casa, che è  ambiente di vita per eccellenza, e all’interno della quale sarà poi costruito un Paese, quindi un nucleo di convivenza e di condivisione pubblica. Sai come lo abbiamo immaginato? Come un ambiente semplice, un angolo domestico, arricchito con oggetti familiari e personali, e in cui verranno ricreate, le vere attività del paese attraverso degli armadi specifici che aprendosi si trasformano in veri e propri negozi; dall’edicola al bar, passando per la piazza, la stazione del treno, l’ortofrutta e il negozio di fiori, che potranno essere facilmente fruite dalle persone con demenza. Non ci saranno le sale comuni ma dei solarium e delle piazze. Non ci sarà a mensa ma un vero e proprio ristorante e una pizzeria, dove gli ospiti potranno consumare le pietanze desiderate anche in compagnia dei loro familiari».

– Detta così sembra quasi una favola…

«Vedo che continui ad essere diffidente. Seguimi per favore. La Casa-Paese che noi abbiamo progettato qui a Cicala avrà un layout, quindi una disposizione differente rispetto a quello che oggi possiamo trovare nelle strutture sanitarie pubbliche. Ogni stanza sarà abitata da due persone, e tutti i luoghi verranno ritualizzati e riconfigurati in un modello di vita passata. L’aria esterna alla struttura diventerà un grande “Giardino Della Memoria”, con un percorso sensoriale arricchito da piante officinali e da erbe ed essenze tipiche calabresi. C’è di più. Abbiamo anche immaginato un percorso di terapia con gli animali, attraverso l’allestimento di zone protette che prevedono la presenza di animali domestici e da cortile. E saranno i nostri ospiti che dovranno prendersene cura».

– Dunque, ortoterapia e giardinaggio?

«Così si banalizza tutto. Vedi, anche la scansione del tempo all’interno della Casa-Paese rispetterà i ritmi capovolti creati dalla progressione della malattia. Dal momento in cui il paziente si sveglia al momento della prima igiene del mattino, al momento della colazione, delle prime attività del giorno, del pranzo e in tutti quegli istanti rituali e personali che segnano per lui il trascorrere della giornata. In tutto questo non va dimenticato il Muro del Dono che perimetra lo stabile e che sarà rivestito con piastrelle con su scritti i nomi di chi sta dando fattivamente una mano in questa nostra impresa fantastica».

– Niente fondi pubblici, niente convenzioni, ma come si fa a realizzare un Casa-Paese come questa di Cicala?

«Per fare tutto questo abbiamo attivato una raccolta fondi, pensata per coprire le spese per l’arredamento della Casa-Paese, perché occorre una progettazione ambientale attenta, mirata e rivolta a queste sfere di fragilità considerando il progressivo mutare della malattia. Per arrivare all’obiettivo finale è necessario l’aiuto di tutti, perché anche solo una piccola donazione può cambiare la vita di decine di persone e delle loro famiglie. Secondo noi “riadattare un ambiente” di certo da solo non guarisce una demenza, perché dalla demenza non si guarisce, ma se riusciamo a far vivere queste persone in un habitat gradevole, forse allora alla fine saremo riusciti a mitigare la rabbia che ogni paziente come loro si porta dentro. e a far sopportare meglio il disagio e anche la loro disperazione con maggiore dignità e conforto».

– Elena ma questa può sembrare una pura utopia?

«Ti assicuro che la Casa-Paese per demenze di Cicala non è solo un progetto, ma è principalmente un cambiamento culturale nei confronti di una malattia come la demenza che deve assumere contorni sociali e non solo sanitari. Un progetto che parli di inclusione e di cura territoriale e comunitaria. Come spiegartelo meglio? Questa è soprattutto una sfida culturale per noi, che sta per “non rassegnarsi” ad una sterile etichetta che vuole e definisce la persona affetta da demenza come un malato  irreversibile e non più capace di nulla. Troppo spesso la diagnosi finale ha un significato discriminante, esclude la persona con demenza dal mondo dei cosiddetti sani, libera la società dai suoi elementi critici e se vuoi “disturbanti”, come appunto sono considerate le persone con demenza. Attraverso la Casa-Paese invece noi ci auguriamo di tracciare una profonda linea di demarcazione tra il concetto di segregazione e discriminazione, e quelle che sono invece le solide basi dell’inclusione, della normalità di vita in un ambiente naturale».

Dalla California in Calabria: il ritorno dello scienziato Roberto Crea

ll ritorno dei cervelli in Italia è possibile: il prof. Roberto Crea, scienziato di fama mondiale, padre delle biotecnologie, reggino di nascita e da 40 anni in California, è in Italia per il Renato Dulbecco Institute che andrà a dirigere tra qualche mese a Lamezia Terme. Lo scienziato andrà a visitare insieme con il prof. Giuseppe Nisticò, commissario dello stesso istituto, l’attuale presidente della Regione Nino Spirlì e l’assessore all’Agricoltura Giancarlo Gallo, i locali della Fondazione Terina e prendere visione dello stato dell’arte del progetto esecutivo per la realizzazione dei laboratori in GMP e GLP secondo standard europei del nascente Renato Dulbecco Institute. Sarà un centro di eccellenza scientifica a respiro internazionale per lo studio e la produzione di nanoanticorpi (detti anche pronectine) in grado di debellare il covid e le sue varianti, nonché forme di cancro resistenti alle terapie attuali.

Dopo 40 anni di successi internazionali (è detentore di oltre 100 brevetti scientifici), Roberto Crea ritorna nella sua terra per dare un contributo con la sua eccezionale esperienza al progresso scientifico, tecnologico e sociale della Calabria. Una regione ricca di risorse umane e del territorio, però da sempre trascurata e dimenticata. Da Lamezia può partire il riscatto, con l’opportunità offerta a centinaia di ricercatori delle Università di Cosenza e di Catanzaro, di poter crescere, formarsi e lavorare nella propria terra su progetti di biotecnologia che il mondo intero vorrà adottare nella lotta alle pandemie e alle patologie ancora incurabili.

Il prof. Crea è il simbolo, il modello del cosiddetto “rientro” dei cervelli italiani in patria: un emigrato partito 40 anni fa in cerca di lavoro e che ritorna, forte della sua esperienza e della sua professionalità, a dare il proprio contributo al Paese e, soprattutto, alla sua Calabria.

Roberto Crea lancia un messaggio di ottimismo: «Noi saremo sottoposti a delle sfide continue che verranno dai virus, da nuove forme di tumore da debellare: abbiamo bisogno di continuare a investire in tecnologie innovative che ci permettono di combattere queste nuove malattie in tempo reale. Non si deve più aspettare un anno, bisogna essere capaci di reagire immediatamente con mezzi sofisticati ma che ci danno la possibilità nel giro di mesi di contrastare le nuove minacce che derivano dalle variante del Covid». 

Dice ancora il prof. Crea: «Possiamo essere ottimisti perché le nuove tecnologie esistono , la scienza ha fatto molti passi avanti e quindi siamo capaci in laboratorio e assieme alle organizzazioni di produzione e sviluppo delle Case farmaceutiche siamo in effetti capaci di disegnare nuovi farmaci da zero e svilupparli nel corso di mesi non più di diversi anni. Quindi bisogna investire di più nella ricerca, selezionare le tecnologie migliori e poi identificare le sinergie che vanno messe assieme per poter arrivare alla creazione di farmaci in tempi molto brevi. È un problema non facile, anzi direi molto complesso, perché coinvolge un gran numero di aziende, esperienze, competenze e tutta una serie di integrazioni dal laboratorio al letto del paziente che devono lavorare insieme. Il progetto del Dulbecco Institute di Lamezia Terme raccoglierà i migliori ricercatori delle università di Cosenza e Catanzaro, offrendo grandi opportunità di formazione e lavoro, ma soprattutto creando quei nuovi farmaci che serviranno a fronteggiare le nuove insidie sanitarie».

I tre allievi di Giacomo De Benedetti

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se solo la Calabria, tornasse come ai tempi della sua perfetta genesi, a sentirsi “fimmina orgogliosa della sua pancia” quale ventre che accoglie e produce, allora ecco che i calabresi tornerebbero a essere i figli-geni suoi di sempre. 

Nel trattato storico da cui si genera la terra di Calabria, e per mezzo del quale la si riconosce terra abbondantemente magna e grata, è essa stessa protagonista del suo illustre destino. Del quale oggi testimoniano i libri, unico mezzo indiscusso che introduce alla continuità e al proseguo del tempo magnogreco di questa, oggi quasi miserabile, regione. E nulla di tutto ciò è mistero. La sua letteratura, sua di origine, ma di assoluta e indiscussa proprietà del mondo, si pone quale unica vera fonte rivelatrice, delle sue più sottili e a volte quasi impercettibili verità. 

La terra del sole, non è mai stata una terra arida, ha invece prodotto sempre abbondantemente frutto. E lì dove si vedeva dichiarata vinta, si esaltava vincitrice. E lo era.

– Fui io la prima Italia – dice la Calabria. E lo fu. Nel romantico nome “Calabria”, tanti altri nomi vi sono conservati. E tutti in essi riconoscono la grandezza che questi rappresentano. Nel suggestivo nome “Calabria”, tanti volti vi sono ricordati. Ognuno con un paio di occhiali diversi per guardare tutti insieme oltre. Alla storia, alle sue vicissitudini. Al tempo immortale che non passa, e su cui invece si costruisce, generando fondamenta di futuro straordinari e saldi. 

Qui nacque la sapienza, ebbe un’abbondante stirpe, e si caricò di decenza e di ingegno. Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella, Telesio, Pitagora. E poi tanti altri che le diedero moralità ed onore.

Se il processo di riqualifica culturale di questa regione, avviato ormai da tempo, è sulla buona strada, lo si saprà sol quando la Calabria, darà convintamente agio alle ‘lettere’ di farsi mezzo e prova ai suoi ‘maledetti’ processi di morale. Alle accuse infamanti a cui la confina il mondo, facendola passare da MagnaGrecia a terra di ‘ndrangheta.

– Togliete fuori le prove! – dice il giudice. 

– Eccole – risponde l’accusa. – Molte sono antiche, ma altrettante, recentissime. Diverse nascono semplice prove, ma alla dimostrazione dell’innocenza dell’imputata, guardi, signor giudice, come mirabilmente diventano storie. Quella del trittico delle lettere, per esempio, è una prova lampante che niente è perduto, tutto è recuperabile. La Calabria può avere colpe, ma non tragiche accuse. E questa prova, cari signori della corte, signor giudice, conferma non soltanto l’innocenza,  ma le attribuisce una lodevole riconoscenza. Per questo è giusto che qui, in quest’aula, oggi, io vi faccia i nomi degli illustri.

Filocamo, Strati e Pedullà 

Tre calabresi e tutti e tre compagni di studi all’Università di Messina. 

Carmelo Filocamo, Saverio Strati e Walter Pedullà, i tre allievi del maestro Giacomo Debenedetti. Gli allievi di spicco. I prediletti. I futuri scrittori. I meridionali non meridionalisti, ma intellettuali italiani.

Cattedra tra le più eccellenti di tutto l’ateneo, quella del professore torinese. Figura di rilievo della “Messina” d’autore. Critico di grande originalità, professore di un trio di studenti prodigiosi, e provenienti tutti da un’unica vena geografica: la Locride. 

«Anni magici per l’Università di Messina – dice Carmelo Filocamo. – Oltre a Debenedetti insegnavano Santo Mazzarino, il filosofo Galvano Della Volpe, lo storico Giorgio Spini, il geografo Lucio Gambi e Salvatore Pugliatti, il Rettore dell’Università, giurista di fama internazionale ed eccellente musicologo  che aveva la cattedra di Storia della musica».

Quelle di Debenedetti, non erano classiche lezioni universitarie, così come accadeva nelle varie facoltà dello stesso ateneo o in quelle viciniore con gli altri professori, ma tanta era l’intensità con cui il Debenedetti le presentava, che venivano considerate particolari momenti di attrazione. Studenti di altre facoltà, medicina e giurisprudenza, si recavano nella sua aula, per assistere alle sue lezioni, come fossero rappresentazioni narrative. Una simpatia e una stima quella verso il professore, che però non fu da tutti prontamente e neppure pienamente condivisa. Senza precise considerazioni infatti, e neppure senza necessari quanto valevoli preavvisi, gli verrà inaspettatamente soppressa la cattedra. Motivi interni. Politici. Ragioni che il “suo” trittico delle lettere non riuscirà mai pienamente a comprendere. I togati universitari infatti, i bacchettoni e filistei, così come vennero definiti da Giuseppe Neri, giudicarono Debenedetti non idoneo a ricoprire il ruolo di docente universitario. 

Una notizia folgorante, che destabilizzò molti. Tra i primi Saverio Strati che in una corsa contro il tempo, subito comunicò l’accaduto all’amico Pedullà con una lettera: “Carissimo Walter, ieri sono stato col professore. È successo l’inaspettato. Hanno soppresso la cattedra di letteratura moderna. Quindi il professore non verrà più a Messina. Era molto abbattuto, e molto preoccupato per noi, specialmente per te e Carmelo.[…] Scrivi al professore; dillo anche a Carmelo.[…]”

Rabbia, indignazione, sdegno per certi versi. E poi anche inquietudine, che colse in pieno Filocamo e Pedullà che, appurata da Strati l’inattesa nuova, scrissero immediatamente a Debenedetti: […]“ Sulle cause del provvedimento avremo occasione di discutere al nostro prossimo incontro. Hanno collaborato in egual misura l’anticomunismo di tutti i membri del Consiglio di facoltà; l’invidia di queste mezze figure della cultura, che non possono perdonarle di aver fatto capire agli studenti quanto poco degnamente essi occupano una cattedra universitaria.”[…]

Ma il genio di Debenedetti non poteva finire soppresso come la sua cattedra di Messina. Ai primi degli anni cinquanta infatti, il professore, vien chiamato dal Senato Accademico, presso la facoltà di Magistero, affidandogli  la cattedra di Letteratura Francese. Quella che Debenedetti meritava e che  gli fu concessa grazie anche alla pressione degli amici Pugliatti e Della Volpe. 

Una gioia che fu lo stesso professore a comunicare a Carmelo Filocamo con una lettera, esattamente il  10 giugno del ’58 . 

“[…]Non so se qualcuno ti abbia già detto che la facoltà di Roma mi ha affidato l’insegnamento della Lett. Moderna e contemporanea. È il posto che Ungaretti lascia quest’anno per limiti di età. […] E adesso speriamo che riesca ancora a farcela io; che si possa ricostruire la “nostra” scuola. Ti abbraccio. Tuo Giacomo Debenedetti.” 

Debenedetti non dimentichò mai, neppure a Roma, i suoi tre più grandi allievi. Non fu un trasferimento di cattedra a modificare il rapporto tra il professore e i suoi studenti. Avrebbe infatti voluto al suo fianco, come assistente Carmelo, Filocamo, che per dovere etico, forse, decise di non accettare e rimanere in Calabria. 

Già ai tempi di Messina, Debenedetti, aveva capito quanto grandi fossero i suoi tre allievi. Iniziando una delle sue lezioni, con l’aula piena, riferendosi a Saverio Strati non si era riuscito a trattenere: “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”.

 “Il suo giudizio positivo – scrisse Strati –  è stato importante per varie ragioni. Prima di tutto mi ha fatto prendere coscienza che sono un narratore[…]. Il giudizio, positivo ed autorevolissimo, mi era venuto isperatamente, inatteso, dal maggiore critico letterario di questo secolo.”

Una traccia, un raccordo, un’identità, un riferimento preciso Giacomo Debenedetti, per il trittico meridionale per eccellenza.

Carmelo Filocamo, raccontava di Debenedetti come “un professore che raccontava la letteratura come un narratore racconta la vita”. 

Ma è ne “Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti”, che i ricordi di Walter Pedullà, completeranno il rapporto tra il professore e gli allievi calabresi: “Ho visto per la prima volta Debenedetti nel gennaio del 1951. Ventenne, ero con un coetaneo, Carmelo Filocamo- più tardi noto come enigmista con lo pseudonimo di Fra Diavolo, con cui lo segnalò Italo Calvino – e con Saverio Strati, che  aveva “ scoperto “ il professore torinese. Da allora fummo inseparabili come amici e come allievi di Debenedetti, che , cosciente delle nostre non floride condizioni, ci invitò più  di una volta a pranzo o a cena.[…].”

Una storia che narra di incontri casuali voluti dal destino. Un destino preciso di uomini del Sud, pronto a segnare quello universale della letteratura. Una staffetta di lettere e letterati che racconta chiaramente  quanto corta possa essere la distanza tra il Nord e il Sud del paese quando è la cultura a governarne i rapporti. Come accade con il professore Debenedetti e il suo amato trittico delle lettere.

Una sorta riappacificazione che avviene in maniera naturale, che non si assoggetta a contaminazioni, esula da stereotipi e pregiudizi, e nella sua integrità morale, riordina ma soprattutto ricongiunge eventuali e dolorose frammentazioni. 

È questa la forza della letteratura. E se lo chiedessimo al professore Walter Pedullà, unico testimone vivente del famoso trittico, quasi certamente ci darebbe ragione.

La strada delle lettere, che è l’unica che precede e che segue quella della vita dell’uomo, non ha coordinate geografiche che ne segnano i confini. È sconfinata. Difatti è letteratura e non cartografia. 

P.S. il mio ringraziamento particolare per aver potuto scrivere questo pezzo va alla cara Iolanda Filocamo, sorella di Carmelo, scomparsa qualche anno fa, e che mi fece avere i carteggi tra il professore Debenedetti e i suoi allievi, custoditi gelosamente nella biblioteca del fratello.