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Il libro La Famiglia Montalbano

Saverio Montalto: lo scrittore calabrese precursore di Camilleri

di BRUNO GEMELLI – La città di Ardore, oltre a dare i natali a Francesco Misiano, si può vantare di aver avuto tra i suoi figli migliori lo scrittore Francesco Saverio Barillaro che era più piccolo di Misiano di 14 anni. Barillaro era sconosciuto con questo nome perché usava lo pseudonimo Saverio Montalto. Egli è stato il primo in Italia a scrivere un romanzo sulla mafia. Lo fece con La Famiglia Montalbano, una definizione che l’autore usava per chiamare la ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria; un modo originale e diverso dal linguaggio convenzionale.

Il romanzo ebbe una lunga incubazione e fu completato nel 1945, ma fu pubblicato solo nel 1973 dalla casa editrice Fram’s di Chiaravalle Centrale nella collana “Rosso e nero” diretta dal prof. Pasquino Crupi che è stato il massimo esperto di letteratura calabrese. 

Dunque, La Famiglia Montalbano anticipa i due lavori sulla mafia di Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Il giorno della civetta (1961). Solo più tardi, l’altro illustre scrittore calabrese, Saverio Strati, con il romanzo Il selvaggio di Santa Venere, proporrà racconti di malandrineria.

Saverio Montalto è, dunque, come dicono i francesi, nom de plume.

Nacque a San Nicola di Ardore, nella zona mediana della Locride, il 12 febbraio 1898 e si spense ad Ardore il 7 settembre 1976. Aveva dunque 78 anni quando morì. Faceva di professione il veterinario e passò cinque anni della sua vita, dal 1940 al 1945, nel manicomio criminale di Aversa.

Ma era veramente pazzo? Comunque fu arrestato perché uccise la sorella Anna e ferì suo cognato Giacomo e sua moglie Iva. Una tragedia familiare che lui raccontò in un memoriale.

Una storia di violenza domestica, di sopraffazioni, di tradimenti. Di cattivo sangue, come si diceva a quel tempo. Un accumulo di risentimenti sedimentati dentro arcaici schemi familiari, due famiglie contrapposte, due modi diversi di stare nel consorzio civile di allora. Una famiglia, quella degli Armoni nella descrizione narrativa, estesa e invadente. E l’altra, quella dell’autore, che subisce senza potersi difendere. La figura prorompente di una matrona, la madre di Giacomo, ai cui figli lei concede tutto, anche il diritto di rovinare la vita degli altri. Anche quando si tratta di sua nuora. E poi un malinteso atteggiamento mafioso da parte soprattutto di uno dei suoi figli, Giacomo, che alimenta e prepara l’atto finale.

Dopo il fattaccio, il protagonista-autore del memoriale non rispose alle domande del giudice istruttore, al quale chiese e ottenne di raccontare la sua tragica vicenda attraverso appunto un memoriale. Il manoscritto capitò nelle mani dello scrittore Mario La Cava, che abitava a Bovalino, un tiro di schioppo da dove accadde l’episodio, che capì subito che il testo conteneva un pregevole profilo letterario. Il memoriale fu pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti, con una nota di Alberto Moravia. Montalto si fece subito notare tant’è che collaborò poi con Il Mondo di Mario Pannunzio. Il Memoriale dal carcere, questo il nome del libro, fu pubblicato una prima volta dalla Lerici nel 1957, tradotto anche in inglese, e poi ristampato da Rubbettino nel 1986.

La verità giudiziaria è sepolta negli archivi del tribunale di Catanzaro, città in cui aveva sede l’unica Corte d’Appello della Calabria.

Recita la prima pagina del memoriale:

«Ill.mo Signor Giudice Istruttore di P… durante la mia vita rasentai più volte l’aldilà, ma si vede che il crudo destino mi riservava prove più dure della morte. E, per non annoiare di troppo la Giustizia, vengo subito ai fatti che più di tutti hanno, da tredici anni a questa parte, sconvolto la mia esistenza. Se potessi, veramente, ne farei a meno di raccontare, giacché, al solo pensarle certe cose, sento un freddo agghiacciante nelle vene e che il cuore cessa di battere e che l’anima mia rimane sbigottita e atterrita. Oh, come un giorno agognavo di poter raccontare certi fatti della mia vita con la mente sgombra e serena! Ma i Fati, forse per loro ragioni speciali, non hanno permesso ed io raccolgo le ultime forze che mi avanzano e mi sottometto ancora una volta alle loro imposizioni!

E se non temessi di essere tacciato da pusillanime dal resto degli uomini, oserei affermare che in certi momenti dell’individuo, solo il nulla può essere l’unica ancora di salvezza. Perché, perché mi domando, Tu, o regolatore del Mondo, hai voluto scegliere me per attore a rappresentare una delle più orribili tragedie della realtà?

Non ero parte anch’io del tuo complesso organismo, oppure sono stato uno degli indegni? Non mi sembra, perché anch’io, per la mia parte, ti ero servito al comun scopo di bene!».

E giù le 128 pagine del memoriale-racconto. In esso i nomi dei protagonisti e dei luoghi sono celati o reinventati. Il cognato Giacomo Armoni è in realtà Titta Fazzolari.

Il 28 dicembre 2008 il professor Bruno Chinè intervistò (il testo rinviene nel sito ilpaese.info) lo scrittore e storico Giovanni Ruffo (che all’epoca aveva 15 anni e fu un indiretto testimone di quegli eventi) che così descrisse il fatto di sangue:

“In giro si affermò che il veterinario, che godeva prestigio e rispetto presso i compaesani, esasperato dalle continue prepotenze del cognato, gli aveva sparato per ucciderlo. La sorella si era frapposta tra i due per impedire al veterinario di sparare, ma questi sconvolto dal risentimento non riuscì a frenarsi e colpì la sorella in piena gola forse troncandole la carotide. Visto cadere la sua amata sorella, il veterinario sparò al cognato e alla moglie con la precisa intenzione di ucciderli. Aveva usato l’unica arma che possedeva in casa: una sua vecchia pistola che aveva portato dalla Grande Guerra, nella quale aveva combattuto. Era una pistola di fabbricazione tedesca con munizioni vecchie e mal conservate da sempre. Le pallottole – del genere di quelle volgarmente definite a mitraglia – avevano la punta di piombo scoperta da protezione ed erano rivestite da una leggera lamina metallica. Erano proiettili creati per provocare ferite devastanti e quindi con alte possibilità di uccidere. Gli anni trascorsi nella più completa incuria e l’umidità aveva alquanto deteriorato la loro efficienza e fu questa la ragione che salvò la vita a don Titta e a sua sorella (moglie del veterinario).

La sorella del veterinario (moglie di don Titta) morì perché fu sparata a bruciapelo e colpita in una zona vitale, essendosi frapposta tra suo fratello e suo marito nell’intento di impedire al veterinario (suo fratello) di uccidere il cognato”.

L’episodio cruento accadde il 17 novembre 1940. Così Montalto lo descrisse nel suo memoriale, quando cioè affrontò suo cognato Giacomo Armoni nell’ennesima lite:

«In un attimo mi trovai colla pistola in mano, sbucai nella stanza da pranzo e gridai per intimorirlo di gettare la rivoltella e uscire fuori. Lui diede un urto più forte per divincolarsi dalle donne (la moglie Iva e la sorella Anna n.d.a.) e  io allora lo puntai. Vidi un’ombra distaccarsi per venirmi incontro, ma il colpo era partito. Da questo momento divenni tutto spirito di conservazione e scaricai tutti gli otto colpi della pistola perché davanti a me non vedevo altro che ombre che mi volevano uccidere. Né sono come sono rimasto vivo. Dopo un certo tempo che non so precisare mi sembrava di girare insieme alla casa, ma senza sapere ancora, dove mi trovassi. Poi ebbi come un barlume di coscienza e mi vidi nei pressi del balcone dello studio insieme a mia moglie e mio cognato che si contorcevano e lamentavano vicino a me; e, non vedendo più mia sorella, mi ricordai che prima c’era anche lei presente. Mi slanciai verso la stanza da pranzo e la trovai per terra immobile e supina. Mi buttai, la chiamai, ma non avuto risposta dal suo labro, la baciai freneticamente e scappai in mezzo alla strada».

Aveva ucciso la sua adorata sorella Anna. La creatura a lui più cara. Uno strazio. Era l’epilogo di una tragedia greca.

Su quei fatti ci sono tre verità. Quella giudiziaria. Quella letteraria. Quella popolare. Oggi rimane in vita solo quella letteraria attraverso il libro dell’autore. Fu un raptus o un delitto premeditato? Il dubbio resta a distanza di tempo. E si dice anche, come racconto orale che sfuma nel tempo, che quando Barillaro uscì dal carcere tentò di riconciliarsi con la moglie. Su una cosa però tutti concordano: Saverio Montalto era un uomo molto colto. Una mente fine e sensibile. Al punto di capire, per primo, la pericolosità sociale della mentalità mafiosa. Mettendo ordine anche dal punto di vista lessicale alla terminologia della malavita. Bisogna ricordare che a quei tempi nella provincia di Reggio Calabria la mafia non era chiamata ‘ndrangheta come si chiama oggi in Calabria e nel resto del mondo ma “maffia”, con due effe. Anche Mario La Cava nelle sue opere la chiama “maffia”. E nel memoriale di Saverio Montalto c’è traccia di questo dettaglio.

Lo stesso Mario La Cava, che teneva una rubrica “Cultura e Società” all’interno del settimanale Calabria oggi diretto da Pasquino Crupi, nel primo numero del 1974, scrisse a proposito di Saverio Montalto: «Volete leggere un romanzo che si legga di un fiato, che abbia cioè una forza narrativa tale da costringervi a seguirlo dal principio alla fine con costante interesse e piacere? Leggete La Famiglia Montalbano di Saverio Montalto. Egli non è uno scrittore di professione. Guardatevi, però, dagli scrittori di professione, se non volete morire di noia. Mi riferisco, certo, agli scrittori di professione che sono solo “letterati”. Saverio Montalto viene dall’arte dello scrivere da un ripiegamento naturale dell’animo, dopo una vita tempestosa. Conosciuto per il Memoriale dal carcere, scritto nel 1940 per sua difesa…».

Quanto a La Famiglia Montalbano, aggiunge La Cava, «Si tratta di un romanzo di mafia; e ben si può dire che esso sia di parecchi anni in anticipo sull’interesse che molti scrittori italiani hanno dimostrato per tale argomento. Ovviamente si tratta di una mafia di campagna, scaltrita sì alla scuola di quella americana, ma non innalzata ancora al livello della tecnica moderna; in ogni caso, ugualmente perfida e opprimente». Il realismo picaresco di Montalto. Comunque la trama de La Famiglia Montalbano è stata tracciata da Crupi in un’edizione per le scuole medie de La Letteratura calabrese. 

Che Andrea Camilleri si sia ispirato a Saverio Montalto per dare nome al celebre commissario Montalbano? Rovesciando i ruoli, ovviamente.

Forse è una curiosa coincidenza.

[Courtesy Il Quotidiano del Sud]